Originale: Rdwolff.com
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12 aprile 2014

Intervista progressista
di Richad D. Wolff e Ed Rampell
traduzione di Giuseppe Volpe

Richard Wolff è emerso come uno dei più eminenti economisti progressisti degli Stati Uniti. Appare su Free Speech TV, Link TV e Pacifica Radio ed è stato ripetutamente ospite del programma di Bill Moyers, oltre ad apparire nel programma di Charlie Rose. I suoi libri includono ‘Capitalism Hits the Fan’, ‘Occupy the Economy’ e ‘Democracy at Work’ [rispettivamente, ‘Il capitalismo finisce nel ventilatore’, ‘Occupare l’economia’ e ‘Democrazia all’opera’ – n.d.t.]. E’ laureato a Harvard, ha un master alla Stanford e un dottorato di ricerca in economia alla Yale. E’ professore emerito all’Università del Massachusetts, ad Amherst, e professore ospite nel programma di laurea in affari internazionali alla New School University di Manhattan, dove risiede. Nato nel 1942 a Youngstown, Ohio, è figlio di genitori della classe lavoratrice, profughi dal nazismo. Dopo essersi trasferita in diverse località del Midwest, hanno traslocato a New York. Negli anni ’80 Wolff si candidò a sindaco di New Haven e a consigliere municipale nella lista del Partito Verde.

Ho raggiunto Wolff durante un giro di gennaio in California, dove era circondato da folle straripanti dovunque parlasse.

Domanda: Per la maggior parte della tua vita hai faticato nell’oscurità. Come ci si sente ad avere finalmente un pubblico di massa?

Richard Wolff: Mi sono dovuto pizzicare. Sto vivendo il mio grande momento. Ma non si tratta di me; si tratta del messaggio.

D: E il messaggio è?

RW: Il luogo di lavoro capitalista è una delle istituzioni più antidemocratiche sulla faccia della terra. I lavoratori non hanno voce in capitolo su decisioni che ricadono su di loro. Se i lavoratori sedessero nei consigli di amministrazione di imprese democraticamente autogestite non voterebbero a favore di una distribuzione degli utili estremamente disuguale a vantaggio di pochi e a favore di tagli per i molti.

D: Perchè i leader statunitensi ed europei delle imprese sono a favore dell’austerità? Non riduce la domanda dei loro prodotti abbassando così i loro potenziali profitti?

RW: E’ una buona domanda. Perché i dirigenti delle imprese cercano costantemente ogni modo concepibile per ridurre i costi del lavoro? Quanto maggior successo hanno i capitalisti nel tagliare i costi dei salari, tanto meno denaro hanno i lavoratori per acquistare quello che quegli stessi capitalisti producono. E’ una contraddizione.

Certo, alle imprese piacerebbero mucchi di acquisti. Ma il solo modo per far fronte a un’economia depressa consisterebbe nel tassare i ricchi, che stanno tesaurizzando i loro soldi, e trasferire le entrate nelle mani delle classi media e inferiore, perché queste sono in una condizione in cui le spenderanno non appena ne saranno in possesso. Ciò risolverebbe il problema della domanda, ma solo a spese dei ricchi e delle imprese.

Hanno fatto una scelta: preferiscono fare i duri – bastonare le masse anche a costo di perdere clienti – piuttosto che essere quelli che pagano il conto della promozione del potere d’acquisto delle masse.

E’ qui che entra in gioco la globalizzazione. Le imprese statunitensi sono a favore dell’austerità perché vogliono ridurre il potere del lavoro e risparmiare sul costo dei dipendenti, e vedono un modo per realizzare questo trasferendo le vendite dei loro prodotti dall’economia USA depressa e in devastata dall’austerità alle economie in esplosione di Brasile, Cina, India e così via.

La globalizzazione offre una scelta alle imprese statunitensi: se l’austerità paralizza il potere d’acquisto qui, loro possono comunque vendere merci; semplicemente le venderanno altrove. Gli Stati Uniti sono in corso di riconfigurazione come economia focalizzata sull’esportazione. E’ la politica di Obama. E’ un modo di gestire la domanda quando l’austerità sottopone a una stretta il potere d’acquisto della classe lavoratrice nazionale.

D: Che cosa pensi del presidente Obama?

RW: Guardo a Obama collegandolo al ruolo che svolge nel vasto contesto di ciò che sta succedendo negli Stati Uniti. L’ultimo mezzo secolo della storia statunitense è stato una sistematica retromarcia riguardo a ciò che era stato conquistato dalla pressione dal basso negli anni ’30 e ’40.

La retromarcia dal New Deal alla fine è sfociata nel 2008 in una crisi economica davvero grave, che è stata la cosa più vicina alla Grande Depressione che abbiamo mai avuto. Ci voleva più che mai una distrazione, qualcuno che sembrasse un ‘outsider’, una nuova faccia fresca: un giovane, attiva afroamericano. Quanto si può essere più outsider negli Stati Uniti?

