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July 1, 2014

Il pericolo di feticizzare la rivoluzione
di Jonathan Matthew Smucker

Che cos’hanno in comune il contatto con gli extraterrestri, il ritorno di Gesù Cristo, l’apocalisse, e la rivoluzione? In un certo senso, sono tutti riscatti dell’immaginazione, pulsanti epici per risettare l'umanità. Su questi possiamo appuntare i nostri dolori e le nostre frustrazioni con il mondo così com'è, con tutta la sua sofferenza, il fango e i dettagli caotici. Ognuna di queste apocalissi redentrici può servire come la X che risolve l’arduo problema del nostro senso di impotenza. Questa messianica X, questo sconosciuto e immaginario intervento sismico, potrebbe aiutarci a mantenere una qualche speranza nonostante le prove schiaccianti di una realtà senza speranza. In qualche modo, un giorno, qualcosa fermerà la follia, e saremo in grado di ricominciare.

Abbiamo bisogno di speranza, nella vita e anche nella mobilitazione politica. La speranza è un ingrediente essenziale nel ridimensionare un'azione collettiva al di là del gruppo limitato di martiri, santi e soliti sospetti della controcultura. Organizzare il potere collettivo su larga scala richiede un'arte capace di aumentare le speranze popolari e le aspettative. La visione a lungo termine di un mondo radicalmente trasformato può essere una terra importante per tale speranza. E non è tale trasformazione radicale proprio l'idea della rivoluzione sociale e politica? Non è forse un pò ingiusto includere la rivoluzione nella stessa lista, insieme alla fine biblica dei giorni?

Forse è un pò ingiusto. Dipende se si intende rivoluzione come orizzonte o rivoluzione come apocalisse. Dobbiamo immaginare una ristrutturazione rivoluzionaria dei rapporti di potere nella società come un momento totalizzante, tutto o niente, o come un orizzonte aspirazionale, qualcosa che deve essere sempre in movimento verso quell’orizzonte? Nel primo caso, allora, quali motivazioni dobbiamo studiare tra i dettagli del terreno dove stiamo attualmente situati? Perché dovremmo preoccuparci di strategie per superare particolari ostacoli che bloccano la nostra via attuale, se crediamo che l'accumulo di tutti gli ostacoli, alla fine, ci condurrà ad una grande crisi che, in qualche modo, magicamente, inaugurerà una nuova era? Credendo che le cose debbano peggiorare prima di migliorare, forse ci renderebbe disinteressati, una specie di sabotaggio dei nostri sforzi per migliorare le condizioni di vita reali nel qui ed ora. Dopo tutto, perché mettere un cerotto su una ferita aperta? Perché prolungare la vita di un sistema oppressivo? Con tale logica possiamo esimerci dalla difficoltà di riconoscere il terreno politico in cui viviamo. Si tratta, dopo tutto, della stessa confusione che speriamo di evitare.

Se, invece, immaginiamo il cambiamento rivoluzionario come orizzonte verso il quale orientarci, una tale visione può essere utile, a patto che ci motivi in una lotta politica nel qui e ora.

Comunque, continuiamo ad interrogarci sul nostro attaccamento alla parola rivoluzione, anche come orizzonte. A molti dei miei amici piace pensare a se stessi e ai loro sforzi come rivoluzionari. Anch’io sono tentato di fantasticare su me stesso come un rivoluzionario, sembra abbastanza sexy. Ma cosa significa veramente questo status oggi? Nel contesto attuale, negli Stati Uniti, le parole rivoluzione e rivoluzionario sono state in gran parte svuotate del loro contenuto. Il loro significato è più che ambiguo. I fautori della gamma rivoluzione, vanno dalle sinistre radicali e libertarie fino ai membri del Tea Party. Cosa significa allora patrocinare la rivoluzione? Non è solo un modo estremo e totalizzante per difendere un cambiamento? La domanda che si pone è: Che tipo di cambiamento? Rivoluzione per ottenere cosa?

Rispondere a queste domande ci fornirà il nostro contenuto politico. La rivoluzione non è di per sé il contenuto, ma tra i mezzi utilizzabili per liberare il contenuto. Se siamo per articolare un orizzonte che guidi la nostra lotta politica giorno per giorno, non dovrebbe quell'orizzonte essere il contenuto di una visione sociale, piuttosto che scene delle battaglie che dobbiamo combattere lungo la strada?

