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15 aprile 2014

Il socialismo del petrolio
di Raúl Zibechi
Traduzione di m. c.

Le luci un tempo sfavillanti del processo bolivariano sono un lontano ricordo. Orfano del padre del “socialismo (patriottico) del XXI secolo”, il Venezuela si regge ormai su un “equilibrio catastrofico”. Seminare petrolio, come ammoniva già nel 1936 Arturo Uslar Pietri, vuol dire sacrificare il futuro al presente. Può condurre a nuotare in un’abbondanza temporanea e corruttrice destinata a sfociare in un’inevitabile catastrofe. Non fanno molto per evitarla né il governo né l’opposizione “democratica”. La insegue a grandi falcate l’ultradestra fomentata dagli Stati Uniti, irritati da ogni presenza non allineata in un Mar dei Caraibi che considerano proprio e, soprattutto, dalla svolta verso Russia e Cina di Caracas. Una svolta ben più minacciosa dei proclami di un socialismo che non è mai esistito. Un patto di emergenza terrebbe a bada le tentazioni interventiste di Washington e le derive sanguinose di una guerra interna di tipo siriano. Richiederebbe però che le ferventi basi chaviste fossero sacrificate all’emergente borghesia bolivariana per garantirne la continuità dei privilegi. Un grande reportage da un paese che si è perso in un labirinto e annega nel suo petrolio.  

Riempire un serbatoio di 70 litri con la benzina costa la metà di una bottiglia da mezzo litro di acqua minerale. Lo stesso prezzo di una sigaretta (venduta da sola, senza il pacchetto): cinque bolos (bolívar forti). L’ultima settimana di marzo il dollaro parallelo stava a 52 bolívar, nove volte più quello ufficiale, che, nelle settimane prima, aveva raggiunto l’astronomica cifra di cento bolívar.

Questa alterazione dei prezzi è ciò che emerge da un’economia distorta, che non funziona più come un’economia capitalista tradizionale (dominata dai monopoli privati) e che sembra trovarsi a metà strada dell’economia detta socialista (monopolio statale), con le tensioni e le contraddizioni che un simile passaggio comporta. Insomma, l’economia è scenario di un’acuta lotta di classe, nel senso più tradizionale del concetto.

Una delle distorsioni evidenti si può notare percorrendo i diversi quartieri di Barquisimeto, una città di un milione e mezzo di abitanti, capitale dello stato occidentale di Lara: nei quartieri popolari si notano code di fronte ai negozi e ai supermercati, code di differente lunghezza ma quasi quotidiane; nei quartieri delle classi medio alte, come Fundalara, invece le code non si vedono e i negozi sembrano ben riforniti. Le famiglie escono dai negozi con piccole buste di viveri, mentre nei quartieri popolari le donne di casa trascinano grandi sacchi per rifornire le loro famiglie numerose.

La principale differenza è che nei quartieri alti, con la medesima frequenza quotidiana con la quale si vedono le code in quelli popolari, si vedono manifestazioni di studenti che innalzano bandiere venezuelane. Nessuno li infastidisce, alcuni li applaudono e suonano il clacson in segno di sostegno. L’impressione è che nell’ultima settimana di marzo tanto le code quanto le proteste tendevano a diminuire.

Un equilibrio catastrofico

L’immagine di una società divisa in parti quasi uguali, oltre che polarizzata, sembra la più vicina alla realtà. Le elezioni presidenziali che hanno portato Nicolás Maduro alla presidenza, quasi un anno fa, hanno mostrato ambedue i fatti con una differenza dell’1,5 per cento tra l’attuale presidente e l’aspirante Henrique Capriles che gli si oppone.

La divisione ha anche una necessaria lettura territoriale che può contribuire a spiegare la situazione attuale. Negli stati di Zulia, Táchira e Mérida, tra gli altri, ha vinto l’opposizione. Si tratta della regione che confina con la Colombia, dove durante il mese di febbraio le proteste hanno raggiunto una situazione da “zona liberata”. Come nella capitale del Táchira, San Cristóbal, dove l’università pubblica è stata incendiata dai manifestanti con (almeno) la complicità delle autorità municipali e statali legate all’opposizione.

Da parte del governo, si denuncia il coinvolgimento di paramilitari colombiani vicini all’ex presidente Álvaro Uribe nelle proteste e, in modo particolare, nelle minacce selettive ai militanti chavisti. L’opposizione, a sua volta, denuncia maltrattamenti e torture sui detenuti. Ambedue i fatti sembrano plausibili, sebbene non siano state rese note prove contundenti che li confermino.

