Originale:  Orion Magazine
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28 giugno 2014

L’economia cooperativa
Scott Gast intervista Gar Alperovitz per Orion Magazine
traduzione di Giuseppe Volpe

A metà degli anni ’60, quando lo scrittore, storico ed economista politico Gar Alperovitz lavorava da direttore legislativo per il senatore Gaylord Nelson, il cambiamento era nell’aria. L’inchiostro si era asciugato su una prima versione della legge sull’Aria Pulita, il movimento per i diritti civili aveva conquistato grandi vittorie ed era in preparazione la prima Giornata dellaTerra. Gli Stati Uniti affrontavano ancora un mucchio di gravi sfide, ma molti statunitensi sentivano che il loro paese era capace di occuparsene con successo.

Oggi le cose appaiono molto diverse. “Dal cambiamento climatico e un livello medievale di disparità della ricchezza, quella che affrontiamo in questo paese non è più una crisi delle norme”, dice Alperovitz. “Affrontiamo una crisi sistemica. E se si parte da questo ci si comincia a chiedere: è il capitalismo stesso a essere in grosse difficoltà?”

Alperovitz pensa di sì. Autore di molti libri sull’argomento, tra cui America Beyond Capitalism [Stati Uniti oltre il capitalismo], e professore di economia politica presso l’Università del Maryland, egli indica la crescente disfunzionalità del capitalismo e l’impulso alla crescita di un’altra economia, costruita da zero da organizzazioni a proprietà democratica, come cooperative, organismi fiduciari fondiari comunitari e istituzioni municipali.

Il redattore di Orion, Scott Gast, ha parlato con Alperovitz dopo la pubblicazione del suo libro più recente ‘What Then Must We Do? Straight Talk About the Next American Revolution’ [Cosa dobbiamo fare, allora? Discorso diretto a proposito della prossima rivoluzione statunitense], che indaga se l’economia cooperativa può offrire i semi di un sistema che non è capitalismo e non è socialismo, ma qualcosa di interamente nuovo.

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SCOTT GAST: Lei ha riflettuto, scritto e parlato a lungo di alternative al capitalismo. Da dove è iniziato il suo interesse per le cooperative?

GAR ALPEROVITZ:  Il mio interesse è iniziato nel 1977 quando una grande industria siderurgica, la Youngstown Sheet and Tube, dichiarò fallimento. Cinquemila persone a Youngstown, Ohio, persero il lavoro nel giro di un giorno, il che fu disastroso. Licenziamenti di quella dimensione oggi sono comuni – specialmente quando imprese multinazionali trasferiscono altrove il capitale – ma nel 1977 era un vicenda da prima pagina a livello nazionale. Era una faccenda grossa, molto grossa.

Ma i leader della comunità e gli operai siderurgici di Youngstown decisero che non dovevano affondare senza combattere. Si unirono e crearono una coalizione per riacquistare l’acciaieria e gestirla essi stessi, attraverso una comproprietà comunità-lavoratori. Cominciarono a organizzarsi localmente e a livello statale e presto l’amministrazione Carter accettò di fornire fondi per assumere esperti che potessero aiutarli con i progetti tecnici dell’acciaieria.

Le cose apparirono ottimistiche fino alle elezioni di medio termine del 1978, dopo le quali i fondi di Carter scomparvero e il progetto andò a pezzi. Fu un grave colpo, ma tutti quelli coinvolti nella coalizione sapevano che sarebbe potuto accadere. Compresero che parte del loro lavoro consisteva nell’educare la gente a proposito di questa forma alternativa di proprietà, perché quello che era accaduto a Youngstown sarebbe accaduto in altre comunità e perché a un certo punto avrebbero potuto vincere la battaglia. Così avviarono una campagna di formazione in tutto l’Ohio e cominciarono a parlare di proprietà comunitaria e operaia come mezzo per salvare città e paesi dalla rovina.