Anche come mezzo, la rivoluzione è vago e poco istruttivo. Oggi, nel contesto della sinistra statunitense, l’etichetta di rivoluzionario serve, in gran parte, come un riferimento di ispirazione a momenti storici, e momenti contemporanei in altri paesi, e come segno di appartenenza all'interno di sottoculture radicali, più che suggerire un percorso istruttivo o un quadro per il cambiamento sociale, economico e politico nel nostro contesto. Quando diciamo rivoluzione, oggi, se si intende qualcosa che va oltre un significativo vuoto di appartenenza sotto culturale, siamo per lo più, vagamente, riferendoci al rovesciamento di governi in specifiche circostanze storiche. Rivoluzioni dirette alla giustizia sociale hanno rovesciato monarchie, sistemi feudali e governi coloniali, ma le forze rivoluzionarie che hanno rovesciato governi democraticamente eletti nel secolo scorso, per quanto possiamo criticare il modo democratico che in realtà praticavano, sono state in larga parte forze reazionarie di destra, di solito attraverso colpi di stato militari.

D'altra parte, si potrebbe modificare la definizione di rivoluzione per adattarla al contesto delle democrazie capitalistiche avanzate; si potrebbe sostenere che la rivoluzione è rovesciare l'ordine corrente. Attualmente, siamo soggetti a un ordine capitalista oppressivo, e stiamo lavorando per rovesciare quel regime. Io sto bene con l'etichetta di rivoluzionario, se è intesa con questo significato. Ma ancora, qual è il punto dell'etichetta? Qual è il valore aggiunto? Che cosa fa per noi, oltre a conquistarci qualche punto nei nostri piccoli circoli sociali rivoluzionari? Cosa vuole realizzare politicamente?

Quello che sto cercando di dire qui? Perché questo tema? E' importante perché, ambiguo segno di appartenenza a gruppi politici, la parola rivoluzionario può privilegiare determinate tattiche e strategie rispetto ad altre. Come l’etichetta, rivoluzionario è destinata a distinguere un agente di cambiamento all'interno di un campo più vasto di agenti di cambiamento, per differenziare marginalmente sé e il gruppo all'interno di un allineamento più ampio di gruppi di lavoro per il cambiamento, la giustizia sociale, forse anche più di ciò che è destinata a distinguerci da tutti i difensori dello status quo. Come tali, gli oppositori della rivoluzione sono meno difensori dello status quo o elite di potere, piuttosto che riformatori con un diverso approccio al cambiamento. In forma estrema, questa tendenza coagula i riformisti, insieme con lo status quo e i suoi difensori, in un grande monolite impenetrabile a cui noi rivoluzionari siamo inequivocabilmente contro. Esso definisce una falsa dicotomia, rivoluzione contro riforma, un quadro che a volte può detenere merito o avvertimenti utili, ma che può anche essere paralizzante senza ulteriori contestualizzazioni, chiarimenti e sfumature.

Dove la rivoluzione serve come un significante ambiguo di appartenenza a sottoculture radicali, i membri del gruppo possono essere inclini a fare le cose, a dire le cose, anche ad indossare cose che sembrano rivoluzionarie e prendere le distanze da tutto ciò che puzza di riformismo, spesso anche gli sforzi e le organizzazioni dei principali blocchi sociali che ogni serio progetto rivoluzionario deve infine includere nel suo schieramento politico. E' vero che, nel paesaggio odierno, tali sforzi e organizzazioni tendono ad avere obiettivi limitati e a conseguire compromessi, se mai ne conseguono. Respingere questi sforzi di riforma come principio generale, però, non è, in qualche modo, fare il rivoluzionario. E', piuttosto, un segno di purismo, fatalismo e di pensiero apocalittico, e spesso di un astratta politica che emerge da una posizione sociale dissconnessa di relativo privilegio. Ciò equivale a rivoluzione come apocalisse; ciò che è necessario è un cataclisma, non importa quanto catastrofico. Qualsiasi miglioramento nelle situazioni delle persone reali viene respinto, forse anche denunciato, come prolungamento della vita del sistema.

Naturalmente, non tutti coloro che usano la parola rivoluzione sono colpevoli di tutte o di una di queste ipotesi. Dopo tutto, è principalmente un significante vuoto. Anche gl’inserzionisti amano marcare la merda che stanno vendendo come rivoluzionaria. Il punto qui è che non ci può essere niente di male nel mettere i nostri sforzi di cambiamento sociale, economico e politico negli Stati Uniti, oggi, in un termine la cui applicabilità sia storicamente contingente, almeno se ci manca un’analisi di questa contingenza. La parola rivoluzione evoca l'idea di rovesciare un governo, e come tale è descrittiva di un particolare modello e momento di trasformazione che vale soprattutto per la revisione radicale di particolari tipi di governi in particolari contesti storici, vale a dire feudalesimo, monarchie, dittature e governi coloniali. Come tale, il nostro attaccamento all'idea astratta di rivoluzione potrebbe essere qualcosa come avere un martello e percepire ogni problema che s’incontra come un chiodo.