Due fatti sembrano evidenti. Che la repressione dello Stato abbia provocato la morte di diversi manifestanti, e che tanto l’opposizione come i gruppi chavisti utilizzino armi da fuoco. Il giornalista Aram Aharoninam, ex direttore di Telesur, assicura che dei 40 morti contati tra il 12 febbraio e la fine marzo, 22 sono stati “assassinii selettivi di leader bolivariani di base, realizzati da mercenari paramilitari colombiani alleati delle forze della borghesia venezuelana” (Rebelión, 1 aprile 2014).

La Procura Generale della Repubblica ha diffuso alcuni dati, quando la cifra dei morti era di 31: tra i 461 feriti nelle manifestazioni c’erano 143 agenti di polizia. Diversi uomini in divisa sono stati uccisi. Dei quasi duemila arrestati, solamente 168 rimanevano dietro le sbarre.

Durante il mese di febbraio, il Venezuela è stato lo scenario di una doppia crescita e di una finzione di negoziato: la crescita della destra più oltranzista, guidata dal detenuto Leopoldo López e dalla deputata Corina Machado che non è stata però condivisa dal Tavolo di Unità Democratica (MUD) guidato da Capriles, il quale, nel pieno della crisi, ha ribadito che “l’unica via è quella elettorale”.

L’offensiva dell’ultradestra ha registrato una svolta quando hanno fatto irruzione le forze chaviste, in particolare los motorizados, migliaia di militanti in moto, una delle forze organizzate più attive dei sostenitori del governo. Contro di loro, l’opposizione ha teso dei cavi metallici nelle strade all’altezza della testa.

Anche il presidente Maduro ha pubblicamente dato il suo appoggio all’intervento dei motorizzati denunciando che cinque di essi sono stati uccisi dai franchi tiratori. “Questo colpo di stato prolungato è già sconfitto ma continua a danneggiare il popolo, ha così fatto in modo che, per il bene della patria, los motorizados facessero irruzione sulla scena. Adesso voi siete visibili, non sarete più stigmatizzati. Los motorizados agiranno in favore della pace e in questo momento stanno sconfiggendo un colpo di stato” (El Nacional, 13 marzo 2014).

La cattiva economia

Nella comunità Abya Yala, alla periferia di Barinas, terre tanto secche quanto fertili che aspettano ansiose l’inizio della stagione delle piogge, Ignacio ed Edis spiegano come lavorano alla produzione di alimenti senza pesticidi sulla base del controllo biologico delle infestazioni. Producono ortaggi e frutta, allevano maiali e pollame, che portano al mercato della Cooperativa di Autogestione Comunitaria inserita in una delle maggiori reti cooperative di rifornimento, la Cecosesola.

Ignacio, veterinario e produttore uruguayano, da otto anni è in Venezuela, fa parte di una cooperativa vicina che si distingue per una forte produzione di yucca organica. Vive in una cooperativa della riforma agraria, sempre nei dintorni della capitale dello Stato. Ignacio è stupito e affascinato dalla terra, perché qui si può coltivare per dodici mesi l’anno, mentre in Uruguay lo si può fare solo per cinque mesi. Malgrado continui ad appoggiare il processo in corso, sostiene che “l’immensa maggioranza dei beneficiari della riforma agraria non lavorano la terra e la abbandonano”.

Sa di che cosa parla. E ha la perfetta consapevolezza di toccare un punto nevralgico dell’economia bolivariana. Il suo racconto a scala micro viene rafforzato dai dati macro: il 56,2 per cento di inflazione nel 2013, un deficit fiscale vicino al 15 per cento, la caduta delle riserve internazionali, una importante scarsità di alimenti.

La cosa più grave è che le cose vanno peggiorando. Fino alla metà del 2013 non mancavano gli alimenti né c’erano code. Fino al 2008 l’inflazione era in calo, è risalita verso il 2011. Dati ai quali bisogna aggiungere un’acuta evasione di valuta e che, nel loro insieme, riflettono un problema strutturale che i governi che si sono succeduti non hanno risolto e che si manifesta in modo aperto con la morte di Chávez.

Il giornalista Modesto Emilio Guerrero, un venezuelano che ha messo radici in Argentina e che appoggia il processo bolivariano, si domanda come sia possibile che ci sia mancanza di prodotti quando il governo controlla il 36 per cento del sistema di distribuzione degli alimenti.

Guerriero segnala che le 240 imprese create, e le molte altre nazionalizzate e statalizzate, non stanno ottenendo un aumento della produzione. “In Venezuela ci sono due Pil, quello petrolifero e quello non petrolifero. Quello petrolifero è intatto, non ci sono problemi. Il Pil non petrolifero è stato fatto fuori, quello privato e quello statale” (Notas, 21 marzo 2014).