Perciò, anche se l’esperimento di Youngstown fallì, esso ebbe successo in un senso molto più vasto: circa trentacinque anni dopo ci sono oggi molte aziende di proprietà dei lavoratori nello stato dell’Ohio e il sistema di sostegno per crearle è uno dei migliori della nazione. Non conosciamo il numero esatto, ma un numero molto elevato, pro capite, in Ohio, è riconduzione a questo sforzo formativo. 

SCOTT: Che cos’è esattamente un’azienda di proprietà dei lavoratori? Che cosa la rende diversa da un’impresa tradizionale?

GAR: Una società di proprietà dei lavoratori, o cooperativa, è essenzialmente un’istituzione o  un’impresa economica di proprietà e sotto il controllo dei lavoratori in cui vale il principio “una testa, un voto”. Nell’esperienza cooperativa statunitense sono comprese cooperative agricole, cooperative di assicurazioni, cooperative alimentari, cooperative immobiliari residenziali, cooperative di assistenza sanitaria, cooperative di artisti, cooperative dell’elettricità, cooperative del credito, e molte altre. Grandi cooperative al dettaglio con cui molti statunitensi hanno familiarità includono la REI, la società di  vendita abbigliamento e attrezzature per la vita all’aperto, e l’ACE, la cooperativa di acquisto di hardware.

La forma moderna di cooperativa risale spesso alla Rochdale Society of Equitable Pioneers, fondata in Inghilterra negli anni ’40 del 1800, anche se altre organizzazioni economiche cooperative sono estite lungo tutta la storia umana. Circa nello stesso periodo, furono create cooperative negli Stati Uniti da parte del sindacato National Trades e dal movimento associazionista. E molte cooperative agricole datano dagli anni ’30 del 1900 e dal New Deal.

Ma, a parte il fatto di essere di proprietà dei membri piuttosto che di azionisti o di singoli individui, le cooperative differiscono da molte imprese tradizionali per il loro valori e motivi. Inoltre non è richiesto loro di crescere, anche se possono farlo e lo fanno, il che è importante in termini di progettazione di un’alternativa al capitalismo, perché dobbiamo andare oltre l’esistente spinta dell’economia a utilizzare risorse e produrre rifiuti, comprese le emissioni di carbonio, in quantità sempre crescenti.

SCOTT: La proprietà operaia e comunitaria esiste in forme diverse dalle cooperative?

GAR: Sì, ci sono numerose varietà di queste istituzioni: da piani di proprietà azionaria dei dipendenti a imprese municipali e fondi fiduciari fondiari comunitari.

Nei piani di proprietà azionaria in capo ai dipendenti, i diritti di voto sono gestiti da un fondo fiduciario, non dai lavoratori. Queste organizzazioni solitamente creano la proprietà operaia mediante speciali incentivi fiscali offerti ai capi delle aziende che poi decidono di vendere l’impresa ai dipendenti. Questo sono la forma di gran lunga prevalente di proprietà operaia negli Stati Uniti; ce ne sono oggi circa 11.000. Più di dieci milioni di persone sono coinvolte come proprietarie in virtualmente ogni settore; alcune imprese sono molto vaste e sofisticate, come la Publix Super Markets, mentre altre sono di dimensioni più modeste.

Le aziende municipali – o imprese di proprietà delle amministrazioni locali – sono una forma su larga scala di proprietà democratizzata. Le amministrazioni locali gestino spesso società di servizi, contribuiscono a costruire infrastrutture di telecomunicazioni e Internet e investono nei trasporti di massa. Le amministrazioni cittadine hanno sempre più trasformato queste imprese per far loro promuovere occupazione e stabilità economica locale.

Le fiduciarie fondiarie sono una terza forma. Essenzialmente società non a fini di lucro possiedono alloggi e altre proprietà in modi che prevengono la gentrificazione e sostengono le residenze a basso reddito. Nel 2012 operavano 255 fiduciarie fondiarie in 45 stati e nel District of Columbia.

