Originale: The Guardian
http://znetitaly.altervista.org
9 aprile 2014

La colonizzazione della nostra vita pubblica
di George Monbiot
traduzione di Giuseppe Volpe

Come si costruisce un piatto mondo depoliticizzato, un consenso basato sul consumo e la crescita infinita, un mondo onirico di materialismo e debito e atomizzazione, in cui tutte le relazioni abbiano come prefisso il simbolo del dollaro, in cui smettiamo di batterci per il cambiamento? Si delegano i propri poteri alle imprese i cui profitti dipendono da tale modello.

Il potere è a una svolta: verso luoghi in cui non abbiamo né voce né voto. Le politiche nazionali sono forgiate da consiglieri speciali e da manipolatori della propaganda, da pannelli di esperti e comitati di consulenza pieni di lobbisti. Lo stato odiatore di sé stesso ritira la sua autorità di disciplinare e dirigere. Contemporaneamente il vuoto democratico al cuore del governo globale è colmato, senza nulla che abbia una parvenza di consenso, da burocrati internazionali e dirigenti d’industria. Le ONG cui – spesso dopo un ripensamento – è consentito di unirsi a loro non rappresentano in modo intellegibile né la società civile, né elettorati. (E, per favore, risparmiatemi le scemate sulla democrazia dei consumatori o sulla democrazia degli azionisti: in entrambi i casi alcuni hanno più voti di altri e quelli che hanno il maggior numero dei voti sono i meno inclini a premere per il cambiamento).

Per me il gigante dei beni di consumo Unilever, con cui mi sono scontrato alcuni giorni fa sul tema dell’olio di palma, simbolizza queste relazioni in cambiamento. Non riesco a pensare a nessuna entità che abbia fatto di più per confondere i confini tra il ruolo del settore privato e quello del settore pubblico. Se se ne rimuovesse il nome nel leggere le sue pagine web si potrebbe scambiare tale società per un’agenzia delle Nazioni Unite.

Sembra essere rappresentata quasi dovunque. I suoi risiedono (per citare solo alcuni nomi) nella Task Force dei Mercati dell’Ecosistema e nel Comitato Consultivo Scientifico sulla Nutrizione del governo britannico, nel Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, nella Nuova Alleanza per la Sicurezza del Cibo e la Nutrizione del G8, nel Programma Alimentare Mondiale, nel Forum Globale per la Crescita Verde, nel programma dell’ONU per il Miglioramento della Nutrizione, nella sua Rete per le Soluzioni di Sviluppo Sostenibile, nel suo Global Compact e nel Pannello di Alto Livello dell’ONU sullo sviluppo globale.

A volte l’Unilever usa bene il proprio potere. I suoi sforzi per ridurre il proprio uso dell’energia e dell’acqua e la sua produzione di rifiuti e per proiettare questi cambiamenti oltre le proprie sedi appaiono credibili e impressionanti. A volte le sue iniziative mi paiono stronzate a proprio uso e consumo.

Il suo “progetto di autostima Dove”, ad esempio, afferma di “aiutare milioni di giovani a migliorare la propria autostima mediante programmi d’istruzione”. Uno dei suoi video educativi afferma che la bellezza “non potrebbe essere più cruciale per la tua felicità”, convinzione che è sicuramente quella che, tanto per cominciare, distrugge l’autostima dei giovani. Ma naturalmente può essere ripristinata impiastricciandosi di creme marca Dove: la Unilever riferisce che l’82% delle donne in Canada che sono a conoscenza di questo progetto “avrebbero maggiori probabilità di acquistare Dove”.

A volte sembra giocare su ambo i lati del campo. Ad esempio afferma che star riducendo la quantità di sale, grassi e zucchero nei suoi alimenti lavorati. Ma ha anche ospitato e presieduto, prima delle ultime elezioni, la commissione sulla sanità pubblica del partito conservatore, che è stata vista dai dimostranti per la salute come una scusa per evitare azioni efficaci sull’obesità, le diete povere e l’abuso di alcol. Questo organismo ha contribuito a purgare politiche governative di minacce quali ulteriori restrizioni alla pubblicità e l’etichettatura semaforica obbligatoria di zucchero, sale e grassi.