Certamente la mancanza di prodotti si spiega, in una certa misura, con il contrabbando verso la Colombia di prodotti a prezzi regolati. C’è tuttavia molto di più. Il settore privato non cresce perché la borghesia non sta investendo. Il Venezuela possiede però due enormi impianti di alluminio che non sono cooperative e quello dell’acciaio che era stato di proprietà della Techint e la cui qualità produttiva è caduta dopo che l’impresa è stata nazionalizzata nel maggio del 2009. “Vagli a dire che la colpa è dell’imperialismo?”, dice Guerrero alludendo a coloro che usano questo argomento per eludere ogni responsabilità.

La sua spiegazione si orienta verso la cultura politica. Proprio lui, che è stato rappresentante dell’Unione Nazionale dei Lavoratori, creata nel 2003 dai sostenitori di Chávez, segnala che l’inefficienza di queste grandi imprese si deve alla “burocrazia sindacale, che effettivamente protegge un tipo di industria per pagare salari dello Stato. Lo Stato paga i salari affinché non ci sia crisi sociale”.

Guerrero spiega che nella Techint la produzione era superiore quando era di proprietà della multinazionale. Le imprese statalizzate ripetono la storia del socialismo reale, quella che fa sì che dove avvengono trasformazioni radicali “spunti dallo stesso organismo rivoluzionario, sociale, un corpo velenoso, incancrenito, che è la cosiddetta burocrazia”, quella che in Venezuela è diventata borghese e corrotta.

Seminare petrolio

Arturo Uslar Pietri, uno dei più prestigiosi intellettuali latinoamericani, pubblicò nel lontano 1936 un articolo giornalistico che ha fatto storia, era intitolato “Seminare il petrolio”. Segnalava due fatti: che l’industria petrolifera avrebbe un carattere effimero e perfino distruttivo. Sul primo aspetto pare che abbia sbagliato, sul secondo ha indovinato come pochi.

Certamente, lo sfruttamento del petrolio si estende per oltre un secolo e il Venezuela ha superato l’Arabia Saudita in quanto maggior riserva di idrocarburi del mondo. C’è petrolio per ancora molto tempo. Uslar pensava però che l’economia estrattiva distruggesse un paese. “L’economia distruttiva è quella che sacrifica il futuro per il presente”, perché la sua produttività “dipende completamente da fattori e volontà estranei all’economia nazionale”. Uslar Pietri sostenne che lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo avrebbe potuto “arrivare a fare del Venezuela un paese improduttivo e inoperoso, un immenso parassita del petrolio, che nuota in una abbondanza temporanea e corruttrice destinata a sfociare in un’imminente e inevitabile catastrofe”. Il solo modo di evitare questa deriva catastrofica sarebbe stato promuovere l’agricoltura e l’industria, vale a dire il lavoro produttivo. Il petrolio è una miniera, e le miniere non producono, si sfruttano; sono ricchezza, non economia. Un’affermazione sulla stessa lunghezza d’onda di quella di Juan Pablo Pérez Alfonzo, ministro di Rómulo Bentancourt, che definì il petrolio come un “escremento del diavolo”.

Uslar Pietri scrisse che “l’unica politica economica saggia e salvatrice che dobbiamo realizzare, è quella di trasformare la rendita mineraria in credito agricolo, promuovere l’agricoltura scientifica e moderna, importare animali da monta e da pascolo, ripopolare i boschi, costruire tutte le dighe e i canali necessari per regolare l’irrigazione e il difettoso regime delle acque, meccanizzare e industrializzare la campagna, creare cooperative per certe coltivazioni e piccoli proprietari per altre”.

Stupefacente perché anticipò di settanta anni la proposta di Chávez, con il quale poi simpatizzò nei primi anni. Non aveva fiducia, tuttavia, nella nuova borghesia nata dal cuore del processo bolivariano, la cosiddetta boliborghesia.

Le cose in realtà si sono aggravate. Nel 2013 il petrolio ha rappresentato il 96 per cento del valore delle esportazioni. Un membro del gabinetto confessa, in una cena privata, che i tentativi di creare un’industria tessile bolivariana mediante la donazione di migliaia di telai e macchine a famiglie che si erano impegnate nella produzione, ha avuto un effetto tanto contrario quanto inaspettato: oggi lavorano come maquilas per le multinazionali. Milioni di bolivar buttati nella spazzatura. O peggio, consegnati involontariamente al “nemico”.

Parliamo di socialismo

La debacle economica non spiega tutto. È su quella, tuttavia, che mordono l’opposizione e la Casa Bianca, che non smette di ricordare l’affermazione del teorico geopolitico con più influenza sulla politica estera degli Stati Uniti, Nicholas Spykman, citato opportunamente dal professore brasiliano José Luis Fiori. I paesi caraibici, compresi chiaramente Colombia e Venezuela, sono parte di una regione “dove l’egemonia degli Stati Uniti non può essere messa in discussione” (Valor, 29 gennaio 2014).