SCOTT: Lei ha citato in precedenza che, sulla scia del crollo della Youngstwon Sheet and Tube ci sono molte imprese di proprietà dei lavoratori in Ohio. Può descriverne una?

GAR: Nel quartiere Glenville di Cleveland – che è un quartiere povero, prevalentemente nero, con elevata disoccupazione e con un reddito media di 20.000 dollari – esiste un complesso di aziende di proprietà operaia chiamato Evergreen Cooperatives.

L’Evergreen non è un insieme di cooperative piccole; sono aziende di dimensioni considerevoli collegate tra loro attraverso una società comunitaria non a fini di lucro, e impiegano molte persone del luogo. La serra urbana più grande degli Stati Uniti, la Green City Growers Cooperative, è una delle società del complesso ed è in grado di produrre tre milioni di cespi di lattura l’anno, oltre ad altre verdure.  C’è anche la Evergreen Cooperative Laundry, che è una lavanderia su scala industriale che serve ospedali e case di cura dell’area; è ospitata in un edificio certificato LEED e usa circa un terzo calore e un terzo dell’acqua delle lavanderie comuni. E c’è un’azienda di installazione del solare, la Evergreen Energy Solutions, che impiega uomini e donne dei quartieri poveri di Cleveland e ha recentemente installato un’unità solare da 42 kilowatt su tetto della Clinica Cleveland.  

Ma ciò che rende questo complesso particolarmente interessante è il modo in cui è ancorato alla propria comunità: in mezzo a questo quartiere poverissimo ci sono due grandi ospedali. La Clinica Cleveland è uno; l’altro, l’University Hospitals, è collegato alla Case Western Reserve University. Assieme, le due istituzioni acquistano circa miliardi di dollari – miliardi! – di beni e servizi l’anno, acquistate fino a tempi recenti quasi interamente fuori dalla comunità. Oggi invece hanno cominciato a dirigere parte di questo potere d’acquisto a questo complesso di cooperative.

In questo modello queste grandi istituzioni semi-pubbliche sono chiamate “istituzioni ancora”. Diversamente dalle grandi società non si svegliano e se ne vanno; sono ancorate ai loro quartieri e muovono l’economia locale.

SCOTT: Sicuramente, tuttavia, queste istituzioni ancora cercano di acquistare beni e servizi a prezzi bassi. Che cosa impedisce a una società – come Walmart – di trasferirsi ai margini della città e di battere le cooperative locali vendendo la stessa roba a meno? In altre parole, come può un’economia cooperativa sopravvivere all’economia di mercato prevalente?

GAR: Beh, oltre al loro rapporto con le istituzioni ancora, alcune cooperative stanno cominciando ad acquistare le une dalle altre al fine di ampliare e stabilizzare i loro mercati. Ad esempio, sono appena stato in Texas, dove si lavora per costruire un sistema di cooperative che acquistano da altre cooperative e che a loro volta vendono a sistemi scolastici regionali pubblici. In generale, col raggrupparsi di queste cooperative e il loro divenire più sofisticate, riescono anche a divenire meglio in grado di sopportare la pressione dell’economia di mercato.

Un mercato stabile significa anche che la crescita non è un imperativo, cosa che è importante in termini di sostenibilità ambientale. Solitamente è la paura dell’instabilità o di essere battuta sui prezzi che muove il desiderio di un’azienda di crescere: se qualcun altro investe in un nuovo macchinario che produce le cose a un prezzo leggermente inferiore al tuo, tu o investi e accresci a sufficienza il tuo mercato per pagare il macchinario oppure fallisci. Ciò che questo significa è che le imprese si divorano l’una l’altra; l’impresa che vince sostituisce i perdenti e i perdenti sono buttati a mare.

SCOTT: Ma un certo grado di competizione tra le imprese non è salutare?