La commissione ha poi prodotto un “accordo di responsabilità” tra il governo e l’industria, nel cui consiglio di amministrazione siede tuttora la Unilever. In base a questo accordo il rapporto normale tra lobbisti e governo è invertito. Le imprese stilano la politica governativa che poi è inviata a dipendenti pubblici per commenti. La disciplina è sostituita dal volontarismo. Il Guardian ha citato l’Unilever come una delle società che hanno rifiutato di firmare l’impegno volontario alla riduzione delle calorie.

Con questo non si vuole suggerire che tutto quello che suggeriscono questi pannelli e associazioni e consigli e forum sia dannoso. Ma come scrive il giornalista esperto di sviluppo Lou Pingeot, le loro analisi dei problemi del mondo sono parziali e in conflitto d’interessi, presentando le industrie come i salvatori dei popoli del mondo ma non citando mai il loro ruolo nel causare molti dei problemi (come le crisi finanziarie, l’accaparramento delle terre, la perdita di entrate fiscali, l’obesità, la malnutrizione, il cambiamento climatico, la distruzione dell’habitat, la povertà, l’insicurezza) che pretendono di affrontare.  La maggior parte delle loro proposte di soluzione richiede la passività dei governi (la povertà sarà risolta dalla ricchezza che ricade a cascata grazie a un’economia in crescita) o la creazione di contesti più amichevoli per il mondo degli affari.

Al meglio questi pannelli dominati dall’industria sono prevalentemente inutili: sedute di pavoneggiamento in cui dirigenti di vertice manifestano complessi da messia. Al peggio sono mezzi attraverso i quali imprese globali plasmano la politica secondo i propri interessi, universalizzando – nel nome della conquista dei bisogni e dello sfruttamento – le loro pratiche aziendali sfruttatrici.

Quasi tutti i protagonisti politici – comprese alcune delle ONG che un tempo si opponevano loro – sono a rischio di essere amati a morte da queste imprese. In febbraio il Guardian ha firmato un accordo a sette cifre con l’Unilever che, ha affermato l’editore, è “centrato sui valori condivisi del vivere sostenibile e della narrazione trasparente”.  L’accordo ha lanciato un’iniziativa chiamata ‘Guardian Labs’, che aiuterà i marchi a trovare “modi più coinvolgenti di raccontare la loro storia”. Il Guardian fa notare di  avere linee guida che coprono tali accordi di sponsorizzazione a garanzia dell’indipendenza editoriale.

Riconosco il fatto, e me ne rammarico, che tutti i giornali dipendono per la propria sopravvivenza dai fondi dell’industria (la pubblicità e le sponsorizzazioni costituiscono probabilmente, nella maggior parte dei casi, circa il 70% delle loro entrate). Ma questo, a me, sembra un altro passo sulla via del piacere. Come dice l’attivista ambientalista Peter Gerhardt, società come l’Unilever “cercano di cointeressare ogni conflitto”. Con ciò, penso, egli intende che abbracciano i propri critici, coinvolgendoli in un dialogo che è aperto nel senso che è aperta una pentola per le aragoste, annullando la distanza e l’identità critica fino a quando nessuno sa più chi è.

Sì, preferirei che le imprese fossero come l’Unilever piuttosto che come Goldman Sachs, Cargill o Exxon, poiché questa pare avere un senso profondo di cosa dovrebbe fare un’impresa responsabile, anche se non lo fa sempre. Ma sarebbe ancor meglio se i governi e gli organismi globali smettessero di delegare i loro poteri alle industrie. Non ci rappresentano e non hanno diritto di governare le nostre vite.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/colonizing-our-public-life/

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