Originale: Roarmag.org
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4 gennaio 2014

Breve storia dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale
di Raúl Romero
traduzione di Giuseppe Volpe

Dietro l’EZLN c’è una rete complessa di visioni politiche e culturali che va molto al di là della resistenza indigena e che parla all’emancipazione universale.

Il 17 novembre 2013 ha segnato il trentesimo anniversario della creazione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e il 1 gennaio 2014 celebra i vent’anni dalla sua prima apparizione pubblica. Come tributo agli uomini e alle donne che hanno fatto echeggiare in tutto il mondo quel grido di BASTA (YA BASTA), vogliamo presentare una serie di sezioni che cercano di guardare alla storia dei protagonisti che, collegati tra loro, hanno fatto crescere l’EZLN. Per far questo sono state utilizzate varie fonti ma specialmente gli scritti, le interviste e i comunicati prodotti dagli stessi neo-zapatisti.

Il testo è diviso in tre sezioni: I. Il nucleo guerrigliero. II. La resistenza millenaria e III. La scelta per i poveri.  Occorre chiarire: non è stata nostra intenzione parlare in nome degli Zapatisti; loro hanno raccontato la propria storia e continuano a farlo. Il nostro solo scopo consiste nel contribuire a diffondere la loro esperienza che rappresenta indubbiamente l’alternativa più avanzata al mondo. Speriamo che queste righe siano anche utili ad alimentare la storia di un altro mondo possibile attualmente in costruzione.

I. Il nucleo guerrigliero

“ … la condizione umana … ha una testarda tendenza alla cattiva condotta.

Dove meno uno se l’aspetta, spunta fuori la ribellione e si realizza la dignità.

Nelle montagne del Chiapas, per esempio.

Per lungo tempo gli indigeni Maya sono rimasti in silenzio.

La cultura Maya è una cultura di pazienza, sa aspettare.

Oggi, quanti parlano da quelle bocche?

Gli zapatisti sono in Chiapas, ma sono dappertutto.

Sono pochi, ma hanno molti ambasciatori spontanei.

Poiché nessuno nomina quegli ambasciatori, nessuno può licenziarli.

Poiché nessuno li paga, nessuno può contarli. O comprarli.”

 

- El Desafio, Eduardo Galeano [1]

E’ il 1968, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) e gli Stati Uniti si disputano l’egemonia mondiale in una guerra mascherata: la “Guerra Fredda”. In Cecoslovacchia la “Primavera di Praga” mostra al mondo l’autoritarismo e la burocrazia del “socialismo concretamente esistente”. I dimostranti si battono per un “socialismo dal volto umano”, ma soprattutto per un socialismo democratico. La reazione dell’URSS e dei suoi alleati è l’invasione del paese. In Francia il “Maggio francese” è prova – tra molte altre cose – di un diffuso rifiuto della società consumistica.

E’ il 1968 e anche le Americhe sono agitate. In America Latina il trionfo della Rivoluzione Cubana sta già generando aspettative e migliaia di giovani aderiscono ai ranghi dei partiti e dei movimenti rivoluzionari. Negli Stati Uniti Martin Luther King – leader del movimento per i diritti civili – è assassinato e le dimostrazioni contro la guerra del Vietnam polarizzano ulteriormente la società nordamericana.

E’ il 1968 e il Messico ospiterà i Giochi Olimpici e in luglio emerge uno dei più importanti movimenti studenteschi della sua storia. Le condizioni politiche e sociali del paese fanno acquistare rapidamente dimensioni nazionali a un conflitto apparentemente minore. Il Messico è nuovamente sintonizzato – come lo fu durante la rivoluzione del 1910 – con lo scontento sociale che percorre il mondo. Gustavo Diaz Ordaz e Luis Echeverria Alvarez – rispettivamente Presidente e Segretario agli Interni del Messico – ordinano la repressione di una dimostrazione studentesca. Il 2 ottobre l’esercito e gruppi paramilitari attaccano i dimostranti nella Plaza de las Tres Culturas, Tlatelolco, Città del Messico, causando centinaia di morti, dispersi e feriti.