GAR: Assolutamente, fino a un certo punto. Ma anche la stabilità della comunità è importante. E l’economia attuale non la garantisce. Il che è stato disastroso per molte ragioni. Cleveland, ad esempio, era un tempo sede delle direzioni di più aziende della classifica delle 500 di Fortune rispetto a qualsiasi altra città, esclusa New York. Oggi se ne sono andate quasi tutte. La popolazione della città è passata da 900.000 a meno di 400.000 abitanti, il tutto perché il potere delle decisioni economiche è stato lasciato alle società, lasciando vulnerabile la città. E’ una desolazione adesso; abbiamo buttato via le case, le scuole e le aziende locali per 500.000 persone. Il che si accompagna anche a un elevato costo in termini di carbonio. A Detroit va anche peggio, dove è stato costretto ad andarsene un milione di persone. E le persone non spariscono; hanno bisogno di case e ospedali e scuole da qualche altra parte.

Tutto questo è molto, molto costoso per le persone e per le località, il che significa che esiste un incentivo, se lo si fa nel modo giusto, a cominciare a stabilizzare queste comunità e le loro economie locali.

SCOTT: Quello che sta succedendo a Cleveland sembra rappresentare qualcosa di più sofisticato del tradizionale punto vendita della cooperativa all’angolo. Queste aziende stanno alimentando un insieme di idee tanto quanto forniscono prodotti e servizi.

GAR: Esatto. Presi insieme, questi sforzi stanno cominciando ad affrontare una delle questioni fondamentali al centro di molte crisi, e cioè: chi controlla la ricchezza?

In tutta la storia il controllo della ricchezza è una grossa parte del controllo politico e, in conseguenza, della presa di decisioni riguardo al futuro. E i quattrocento più ricchi degli Stati Uniti dispongono di una ricchezza superiore a quella dei 180 milioni che stanno più in basso. Così i tentativi di città come Cleveland di cambiare gli schemi della proprietà della ricchezza su scale piccole e medie, scale locali o regionali, sono molto importanti in termini di costruzione di potere politico. Lo stanno facendo su scala di quartiere, mediante forme cooperative, e nell’ambito di un contesto ecologicamente efficiente.

Diversamente dalle grandi società, che hanno ogni interesse a tagliare i costi ogni volta che sia possibile, le istituzioni cooperative radicate localmente sono intrinsecamente responsabili nei confronti della gente e del luogo. Forniscono ai locali un interesse nell’impresa, il che significa che la salute della comunità viene al primo posto. I locali hanno buoni posti di lavoro e la terra, l’aria e l’acqua sono trattate con cura.

SCOTT: Perché queste forme proliferano oggi? Che cosa muove la sperimentazione?

GAR: In una parola: la sofferenza. Molte comunità non sono semplicemente in grado di gestire i loro problemi occupazionali. In una città come Cleveland, o in qualsiasi grande città, quanto a questo, lo schema tipico per l’occupazione è: “Le grandi imprese ricercano grandi sussidi per venire in città, tentando contemporaneamente di evitare le regole, ogni volta che è possibile, perché rispettarle è costoso”. La città è messa alle strette, perché ha bisogno di creare occupazione e così è costretta a farla corta e raggiungere un accordo.

Le comunità hanno bisogno di alternative a questi difficili confronti con le grandi imprese. Senza di esse molte semplicemente vanno in rovina e a meno che tentino qualcosa di nuovo, le cose probabilmente peggioreranno. E così troviamo, in tutto il paese, tentativi di avvantaggiarsi dall’esperienza di città come Cleveland e dai suoi esperimenti con le strutture di proprietà dei lavoratori.

SCOTT: Quali sono alcuni esempi di questo tipo di cosa – il modello Cleveland – all’opera altrove nel paese?

GAR: A Boulder, Colorado, c’è un importante tentativo della città di rilevare una grande azienda elettrica, che fino a questo punto è stata gestita da una società privata dell’energia.  Fa parte di un tentativo di abbandonare le forme inquinanti di energia e di passare al solare e ad altre rinnovabili. Sinora i successi sono stati sudati. Gli attivisti di Boulder si sono resi conto che disciplinare l’impresa era senza speranza, così hanno aiutato la loro città a battersi per la proprietà del servizio. Recentemente hanno vinto, a grande maggioranza, in un secondo referendum e, in conseguenza, stanno continuando a prendere le distanze dai combustibili fossili.