Inoltre, anche in contesti storici rivoluzionari, la rivoluzione non è mai stata una panacea. I problemi e le ingiustizie devono ancora essere combattute. "La rivoluzione" è un momento, certamente importante, ma in una lotta politica in corso senza nessun traguardo finale. La maggior parte dei momenti in quella lotta sono molto meno spettacolare rispetto al momento del drammatico sconvolgimento. In “Le contraddizioni culturali del capitalismo”, il sociologo Daniel Bell descrive come "sorgono i veri problemi del giorno dopo la rivoluzione, quando il mondo mondano s’intromette ancora nella coscienza." Bell sostiene che "la nostro fascinazione per l'apocalisse ci impedisce di percepire la mondanità: i rapporti di scambio, l’economica e sociale; il carattere del lavoro e delle professioni; la natura della vita familiare; e le modalità tradizionali di comportamento che regolano la vita di tutti i giorni. Il cambiamento sociale è molto più lento, ed i processi che lo determinano molto più complessi rispetto alla modalità drammaturgica della visione apocalittica, religiosa o rivoluzionaria, che vorrebbero farci credere."

Se proiettiamo un momento immaginario di futuro totalizzante sulla nostra situazione, possiamo anche fissarci sui momenti attuali che sembrano portare all'essenza delle nostre idee su di una tale immaginata rivoluzione. Possiamo elevare significanti rituali di zelo rivoluzionario sulle vittorie nel mondo reale e soprattutto sulla costruzione paziente delle basi sociali del potere collettivo che porterebbero ad una vittoria più grande, più sistemica, potremmo anche dire rivoluzionaria.

La rivoluzione come apocalisse o come momento totalizzante, è fortemente legata all’utopismo. Le implicazioni pratiche dei due concetti sono equivalenti. Con entrambi gli orientamenti post-rivoluzionari, la visione utopica del futuro può diventare la lente distorta attraverso cui osservare il presente caos. Nulla nella società attuale, comprese le vittorie riconosciute come pietre miliari del cambiamento, possono paragonarsi ad uno standard utopico. E' come se il rivoluzionario o il sognatore utopista abbia paura di contaminare la purezza della sua visione con la grinta della vita reale. In realtà, i semi della redenzione della società, i passi avanti nelle lotte per la giustizia sociale, sono sempre manifestazioni del tessuto di ciò che già esiste nella società. Il lavoro di agenti di cambiamento efficaci è quello di individuare e incoraggiare questi passi avanti; per risvegliare e potenziare gli angeli migliori che troviamo nelle nostre storie, nelle nostre culture contemporanee; per rivendicare e contestare sia la storia che la cultura, piuttosto che cercare di costruire da zero sulle ceneri di una futura apocalisse immaginaria.

Con ciò non rinunciamo affatto ai grandi cambiamenti strutturali, tra cui anche in ultima analisi, la fine del capitalismo. Nella misura in cui rivoluzionario significa grandi cambiamenti strutturali. Sono tutti rivoluzionari. Il problema qui non è la radicalità del nostro obiettivo finale, il problema è il pensiero apocalittico del tutto o niente, del cambiamento politico nel frattempo. Se le strutture della società collassassero domani, perché la società dovrebbe ricostituire se stessa in un modo che differisce sostanzialmente dalla sua struttura attuale? Un movimento rivoluzionario per la giustizia sociale non salirà magicamente al potere in seguito della catastrofe.

Un movimento si rafforza attraverso l'organizzazione nel corso del tempo, mostrando a sempre più persone che può avere successo. Vincendo piccole vittorie, cominciando a superare la rassegnazione popolare, risvegliando la speranza nelle persone che è possibile lottare per qualcosa e vincere, che l'azione collettiva ottiene risultati. Se un movimento è incapace di vincere anche piccole cose, perché qualcuno dovrebbe crederlo capace di vincere una rivoluzione, di accelerare da zero a cento in un semplice momento? La maggior parte delle persone non stanno andando a far parte del nostro movimento perché vogliono cavalcare con noi nell’apocalisse; si uniscono quando hanno una ragione sufficiente per ritenere che il movimento possa agire efficacemente come veicolo per portare cambiamenti che sono importanti per loro. Sta a noi per dimostrare che questo è davvero possibile.


