http://comune-info.net
12 marzo 2014

Gli americani e la lista della spesa
di Monica Di Sisto

A Bruxelles è in corso il primo meeting di associazioni, sindacati e movimenti Usa e Ue per fermare il Trattato Transatlantico su commercio e investimenti (T-Tip). I negoziati ufficiali sono cominciati martedì e gli  Stati uniti hanno presentato una lista di settori chiave con relativi prodotti e servizi che dovrebbero esser parte dell’accordo di libero scambio per i mercati europei

Bruxelles – Piccole presentazioni di pochi minuti, con i capo negoziatori di Usa e Ue competenti per i diversi gruppi in prima fila, a fare piccole domande ai rappresentanti dei più disparati gruppi di interesse – dai sindacati, alle imprese, dalle corporations agli esportatori agricoli, dagli ambientalisti alle organizzazioni professionali europee e statunitensi – studiate per ottenere piccole risposte, il meno approfondite possibili. Il “democratico” confronto inaugurato mercoledì 12 marzo a Bruxelles dalla Commissione europea a margine della settimana di trattative ufficiali del Trattato Transatlantico su commercio e investimenti (TTIP) – fatto di gruppi di lavoro aperti e di interventi programmati dove dire la propria come in uno speaker corner – è il fiore all’occhiello della strategia dell’Unione europea per combattere le critiche contro la segretezza di un negoziato tanto importante per la credibiità politica dell’élite che l’ha lanciata, aprendo spazi di dialogo controllato.

Gli Stati Uniti, invece, con il solito approccio ruvido e diretto, hanno affidato a un comunicato stampa pubblico di ben nove pagine la “lista della spesa” dei nostri pezzi di mercato in cui vogliono entrare con i loro prodotti e servizi, articolata capitolo per capitolo e senza girarci tanto intorno. Scorrerla è istruttivo, soprattutto perché chiarisce i contorni concreti della questione, visto che si apre con la volontà dichiarata di “eliminare tutti i dazi e le tariffe sui prodotti agricoli, industriali e  di consumo, una sostanziale parte dei quali da eliminare con l’entrata in vigore dell’accordo”.

A fronte degli oltre 730 milioni di dollari di prodotti che gli Stati Uniti esportano in Europa, e della ripresa della produzione manifatturiera negli Usa, l’obiettivo è quello di vendere sempre più pezzi e componenti a quell’Europa che non li produce più, e per farlo c’è un’unica condizione: abbattere anche gli standard di sicurezza, qualità e salute che al momento li mettono fuori legge da noi. Ogm, residui chimici, di pesticidi, di ormoni, sono considerate dagli Usa “restrizioni non basate sulla scienza, ingiustificate barriere tecniche al commercio, che limitano le opportunità degli esportatori Usa di competere”.

Da parte Usa si professa di voler “mantenere il livello di sicurezza, salute e  sicurezza ambientale che la nostra gente si aspetta”, ma anche “di voler cercare una maggiore compatibilità tra livelli di regole e standard tra Usa e Ue” indicando nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, e non come un’istituzione di stato o delle Nazioni Unite, ma nemmeno in un’istituzione scientifica, il modello cui ci si vuole ispirare per liberare il commercio da queste fastidiose variabili come la salute di tutti noi e il futuro del nostro clima.

La qualità dei prodotti agricoli e del cibo in America – dove sono tuttora sul mercato sostanze e prodotti da noi vietati da anni perché provatamente tossici e cancerogeni – dovrebbero essere perfettamente legali anche da noi, secondo il comunicato del Ministero del commercio Usa, perché “si basano su evidenze scientifiche e non su ostacoli al commercio infondati”. Questo non renderebbe solo più competitive le imprese americane, assicurano, ma stabilirebbe un meccanismo permanente innovativo per risolvere questi problemi.

L’idea, dunque, è di introdurre un nuovo organismo congiunto di cooperazione sugli standard, che si porrebbe ad un livello superiore rispetto alle legislazioni nazionali e che, stando al numero di righe ad esso dedicate dal comunicato, è uno degli obiettivi più importanti da portare a casa per i negoziatori americani. Connesso a questo percorso, c’è anche quello di semplificare le regole d’origine, di prodotti e servizi per evitare che ad alcune merci vengano garantiti spazi provilegiati di mercato. Con buona pace del Made in Italy come del Borgogna questo è un altro obiettivo degli esportatori a stelle e strisce: impedire ai nostri produttori di opporsi alle loro copie a basso costo dei nostri prodotti tipici, e di abbattere le denominazioni d’origine e di qualità che sono tanto care ai consumatori attenti, ma tanto penalizzano i produttori intensivi delle due sponde dell’Oceano.

Chiudiamo con un sorriso: dallo stesso comunicato stampa apprendiamo che gli Stati Uniti, che non hanno mai sottoscritto il Protocollo di Kyoto per l’abbattimento delle emissioni climanteranti, almeno quanto una montagna di altre convenzioni internazionali per la protezione dell’ambiente si ritengono “leader nella ricerca di misure di protezione ambientale d’alto livello e di un’efficace implementazione delle leggi a difesa dell’ambiente all’interno delle regole commerciali”. Per continuare ad essere tali, affermano, vogliono “abbattere tutte le barriere commerciali in atto rispetto ai prodotti, alle tecnologie e ai servizi ambientali come l’energia pulita”, tra cui essi, però, inseriscono il gas derivato da fracking e il nucleare. C’è da pensare che prima di venerdì, quando i negoziatori saliranno sui loro aerei per tornare tutti a casa, di risate come queste ce ne saremo fatte tante tante altre. E che la preoccupazione sul futuro che ci aspetta sarà cresciuta almeno altrettanto.

top