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22 ottobre 2014

La leggenda smontata del T-tip
di Alberto Zoratti e Monica Di Sisto

La campagna di promozione dei governi e delle imprese sulla necessità di un accordo transatlantico si basa su stime. Ricerche portate avanti da centri studi, alcuni abbondantemente sovvenzionati dalla Commissione europea e in chiaro conflitto di interesse, che utilizzano tutte lo stesso modello previsionale. È di pochi giorni fa una pubblicazione del Global Development and Environment Institute della Tufts University del Massachusetts che prova a cambiare approccio, con risultati tutt’altro che confortanti. Uno scenario che, unito alla lettura critica dei dati di alcuni documenti ufficiali sul possibile impatto, farebbe pendere la bilancia verso un secco “no” alla continuazione dei negoziati T-tip

T-Tip? Tutto rose e fiori. Gli studi che presentano i possibili impatti del Trattato transatlantico si sprecano: oltre 12mila euro di aumento nel reddito di una famiglia media nell’arco di una vita lavorativa, secondo il centro studi Ecorys. Un aumento della disponibilità economica di 545 euro all’anno (in media) secondo la ricerca del Centre for Economic Policy Research di Londra (Cepr). Per non parlare del miracolo della creazione dal nulla di posti di lavoro: oltre un milione negli Usa e un milione e 300mila in Unione europea, secondo la Fondazione Bertelsmann. Ce n’è per tutti i gusti, in questa lotta campale che imprese e governi hanno deciso di intraprendere per far digerire un trattato di libero scambio che tanto digeribile sembra non essere, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica e di molte categorie al di qua e al di là dell’Atlantico.

Intanto un minimo di coordinate geografiche. La ricerca della Cepr, datata marzo 2013 e presentata spesso come oggettiva, non ultimo dal Commissario UE uscente al commercio De Gucht che la definisce oltre che indipendente anche un “ambizioso esperimento di modellizzazione” economica, è stata commissionata dalla Commissione Europea al centro studi con il contratto Trade10/A2/A16 La stessa agenzia di consulenza Ecorys fornisce servizi al DG Trade sulle Analisi di impatto dei negoziati di libero scambio. Quindi, liberi tutti di ricercare e pubblicare, purché si sappia da dove arrivano i soldi e soprattutto non le si presentino come letture indipendenti su cui basare le scelte politiche che impatteranno direttamente su più di 800 milioni di persone.

Ricerche che utilizzano modelli econometrici come il Cge (Computable General Equilibrium) che secondo diversi gruppi di ricerca ha il limite di non tenere in considerazione adeguata, e realistica, aspetti come la riallocazione dei lavoratori e delle lavoratrici (e quindi il calcolo del tasso di occupazione/disoccupazione) secondo il quale un contadino espulso dal mercato troverebbe facilmente lavoro nei settori in espansione creati dalla liberalizzazione, oppure l’effetto di profonda modifica nelle relazioni di import-export con Paesi terzi.

È di pochi giorni fa uno studio che cambia drasticamente questo approccio (scaricabile qui). Jeronim Capaldo, ricercatore del Global Development and Environment Institute Tufts University del Massachusetts prova  cambiare modello, usando il United Nations Global Policy Model (GPM), usato come base per i Trade and Development Report dell’Unctad. Secondo la pubblicazione “The Transatlantic Trade and Investment Partnership: Implications for the European Union and Beyond” della Tufts University il T-tip sarebbe tutt’altro che somma positiva, e l’Unione Europea rischierebbe di rimetterci di più.