La gente di Boulder si è resa conto che tentare di disciplinare le società lasciando la proprietà nelle loro mani lascia anche il potere nelle mani di quelle istituzioni. Ma rendere municipale il loro servizio – che è una forma di democratizzazione – restituisce anche potere decisionale alla comunità.

Ci sono letteralmente centinaia di esperimenti in corso a livelli diversi che puntano a cambiamenti nella proprietà come modo per costruire nuove istituzioni – istituzioni che emergono da un insieme di valori di spirito più locale. Il modello Cleveland sta proliferando in tutto il paese; c’è un tentativo simile ad Atlanta, tre nell’area di Washington D.C., uno a Pittsburgh, uno a Cincinnati e uno nuovo nel Bronx. La maggior parte della gente non si rende conto che il 25 per cento dell’elettricità statunitense è fornita da proprietà municipali o cooperative, e gran parte di essa nel Sud tradizionalmente conservatore.

Scott: Quante persone e quanto capitale sono coinvolti nelle istituzioni cooperative?

GAR: Ci sono circa 130 milioni di statunitensi che sono membri di cooperative. Il settore delle cooperative di credito, che fa parte del settore cooperativo, ha più o meno lo stesso capitale di una qualsiasi delle grandi banche di New York. Il settore non a fini di lucro costituisce circa il 10 per cento dell’economia. E vi si possono aggiungere i piani di azionariato dei dipendenti, le imprese municipali e le fiduciarie fondiarie comunitarie.

A un livello leggermente più vasto, venti stati hanno introdotto leggi per creare banche di proprietà pubblica. La Bank of North Dakota, ad esempio, che è una banca di proprietà statale da circa un secolo, dà al pubblico il controllo sugli investimenti ed è molto popolare tra i residenti.

Tutto questo fa parte di un movimento più vasto verso settori dell’economia a controllo e proprietà democratici, che sta lentamente costruendo nuove istituzioni e infondendo in essere una cultura, un’etica e un’attenzione all’ambiente diverse.

Scott: Se queste attività riusciranno a continuare e a mantenersi in crescita, qual è il passo successivo? Può essere raggiunta una qualche specie di massa critica, conseguita la quale si presenti un sistema economico alternativo agli statunitensi medi?

GAR: Stiamo parlando di costruire le fondamenta di idee e cultura, che possono poi cominciare ad assumere potere politico. E’ ciò che è successo all’epoca del movimento progressista, del movimento delle donne, del movimento populista e del movimento per i diritti civili.

C’è anche qualcosa di molto statunitense in questo processo dal basso all’opera qui. Non è affatto simile al vecchio modello europeo stato-centrico. Comincia invece dal chiedersi: “Che cosa si può fare nel proprio quartiere? Che cosa si può fare nella propria città? Si può costruire a livello di quartiere, città, stato un’intera cultura istituzionale che fissi i termini di riferimento per un sistema più vasto?”

SCOTT: Quello che lei descrive mi ricorda per certi versi il bioregionalismo, l’idea che gli insediamenti e le economie umane dovrebbero essere dimensionate in conformità a distinte regioni ecologiche.

GAR: Sì, penso che la dimensione sia un aspetto molto importante di questo. Tendiamo a non ricordare quanto giganteschi siano gli Stati Uniti in confronto con altri paesi: si potrebbe prendere l’intera Germania e farla stare nello stato del Montana. E’ molto difficile organizzare una politica democratica in un paese di tali dimensioni. Le grandi società sono in grado di dominare i media e di dominare la capitale, come abbiamo visto.