Naturalmente è un fenomeno notevole che qualcuno tenuto ai margini degli Stati Uniti – l’afroamericano emarginato, sottomesso – possa effettivamente aprirsi la strada fino alla Casa Bianca.

Ma la presidenza Obama sta continuando a invertire il New Deal. Sfortunatamente è questo il ruolo che Obama ha svolto e l’eredità che lascerà.

D: Che cosa pensi quando Obama è accusato di essere un ‘socialista’?

RW: E’ un riflesso del fatto che viviamo in un paese che ha così confuso e demonizzato il socialismo che chiunque può attribuire qualsiasi aggettivo a chiunque altro. Ha la stessa chiarezza di affermare “è cattivo” o “non è corretto”; il punto sta nel condannare, ma il termine è così vago e astratto oggi che non ha significato. Quando viene dalla destra non ha più significato che quello che Obama è uno che crede che il governo abbia un ruolo importante da svolgere nella vita economica. E’ vuoto verbale, un modo per far sì che gli altri pensino male di qualcuno che non ti piace.

Di sicuro Obama non ha mai affermato di essere,  né ha mai fatto qualcosa che lo qualifichi come socialista in nessun senso. Non ha senso.

D: Con il potere sempre più nelle mani dei capitani d’industria persiste il mito che gli azionisti controllino le imprese.

RW: Hai ragione, ma ciò cui ti riferisce è un “diritto formale”, ma non un “diritto sostanziale”. Sì, puoi acquistare un’azione ma ciò non ha alcun significato concreto per una società perché un settore minuscolo degli azionisti statunitensi detiene una porzione enorme di tutte le azioni. Partecipare all’azionariato in qualche modo significativo è qualcosa che la maggior parte delle persone nelle società capitaliste, in realtà, non è mai stata in grado di fare.

Nella maggior parte delle imprese capitaliste, e certamente nelle maggiori imprese che dominano le economie capitaliste, l’organizzazione del lavoro è fortemente stratificata. Al vertice ci sono gli azionisti principali, solitamente da dieci a venti persone che detengono i blocchi maggiori delle azioni della società. Grazie a ciò hanno il potere di voto di tutte quelle azioni e ciò dà loro l’autorità, in base alla legge, di scegliere il consiglio di amministrazione, da quindici a venti persone.

Insieme, i maggiori azionisti e il consiglio d’amministrazione, trenta o quaranta persone, prendono tutte le decisioni fondamentali di un’impresa: che cosa l’impresa produrrà, come, dove e, infine, che cosa fare degli utili che l’impresa genera. Alla grande maggioranza dei lavoratori in un’impresa capitalista è prescritto di convivere con le conseguenze delle decisioni prese da una minuscola minoranza.

D: Qual è l’alternativa?

RW: L’impresa cooperativa è l’alternativa chiave all’impresa capitalista tradizionale. Tutti i lavoratori, qualsiasi cosa facciano all’interno di un’impresa, devono essere in grado di partecipare ad arrivare collettivamente in modo democratico alle decisioni su cosa, come, dove produrre e su che cosa fare degli utili. “Una persona, un voto” dovrebbe essere il metodo per decidere come si fanno le cose.

Il motivo per cui siamo interessati a operare una transizione dall’organizzazione capitalista gerarchica delle imprese a un’organizzazione radicalmente diversa, cooperativa o democratica, è semplice: riteniamo che l’organizzazione capitalista abbia concluso il suo periodo di utilità per l’umanità. Non è più in grado di mantenere le promesse.

Sta generando profitti e prosperità per una minuscola minoranza della popolazione e determinando non il bene ma il male per la maggior parte delle persone. Il posto di lavoro è costantemente più insicuro, la disoccupazione è elevata ed elevata durevolmente, i vantaggi sono sempre più ridotti e le prospettive per i nostri figli sono anche peggiori, poiché un numero sempre maggiore di loro incorre in debiti sempre più pesanti per conseguire lauree che non offrono loro il lavoro e il reddito per liberarsi da quei debiti.

La crisi che sopportiamo è il risultato di un sistema economico la cui organizzazione è qualcosa che dovremmo mettere in discussione, dibattere e cambiare.

D: Qual è la tua definizione di una cooperativa e di un collettivo?

RW: Il termine “cooperativa”, per definire un’impresa, è molto antico. Le cooperative esistono da molti secoli, in tutto il mondo, e anche in tutta la storia degli Stati Uniti. La definizione significa una varietà di cose.

A volte cooperativa significa che un gruppo di produttori di qualcosa si mette insieme e condivide – è cooperativamente proprietario di – una delle sue attività.