E’ il 1969 e il mondo non è più lo stesso dopo la “Rivoluzione Culturale” del 1968, come la chiama Hobsbawm [3]. E’ il 1969 e il Messico è ancora ferito: molte famiglie stanno cercando i loro figli da quel 2 ottobre quando non sono tornati a casa. Contemporaneamente il governo messicano giustifica il massacro, sostenendo che il primo attacco era arrivato dagli studenti, che c’erano stranieri interessati a destabilizzare il paese e che dietro le proteste c’era lo spettro del comunismo.

Centinaia di giovani che avevano partecipato alle dimostrazioni studentesche hanno concluso che non riusciranno a trasformare il Messico per via istituzionale. Per molti di loro la via pacifica si è esaurita ed è tempo di passare alla fase successiva: la lotta armata.

Il 6 agosto 1969 a Monterrey, Nuevo Leon, sono fondate le Forze di Liberazione Nazionale (FLN). Alla guida del gruppo ci sono i fratelli Cesar Germàn e Fernando Muñoz Yañez, Alfredo Zàrate e Raúl Pérez Vàzquez. Il gruppo ha come strategia di costruire le proprie forze in silenzio e di non affrontare le forze statali. Nel 1972 Cesar Germàn Yañez si stabilisce nello stato del Chiapas nell’accampamento “El Diamante”, dal quale operava il “Nucleo Guerrigliero Emiliana Zapata” (NGEZ). Cinque anni dopo la sua fondazione il FLN ha reti a Tabasco, Puebla, stato del Messico, Chiapas, Veracruz e Nuevo Leon [4].

Anche se il FLN aveva un’ideologia marxista-leninista, il gruppo era lungi dal cadere nel dogmatismo. Fin dalla sua fondazione il FLN aveva stabilito l’obiettivo generale della creazione di un esercito e adottato come motto la frase del combattente per l’indipendenza Vicente Guerrero: “Vivere per la madrepatria o morire per la libertà”.

Il 4 febbraio 1974 il FLN è attaccato dalle forze dell’esercito e della polizia in una delle sue principali case sicure, “La Casa Grande”, situata a San Miguel Nepantla, nello stato del Messico. All’operazione partecipa Mario Arturo Acosta Chaparro, uno di principali protagonisti della guerra sporca in Messico, che successivamente sarà ripetutamente accusato di legami con il crimine organizzato.

Nella “Casa Grande” cinque guerriglieri sono uccisi e altri 16 sono arrestati. La persecuzione contro il FLN si è estesa a Ocosingo, Chiapas, dove l’accampamento “El Diamante” è attaccato e numerosi membri del NGEZ sono stati uccisi; alcuni sono riusciti a fuggire, compreso Cesar Germàn Yañez. “Articoli di giornali” – scrive Laura Castellanos – “affermano che a metà aprile 1974 il gruppo sopravvissuto, guidato da Cesar Germàn, è stato spazzato via dall’esercito nella giungla. Suo fratello Fernando è stato poi spinto nel Chiapas e una brigata è andata alla ricerca sua e del suo gruppo, ma senza successo” [5].

Dal 1974 al 1983 la storia del FLN è in una certa misura poco chiara, poiché non ci sono molte notizie su quel periodo. In tale arco di tempo il FLN ha condotto incursioni più frequenti nella Giungla Lacandon e riavviato la sua fase di reclutamento. E’ stato un periodo in cui sono stati reclutati molti studenti da università dove il marxismo era sulla cresta dell’onda, come nel caso dell’Autonomous Metropolitan University e dell’Autonomos University di Chapingo. Pure in questo periodo (1974-1983) molte delle attività del FLN erano situate nello stato del Chiapas. Nel 1977, ad esempio, fu creato un campo a Huitiupàn e un anno dopo una casa sicura a San Cristòbal del las Casas.

Il lavoro compiuto dal FLN in Chiapas gli ha consentito di costruire reti di solidarietà con organizzazioni locali che avevano lavorato in precedenza con gli indigeni della regione: gruppi maoisti, persone che avevano avviato la creazione di cooperative, e indigeni che erano stati incoraggiati a sviluppare lavoro comunitario dalla Chiesa Cattolica, principalmente guidati dal vescovo Samuel Ruìz.