Dunque la logica punta effettivamente in direzione di una struttura regionale di qualche genere: New England, il Nord-Ovest Pacifico, il Midwest superiore. O lo stato della California, che è esso stesso una regione gigantesca. In realtà il dibattito su ciò ebbe luogo negli anni ’30 tra liberali, conservatori e radicali. L’Autorità della Valle del Tennessee, ad esempio, fu avviata come un organismo regionale incentrato su un sistema fluviale.

Tuttora, comunque, dobbiamo pensare a dimensioni sia piccole sia grandi. In futuro, ad esempio, se qualcuno vorrà ancora usare un aereo per attraversare il continente, o prendere un grande treno, il lavoro di costruzione di aerei e treni non sarà svolto in un quartiere. Quel genere di opere richiede istituzioni più vaste e più sofisticate e dovremmo riflettere anche su di esse.

SCOTT: La dimensione del nostro paese, assieme alla sua concentrazione di potere politico, sembra impedire progressi in ogni sorta di problemi, compreso il cambiamento climatico. Dovremmo allora cominciare dal piccolo e tentare di affrontare tale problema comunità dopo comunità, regione dopo regione?

GAR: Come probabilmente avrà notato, la mia propensione è a partire sempre dalla dimensione più piccola possibile. Alla fine, a meno che la cultura cambi dall’alto in una direzione favorevole ai valori ecologici e orientati alla comunità di cui stiamo parlando – e penso ci sia un movimento in tale direzione – nulla cambierà.

Ma in termini di cambiamento climatico alla fine dovremo occuparci del problema delle mega-imprese, perché è il potere di tali società che ha distorto il sistema politico. Come abbiamo visto, è quasi del tutto impossibile disciplinare le emissioni di gas serra: le imprese sostengono la tesi, particolarmente con il peggiorare dell’economia, che non possono sostenere il costo della regolamentazione. E così la politica fallisce in ciò; le emissioni continuano a espandersi.

E’ interessante notare che gli economisti della Scuola di Economia di Chicago guardavano ai principi sottostanti questo problema negli anni ’30 e ’40. Da quegli stessi avevano insegnato a Milton Fridman – il famoso economista conservatore – era sostenuta la tesi che in un libero mercato il potere delle mega-imprese è semplicemente schiacciante. Sono così potenti che distorcono concretamente il mercato e soffocano la competizione. Ricordiamolo: questi erano conservatori!

In seguito economisti della stessa scuola di pensiero hanno sostenuto che se si cerca di regolare, le grandi società si impossesseranno dei regolatori, poiché tali società sono più potenti di loro. E facendo un passo più avanti di loro noi oggi sappiamo che anche se le grandi imprese fossero smontate mediante leggi antitrust, si raggrupperebbero semplicemente sotto altro nome; il pesce grande mangerà quelli piccoli e ben presto ci si ritroverà da capo; è questo che è successo con l’AT&T e la Standard Oil.

Così questi economisti affrontarono il dilemma di petto: se non si possono disciplinare le grandi imprese perché hanno un potere maggiore dei regolatori, e se non le si possono smontare, fu sostenuto che la sola scelta rimasta consisteva nel renderle imprese pubbliche. E’ arduo definire socialisti i maestri di Milton Friedman, ma in realtà è questo che alcuni di essi conclusero.

In termini di cambiamento climatico, dove il potere delle grandi imprese è uno degli ostacoli principali a un cambiamento significativo, penso che dobbiamo affrontare la stessa risposta: restituire il potere concentrato nelle grandi imprese alle comunità attraverso la proprietà pubblica. Per arrivarci dobbiamo costruire una cultura che sia meno spaventata da queste idee, una cultura in cui le persone facciano esperienza, nelle loro stesse vite, di cooperative, aziende municipali, fiduciarie fondiarie; di democrazia partecipativa diretta locale.

SCOTT: Quello che lei sta descrivendo – la democratizzazione della ricchezza, a cominciare dal livello locale – è una specie di socialismo? Oggi, naturalmente, c’è così tanta prevenzione contro quel termine.