Ad esempio: un gruppo di coltivatori, nessuno dei quali ha fondi sufficienti per comprare la terra che ha necessità di lavorare, può a volte formare una cooperativa per mettere insieme il denaro di tutti e poi permettersi collettivamente di comprare la terra. Si mettono d’accordo di coltivare diversi lotti del terreno ma di esserne proprietari collettivamente.

Un altro esempio è la vinificazione. In tutto il mondo, particolarmente in Europa, è molto comune che i vini siano prodotti e venduti da una cooperativa.

La crescita materiale dei grappoli e la produzione del vino è seguita da coltivatori singoli, con o senza dipendenti. Il termine “co-op” non si applica qui al lavoro materiale effettuato, bensì al fatto che i coltivatori si uniscono e letteralmente riversano il proprio vino. Riversano il vino che ciascuno di loro ha prodotto nel proprio tino in un tino centrale e poi collaborano nel venderlo. Ottengono di più vendendo il vino di grandi quantità a grandi acquirenti piuttosto che vendendolo individualmente. Questa è a volte chiamata una cooperativa di commercializzazione o di vendita.

Il termine “collettivo” non è usato frequentemente perché è stato fondamentalmente utilizzato da socialisti e comunisti e ha una storia diversa. Il termine “cooperativa” – cui io sono interessato e cui oggi la gente negli Stati Uniti e in altre parti del mondo sta diventando ogni giorno più interessata – significa che lo stesso luogo di lavoro è organizzato cooperativamente, piuttosto che nella forma gerarchica tradizionale capitalista.

D: Alcuni esempi di cooperative statunitensi?

RW: Abbiamo creato un sito web dove sono forniti moltissimi esempi: www.democracyatwork.info. I Panifici Arizmendi sono un esempio. Ce ne sono cinque tutti collegati attraverso una società madre, situati nell’area della Baia [di San Francisco – n.d.t.]. Sono interamente gestiti dai lavoratori, quelli che cuociono il pane e la pasticceria, producono il caffè, fanno gli acquisti, provvedono alla manutenzione dei locali, eccetera. Per molti giorni si occupano dei compiti specifici della divisione del lavoro che hanno creato per sé stessi. Ma poi periodicamente tutti i lavoratori si riuniscono e non si occupano del proprio compito particolare. Invece discutono e dibattono collettivamente a proposito di che cosa produrre, come produrlo, dove produrlo, se ampliare l’attività e così via. Quelle decisioni sono prese in modo democratico.

Ci sono centinaia, forse migliaia di queste cooperative di lavoratori o di produttori. Molte imprese, compresi nomi famosi come la Apple, se si torna indietro e si guarda agli inizi, può sorprendere rilevare che erano cooperative. I fondatori originali erano spesso lavoratori scontenti di essere semplici dipendenti dell’azienda di qualcun altro e così si sono uniti ad altri, spesso in giovane età, e hanno messo insieme le loro energie e il loro entusiasmo e hanno creato un tipo diverso di impresa. Questo è molto comune nella Silicon Valley.

Ogni anno centinaia – in alcuni anni migliaia – di ingegneri lasciano il loro lavoro presso grandi società come IBM, Oracle o Cisco e si mettono insieme con amici e dicono: “OK, vogliamo avviare un tipo diverso di attività. Prenderemo tutti i nostri portatili e ci riuniremo nel garage di Harry e non vogliamo andare a lavorare ogni giorno in completo e cravatta o per qualche dirigente che non ne capisce nulla di computer e che ci dice che cosa fare. Basta con i discorsi a vanvera; sono opprimenti, uccidono la nostra creatività. Vorremmo andare in un posto dove non ci siano capita, dove siamo tutti uguali.”

Ed è questo che hanno fatto. E in molti casi sono stati molto rigidi: tutte le decisioni vanno prese all’unanimità. Tutti sono uguali.

Nulla ridurrebbe più rapidamente e decisamente la disuguaglianza di reddito negli Stati Uniti che consentire a ogni lavoratore di ogni azienda di partecipare alla decisione della gamma di redditi da un lavoratore a un altro. Non farebbero mai quello che è adesso è considerato normale: dare milioni a uno, in alcuni casi miliardi, mentre gli altri hanno a malapena di che vivere.

Negli Stati Uniti discutiamo tutto, fuorché il capitalismo. Se c’è un’istituzione nella nostra società che è al di là di ogni critica, le si conferisce un salvacondotto per indulgere in tutte le sue debolezze e tendenze oscure.

Una società onesta e sana non si asterrebbe mai dal discutere dove ci troviamo con il capitalismo. Possiamo far meglio? Come potrebbe funzionare?

Passare a un’impresa organizzata cooperativamente è uno dei modi migliori per fare realmente qualcosa riguardo alla distribuzione disuguale della ricchezza.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/the-progressive-interview/

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