Le esperienze di fronti armati in America Centrale, come il Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martì in El Salvador, il Fronte di Liberazione Nazionale Sandinista in Nicaragua, o la guerra civile durata più di trent’anni in Guatemala, ravvivavano l’intenzione del FLN di creare un esercito – non un gruppo guerrigliero, ma un esercito regolare – e il riuscito lavoro in Chiapas dal 1980 si era tradotto con l’inizio dell’inserimento nei documenti della guerriglia dell’acronimo FLN-EZLN.

Ciò nonostante è dal 17 novembre 1983 che è creato il primo campo dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, chiamato “La Zecca” [6], di nuovo con l’aiuto di un gruppo indigeno politicizzato con un mucchio di esperienza organizzativa – dal quale emergeranno in seguito comandanti come il Maggiore Mario o il Maggiore Yolanda -  e rafforzato da nuovi militanti provenienti dalle università.

Intervistato da Yvon Le Bot e Maurice Najman, il Subcomandante Insurgente Marcos ha spiegato che le tre componenti principali dell’EZLN sono “un gruppo politico-militare, un gruppo di indigeni politicizzati e molto esperti, e un movimento indigeno della Giungla [7]”. Il terzo gruppo cui Marcos si riferisce ha iniziato a essere parte cruciale dell’organizzazione dopo il 1983, un periodo in cui l’EZLN ha avviato una seconda fase di “costruzione di forze in silenzio”, ma questa volta cercando i combattenti prevalentemente tra indigeni della regione che non avevano alcuna esperienza precedente di militanza politica. Per questo compito gli indigeni politicizzati hanno fatto da ponte, ma anche da barriera culturale (in cui la lingua è stata l’ostacolo maggiore); la segretezza e la diffidenza degli indigeni – causate da secoli di oppressione e disprezzo – rendeva difficile ai mestizos avere accesso alle comunità.

I primi membri dell’EZLN penetrati nella giungla Lacandon hanno cominciato presto a vivere una realtà molto diversa e molto estranea a quella che la loro affiliazione ideologica aveva consentito loro di vedere. Nei primi anni non solo non hanno conquistato la fiducia degli indigenti, ma tutto il contrario: “A volte ci hanno perseguitato perché dicevano che eravamo ladri di bestiame o streghe o banditi. Molti di quelli che oggi sono compañeros o persino comandanti nel Comitato, all’epoca ci hanno dato la caccia perché pensavano che eravamo gente cattiva [8]”.

I contatti con le comunità indigene portarono a una specie di conversione del gruppo originale. Marcos racconta questo processo con queste parole:

“Abbiamo realmente subito un processo di rieducazione, o di rinnovamento. Come se ci avessero disarmato. Come se avessero smantellato tutto ciò di cui noi eravamo fatti – marxismo, leninismo, socialismo, cultura urbana, poesia, letteratura – tutto ciò che era parte di noi e cose che non sapevamo neppure di avere. Ci hanno disarmato e riarmato, ma in modo diverso. E quella era l’unica maniera di sopravvivere [9]”.

Come abbiamo detto più sopra, il lavoro sviluppato dal nucleo guerrigliero in Chiapas poteva maturare e divenire EZLN solo attraverso la visione del mondo e la tradizione di resistenza di differenti gruppi indigeni.

II. La resistenza millenaria

“Nel comitato discutemmo tutto il pomeriggio.

Cercavamo la parola della lingua per dire ARRENDERSI e non la trovavamo.

Non ha traduzioni in Tzotzil e Tzeltal.

Nessuno ricorda che la parola esista in Tojolabal o Chol.”

- Arrendersi non esiste nella vera lingua – Subcomandante Marcos [10]

“Il Messico è molti Messici”, dice il proverbio e il più delle volte la saggezza tradizionale sintetizza in brevi frasi ciò che gli studiosi e i ricercatori esprimono in centinaia di pagine. “Il Messico è molti Messici” non solo a motivo dell’eterogeneità del paese, ma anche, e principalmente, per la varietà dei popoli che hanno abitato e tuttora abitano il suo territorio.

Lo stato del Chiapas è un esempio di questa diversità geografica e culturale che caratterizza l’intero paese. La sua storia condensa la storia di molti popoli del Messico e dell’America Latina: una storia di popoli che sono stati conquistati con la violenza e che hanno resistito e che oggi, più di cinquecento anni dopo, continuano a resistere e sono riusciti a conservare molte delle loro tradizioni.