GAR: Beh, certamente non sarebbe accurato affermare le che cooperative nella loro forma attuale – istituzioni economiche di proprietà democratica – sono entità socialiste. Ma un’azienda municipale potrebbe essere chiamata “socialista”. Una fiduciaria fondiaria di quartiere di proprietà del quartiere o controllata da una città potrebbe essere chiamata “socialista”.

Dunque sì, quell’accusa può essere mossa, ma la differenza chiave tra ciò che io sto descrivendo e ciò che la maggior parte delle persone considera socialismo è che con il socialismo la proprietà della ricchezza e il potere sono tradizionalmente concentrati nello stato e nel suo governo nazionale. La visione che sta emergendo da questi esperimenti nel paese è un anatema da quel punto di vista. Comincia nei quartieri e nelle comunità, nelle città e negli stati. Riguarda il decentramento del potere, cambiando il flusso del potere verso le località anziché verso il centro.

Ma io penso che le vecchie preoccupazioni a proposito della retorica socialista provengano dalla Guerra Fredda. Quelli sotto i trent’anni che costruiranno la prossima politica nei prossimi tre decenni cercano risposte; non penso siano molto interessati a quella vecchia retorica. Ciò che è più importante è che le risposte siano pratiche. E’ questo che stiamo trovando. Ad esempio a Cleveland il complesso di proprietà dei lavoratori sta dando alla gente lavoro e un interesse nel futuro delle sue comunità.

Persino i conservatori sono risultati favorevoli a questi esperimenti locali. La gente lo dimentica, ma Ronald Reagan, ad esempio, era un grande sostenitore delle imprese di proprietà dei lavoratori ed è pubblicamente documentata la sua convinzione che saranno una parte importante del nostro futuro.

SCOTT: Nei suoi scritti e discorsi lei ha usato l’espressione “ricostruzione evolutiva”  per descrivere il lavoro dei prossimi diversi decenni. Che cosa intende?

GAR: Ciò di cui parlo è la ricostruzione di una cultura di comunità in questo paese. Né una semplice riforma di istituzioni vecchie né una “rivoluzione”. E questo è un progetto che dipende non soltanto da lavoro a livello locale, ma anche dalla costruzione di istituzioni e da un cambiamento a lungo termine. Non si tratta semplicemente del cambiamento climatico o di qualsiasi altro problema; si tratta di riconcepire noi stessi come persone che si curano del paese e vogliono muoverlo in una direzione diversa. Io penso che i giovani colgano questo e lo comprendano istintivamente.

Attraverso tutto questo dovremmo ricordare di considerarci agenti della storia. Stiamo affrontando problemi sistemici, come il cambiamento climatico, che sono di portata storica. E non si cambiano i sistemi se non si pensa in termini di decenni. Ricordiamo che le grandi svolte si verificano in continuazione nella storia mondiale: la rivoluzione americana, la rivoluzione francese, persino il movimento ambientalista moderno. Ma tutte queste cose si sono sviluppate per trenta o quarant’anni prima di esplodere. Ciò vale per il movimento per i diritti civili: ci sono state persone negli anni ’30 e ’40 i cui nomi non abbiamo mai sentito e che stavano sviluppando una visione a lungo termine che ha reso possibile ciò che è accaduto negli anni ’60. Senza quel genere di visione non c’è base per un cambiamento più vasto.

Sviluppare un’alternativa al capitalismo orientata democraticamente non è qualcosa che si fa da un giorno all’altro. Questo lavoro richiede un senso diverso del tempo e un profondo sentimento di dedizione; il prezzo da pagare sono decenni delle nostre vite. Ma le svolte stanno già avendo luogo in posti come Cleveland e Boulder. Quella cui stiamo assistenza è la preistoria, forse, del prossimo grande cambiamento, in cui un movimento è costruito dal basso e diverrà il fondamento di una nuova era.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/the-cooperative-economy-2/

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