Spykman ha considerato la geografia come il fattore fondamentale della politica estera perché è il più immutabile, e si è prodigato nel dividere il pianeta in zone dove la superpotenza dovrebbe sviluppare azioni differenziate. Sui Caraibi, ha detto: “A tutti gli effetti, si tratta di un mare chiuso le cui chiavi appartengono agli Stati Uniti, il che significa che rimarranno sempre in una posizione di assoluta dipendenza dagli Stati Uniti”. Questo spiega non solo l’atteggiamento della Casa Bianca verso Cuba, ma anche l’imponente reazione militare in occasione del terremoto di Haiti con un intervento di massa nell’isola.

Stando così le cose, è possibile che il sostegno del governo statunitense alla ribellione dell’ultra destra sia più legato alla svolta del Venezuela verso la Russia e la Cina che a un inesistente processo verso il socialismo. Sarà utile chiarire che in Venezuela non c’è mai stata una rivoluzione, nel senso classico e abituale del termine, ma una progressiva e pacifica occupazione dello Stato “realmente esistente”. Vale a dire, un processo riformista, anche nel senso classico della parola.

Il socialismo, secondo i suoi fondatori, si  deve basare sul lavoro e la produzione, non sulla distribuzione della rendita estrattiva, sebbene con questa si sia riusciti a diminuire la povertà, a migliorare la vita dei settori popolari e ad aprire nuove prospettive di vita. In questo senso, la famosa “espropriazione degli espropriatori” non è nulla se non la restituzione di mezzi sottratti ai produttori che non può essere ripetuta all’infinito. Seminare il petrolio è come seminare la corruzione. Il socialismo non può essere seminato, ma costruito laboriosamente in un lungo periodo. Su questo punto, non ci sono scorciatoie.

Il Venezuela vive un “equilibrio catastrofico”, termine usato dal vicepresidente della Bolivia, Álvaro García Linera, per descrivere una situazione nella quale nessuno dei contendenti riesce a imporsi. Per questo, il cammino più probabile è un patto che eviti che il paese possa orientare il proprio cammino verso una guerra interna simile a quella della Siria, o verso una situazione di non governo come è accaduto in Libia dopo la caduta di Muammar Gheddafi.

La partecipazione dei più importanti imprenditori alla riunione con il governo del 27 febbraio, la Conferenza Nazionale di Pace, si può considerare un primo passo in questa direzione.

Sebbene non abbiano partecipato membri importanti del MUD, la presenza del presidente di Fedecámaras, Jorge Roig, e del presidente di Empresas de Alimentos Polar, Lorenzo Mendoza, indica che la borghesia tradizionale venezuelana sta optando per un suo percorso e che non sembra volersi piegare ai diktat degli ultras né di Washington.

Il Patto di Puntofijo è il precedente obbligato. Caduta la dittatura di Marcos Pérez Jiménez, per garantire una minima stabilità democratica, i dirigenti della socialdemocratica Acción Democrática, i socialcristiani del Copei e  l’Unione Repubblicana Democratica, di centrosinistra, il 31 ottobre 1958 firmarono un accordo che garantì la governabilità per mezzo secolo.

I partiti si impegnarono a rispettare il risultato delle elezioni, a governare insieme sulla base di un minimo programma comune e a integrare il gabinetto con membri dei due partiti (l’URD si ritirò dal patto nel 1962). La questione centrale era quella di garantire la democrazia di fronte alle sollevazioni militari.

Adesso le cose sono più complesse. Un accordo tra l’opposizione e il governo con l’appoggio degli imprenditori, deve neutralizzare l’ultradestra ma anche le basi chaviste, “i collettivi” delle comuni, i motoristas e tutti i settori organizzati che sono sorti dal golpe del 2002.

Potare questi settori del processo bolivariano, respinti sia dalla borghesia tradizionale che  dalla boliborghesia incrostata nel gabinetto, sarebbe come mettere fine al processo di cambiamenti per garantire alla borghesia emergente la continuità dei suoi privilegi. Alla luce di quanto successo in Ucraina, dove quelli di fuori hanno cavalcato le manifestazioni, un simile patto può spianare la strada all’intervento statunitense.

 


Questo reportage è stato scritto anche per il Programma de las Américas e per altre testate, come Brecha  o La Vaca, con le quali Raúl Zibechi lavora, collabora o partecipa in modo volontario al progetto editoriale.

Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada. In Italia ha collaborato per oltre dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi.  Molti altri articoli inviati da Zibechi a Comune Info sono qui.

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