Le proiezioni parlano di una perdita complessiva di posti di lavoro a livello continentale che raggiunge quota 600mila al 2025, molti dei quali in Europa del Nord, in Francia e in Germania con perdite di reddito procapire per lavoratore che, a seconda dei Paesi considerati, varia dai quasi 5500 euro in Francia ai meno 3400 euro in Germania. Una diminuzione di disponibilità economica che porterebbe a una contrazione della domanda, e quindi del Prodotto interno lordo, tra l’1 e il 2% al 2025. L’aumento dell’import – export tra le due sponde dell’Atlantico aumenterebbe grazie all’abbattimento delle barriere non tariffarie, quindi degli standard e delle regolamentazioni. Senza andare ad analizzare la qualità dei prodotti (legata agli standard sull’uso di pesticidi, o al contenuto di Ogm se ci si riferisce agli alimentari), diventa evidente che chi sarà premiato sono le imprese che già sono in grado di esportare e che già lo fanno. Con un attenzione: il fenomeno del trade diversion mostra come il commercio transatlantico potrà espandersi a spese di quello interno all’Unione Europea, una diminuzione del commercio interno che potrebbe arrivare per alcuni studi a raggiungere il 40% di diminuzione.

I comparti più colpiti? Lo evidenzia bene persino lo studio promosso da Prometeia nel 2013 e usato  come pietra miliare su cui fondare la politica Pro-T-tip del governo Renzi e del viceministro Calenda: impatti positivi avrebbe il “comparto dei mezzi di traporto, dall’automotive fino all’aerospaziale, e per i principali settori di specializzazione italiana nel commercio internazionale: meccanica, sistema moda e alimentare e bevande”, ma non mancano problemi come “la filiera chimica [...], l’agricoltura e alcuni prodotti intermedi (carta e legno), settori su cui la liberalizzazione degli scambi potrebbe avere un effetto negativo per l’Italia”. E come non potrebbe, se secondo il Directorate for Internal Policies dell’Unione Europea l’abbattimento delle barriere non tariffarie aumenterebbe del 118% le importazioni di agroalimentare dagli Stati Uniti?

E non parliamo volutamente degli standard di qualità nella gestione delle filiere agroalimentari statunitensi rispetto a quelle europee o alla regolamentazione della chimica (in Unione europea governata dal Reach, negli Stati Uniti dal Toxic Substances Act che ha quasi trent’anni).

Insomma, non è tutto oro quello che luccica nella cassaforte del T-tip. Ma di tutto questo, tra governi e cittadini non si parla. Dopo aver spacciato la pubblicazione del Mandato a negoziare della Commissione europea come un grande atto di trasparenza, peccato che quel documento fosse già stato reso pubblico più di un anno fa grazie all’azione dei movimenti sociali e che il succo vero della negoziazione sia inaccessibile persino ai Parlamentari europei, emerge come le cancellerie di entrambe le sponde dell’Atlantico si diano da fare per fare marketing sul T-tip, neanche si tratti di vendere delle pentole.

L’ambasciata britannica e quella svedese a Varsavia lanciano un concorso per studenti (in cui si chiede la “submissions on all aspects of T-tip [...] including political, economic, social, geostrategic and legal benefits”. Si vince, tra le altre cose, uno splendido viaggio tutto pagato a Londra. A Berlino l’Ambasciata americana si lancia nei “T-Tip Small Grants” non tralasciando nulla, neppure twitter: “sei Pro-T-tip e sei arrabbiato per l’informazione negativa che viene diffusa? Mandaci le tue idee e ti sosterremo!“. Più un’operazione di marketing che non un dibattito serio sulla questione.

Il T-tip, come più volte detto da realtà della società civile e gruppi di ricerca indipendenti, rischia di essere un pesante boomerang per la ripresa europea: diminuzione della domanda interna, aumento delle importazioni e maggiore dipendenza dal mercato statunitense, diminuzione del commercio intra-UE a vantaggio di quello globale. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare per favorire un’uscita sostenibile dei Paesi membri dell’UE dalla crisi economica e finanziaria.

Se veramente il viceministro Calenda crede nel principio di precauzione, dovrebbe cercare di applicarlo anche sulle analisi di impatto e sulle sempre più evidenti criticità di un Accordo che sarebbe a vantaggio di pochi, ma a svantaggio dei più. Noi non firmeremmo mai un contratto in cui i possibili vantaggi non solo sono ipotetici e sostenuti da centri di ricerche molti dei quali a contratto della Commissione Europea, ma addirittura contestati da analisi e ricerche indipendenti. Ma qui c’è da capire il viceministro italiano, nel suo ruolo chiave nella presidenza di turno dell’Unione europea, a quali interessi vuole rispondere.

 

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