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July 1, 2014

The danger of fetishizing revolution
By Jonathan Matthew Smucker

What do contact with extraterrestrials, the return of Jesus Christ, apocalypse, and revolution all have in common? In a sense, they are all imagined redemptions — epic reset buttons for humanity. Onto these we can pin our heartbreaks and frustrations with the world as it is, with all its suffering, mire and messy details. Any of these redemptive apocalypses can serve as the X that solves the daunting problem of our sense of impotency. This messianic X — this unknown and imaginary seismic intervention — might help us to hold onto a kind of hope despite overwhelming evidence of a hopeless reality. Somehow, someday, something will occur that stops the madness, and we will be able to begin anew.

We need hope — in life and also in political mobilization. Hope is an essential ingredient in scaling up collective action beyond the limited pool of martyrs, saints and counter-cultural usual suspects. Organizing large-scale collective power requires something of an art of raising popular hopes and expectations. A long-term vision of a radically transformed world can be an important grounding for such hope. And isn’t such radical transformation precisely the idea of social and political revolution? Isn’t it a bit unfair to include revolution as an item on the same list as the Biblical end of days?

Perhaps it is a bit unfair. It depends on whether we mean revolution as horizon or revolution as apocalypse. Do we imagine a revolutionary restructuring of power relations in society as an all-or-nothing totalizing moment or as an aspirational horizon, something to always be moving towards? If the former, then what incentive do we have to study the details of the terrain where we are presently situated? Why would we bother to strategize about overcoming the particular obstacles that block our way today, if we believe that the accumulation of all obstacles will ultimately add up to a grand crisis that will somehow magically usher in a new era? Believing that things will “have to get worse before they get better,” we may become disinterested in — perhaps even sabotaging of — efforts to improve real-life conditions in the here and now. After all, why put a band-aid on a gaping wound? Why prolong the life of an oppressive system? With such logic we can excuse ourselves from the trouble of getting to know our political terrain. It is, after all, the very mess we hope to avoid.

If, on the other hand, we imagine revolutionary change as a horizon toward which we orient ourselves, such a vision may be of use, so long as it grounds us in a political struggle in the here and now.

Still, let us further interrogate our attachment to the word revolution — even as a horizon. Many of my friends like to think of themselves and their efforts as revolutionary. I am tempted to fancy myself a revolutionary too — it sounds sexy enough — but what does this label really mean today? In the present context in the United States, the words revolution and revolutionary have been mostly emptied of their contents. Their meanings are more than slightly ambiguous. Proponents of revolution range from radical Leftists to libertarians and members of the Tea Party. What does advocating for revolution mean then? Is it not merely a more extreme and totalizing way of advocating for “change”? The question begs itself: What kind of change?And revolution for what?

Answering these questions will provide us with our political content. Revolution is not itself the content, but (among) the means we might possibly use to deliver the content. If we are to articulate a horizon to guide our day-to-day political struggle, shouldn’t that horizon be the content of a social vision, rather than scenes from the battles we must fight along the way?

Even as a means, revolution is vague and less than instructive. Today in the context of the U.S. Left, the label revolutionary serves largely as a reference to inspirational historical moments — and contemporary moments in other countries — and as a signifier of belonging, or “getting it,” within radical subcultures, more than it suggests an instructive path or framework for social, economic and political change in our context. When we say “revolution” today — if we mean something beyond an empty signifier of subcultural belonging — we are mostly, vaguely, referring to the overthrow of governments in specific historical circumstances. Social justice-directed revolutions have overthrown monarchies, feudal systems and colonial governments, but the “revolutionary” forces that have overthrown democratic elected governmentsin the past century — however much we may critique how democratic they actually are — have by and large been right-wing reactionary forces, usually through military coups.

On the other hand, one could tweak the definition of revolution to make it fit the context of advanced capitalist democracies; one could argue that revolution is about overthrowing the current order. Presently, we are subject to an oppressive capitalist order, and we are working to overthrow that regime. I am fine with the signifying label revolutionary being attributed to me if it is with this intended meaning. But still, what is the point of the label? What is the value added? What does it do for us, besides earning us cool pointsin our little “revolutionary” social clubs? What does it accomplish politically?

What am I getting at here? Why does this matter? It matters because, as an ambiguous signifier of belonging within political groups, the word revolutionary can privilege certain tactics and approaches over others. As a signifying label, revolutionary is meant to distinguish a change agent within a broader field of change agents — to marginally differentiate oneself and one’s group within a broader alignment of groups working for social justice-directed change — perhaps even more than it is meant to distinguish us from all-out defenders of the status quo. As such, the posed opposite of revolutionaryis less the status quo or an elite power than it is a reform approach to change. In extreme form, this tendency lumps “reformists” together with the status quo and its defenders into one big impenetrable monolith that we “revolutionaries” are unequivocally against. It sets up a false dichotomy of revolution versus reform — a framework that may sometimes hold merit or useful warnings, but that can be paralyzing without further contextualization, clarification and nuance.

Where revolution serves as an ambiguous signifier of belonging to radical subcultures, group members may be inclined to do things, to say things, even to wear things that seem “revolutionary,” and to distance themselves from whatever reeks of “reformism,” often including the efforts and organizations of key social blocs that any serious “revolutionary” project must ultimately include in its political alignment. It is true that, in today’s landscape, such efforts and organizations tend to have limited goals and to win compromised victories, if they win at all. Dismissing such reform efforts as a general principle, however, does not somehow make one a revolutionary. It is, rather, a sign of purism, fatalism and apocalyptic thinking — and often of an abstract “politics” that emerges from a disconnected social position of relative privilege. This amounts to revolution as apocalypse; what is needed is a cataclysmic, nevermind catastrophic, reset. Any improvement in the situations of real people is dismissed, perhaps even denounced, as prolonging the life of “the system.”

Of course, not everyone who uses the word revolution is guilty of all or any of the above. After all, it is mostly an empty signifier. Advertisers love to brand the shit they’re selling as “revolutionary” too. The point here is that there can be harm in framing our social, economic and political change efforts in the United States today in a term whose applicability is historically contingent — at least if we lack an analysis of this contingency. The word revolution conjures the idea of overthrowing a government, and as such is descriptive of a particular model and moment of transformation that mostly applies to the radical overhaul of particular kinds of governments in particular historical contexts, namely feudalism, monarchies, dictatorships and colonial governments. As such, our attachment to the abstract idea of revolution might be something like holding a hammer and perceiving every problem one encounters as a nail.

Moreover, even in historical revolutionary contexts, revolution has never been a panacea. Problems and injustices still have to be struggled against. “The revolution” is a moment, certainly an important one, but in an ongoing political struggle with no end point. Most of the moments in that struggle are far less spectacular than the moment of dramatic upheaval. In The Cultural Contradictions of Capitalism, sociologist Daniel Bell describes how “the real problems arise the ‘day after the revolution,’ when the mundane world again intrudes upon consciousness.” Bell argues that “Our fascination with the apocalypse blinds us to the mundane: the relations of exchange, economic and social; the character of work and occupations; the nature of family life; and the traditional modes of conduct which regulate everyday life.” Social change is “much slower, and the processes more complex than the dramaturgic mode of the apocalyptic vision, religious or revolutionary, would have us believe.”

If we project a totalizing imaginary-future moment onto our own situation, we may also fixate on present-day moments that seem to carry the essence of our ideas about such an imagined “revolution.” We may elevate ritualistic signifiers of revolutionary zeal above winning real-world victories and above the patient construction of social bases of collective power that could win bigger, more systemic — we might even say revolutionary — changes.

Revolution as apocalypse or as a totalizing moment is highly related to utopianism. The practical implications of the two concepts are equivalent. With both orientations a post-revolutionary, utopian vision of the future can become the distorted lens through which to view the messy present. Nothing in present society, including stepping-stone victories, can measure up to utopian standards. It is as if the revolutionary or utopian “dreamer” is afraid of contaminating the purity of his or her vision with the grit of real life. In reality, the seeds of society’s “redemption” — the fits and starts of social justice struggles — are always manifest in the fabric of what already exists in society. The job of effective change agents is to identify and encourage these fits and starts; to awaken and empower the “better angels” that we find in our histories and our contemporary cultures; to claim and contest both history and culture, rather than try to build from scratch in the ashes of an imaginary-future apocalypse.

This is not at all to suggest that we give up on big structural changes — even including ultimately ending capitalism. To the extent that “revolutionary” means “big structural changes” I am all for being revolutionary. The problem here is not the radicalness of our end goal; the problem is all-or-nothing apocalyptic thinking about political change in the meantime. If the structures of society were to collapse tomorrow, why would society reconstruct itself in a way that substantially differs from its present structure? A revolutionary social justice movement will not magically ascend in the wake of catastrophe.

A movement gains strength by organizing over time, by showing more and more people that it can succeed. By winning small victories, it begins to overcome popular resignation, awakening hope in people that it is possible to fight for something and win — that collective action “gets the goods.” If a movement is incapable of winning even small things, why should anyone believe it capable of winning a revolution — of accelerating “from zero to sixty” in a mere moment? Most people are not going to join our movement because they want to ride with us into the apocalypse; they join when they have enough reason to believe that the movement can act effectively as a vehicle to bring about changes that matter to them. It’s on us to show that this is indeed possible.

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