In generale la resistenza, come azione sociale collettiva, è opposta da gruppi indigeni in reazione a invasioni (o tentativi d’invasione) del territorio che abitano. In questo senso la resistenza è più una reazione che un’azione, un atto di autodifesa territoriale e culturale da parte di gruppi indigeni contro un’offensiva di forze straniere. Gli atti di resistenza possono essere attivi o passivi, violenti o non violenti, armati o disarmati e quasi sempre il gruppo o i gruppi che li esercitano sono in svantaggio, cioè il rapporto di forze – numerico o operativo – è loro sfavorevole.

In un tentativo di classificare le varie forme di resistenza da lui studiate, James Scott [11] segnala che ci sono forme di resistenza dichiarate pubblicamente e forme di resistenza che sono mascherate, di basso profilo, non dichiarate: le prime cercano attenzione (scioperi, boicottaggi, ribellioni, petizioni) mentre le seconde resta nel loro campo di infra-politica (non visibile, intima, simbolica). Anche se la forma celata di resistenza sfugge all’occhio al primo sguardo, merita di essere segnalato che questa forma “procura gran parte dei sostegni culturali e strutturali dell’azione politica più visibile” [12], cioè della forma pubblica di resistenza.

Quando i conquistatori spagnoli arrivarono nel territorio che oggi conosciamo come Chiapas, trovarono civiltà molto avanzate nelle sfere politica, economica, architettonica e militare, per citare solo alcuni aspetti. L’area era abitata da un gruppo di nazioni che erano solidali, partecipative e complementari, ma anche in conflitto.

All’epoca, racconta Antonio Garcìa de Leòn [13], era la cultura “Chiapa” o “Chiapas” che manteneva il controllo del territorio, in larga misura grazie alla potenza militare che aveva sviluppato. Come in altre parti delle Americhe, alcuni popoli nativi videro i conquistatori come alleati con i quali affrontare la cultura dominante. Fu così con gli Zinancatecos, che decisero di appoggiare i conquistatori nella battaglia contro il Chiapa. La guerra per conquistare la regione iniziò nel 1524 e la resistenza dei nativi ritardò la presa della città per quattro anni; le truppe guidate da Diego de Mazariegos non poterono stabilirsi nella regione prima del 1528.

Gradualmente i conquistatori cominciarono a sconfiggere i popoli nativi mediante la forza militare. Altri furono costretti a cercare rifugio nelle montagne. In realtà continuarono a resistere nei modi mascherati, di basso profilo, non dichiarati citati da Scott, continuando a riprodurre la propria storia, memoria e lingua e adottarono persino alcune forme del cattolicesimo che furono reinterpretate e fatte proprie dalla visione del mondo dei popoli originari.

La guerra continuò a causa delle divisioni tra gli spagnoli e dell’ostinazione dei popoli indigeni, ma soprattutto a causa del trattamento crudele, dell’asfissiante sistema fiscale – che era incorporato nelle leggi della Nuova Spagna – e della tradizione guerriera dei popoli Maya. La resistenza in numerose occasioni assunse la sua forma dichiarata e sorse la prima ribellione. 

La ribellione, come descritto più sopra, è la forma pubblicamente dichiarata della resistenza. Le ribellioni spesso nascono quando la classe dominata è sottoposta a trattamenti eccessivi dalla/e classe/i e/o dal/dai gruppo/i dominante/i e implica disobbedienza, opposizione e/o rifiuto dell’autorità. E’ anche una contestazione aperta della legittimità di quelli al potere per le loro forme di controllo o di oppressione eccessive e anche se può essere pacifica o armata, violenta o non violenta, la ribellione è sempre un atto di scontro. Le ribellioni sono classificate come processi confinati e un’area geografica limitata e sono più o meno spontanee. Anche se, all’origine, le ribellioni hanno storicamente mancato di avere un progetto alternativo, è anche vero che molte – nella loro fase di maggiore maturità – hanno generato processi rivoluzionari.

Delle varie ribellioni che ebbero luogo nella colonia del Chiapas, diversi storici sottolineano la ribellione Tzeltal del 1712, fino a definirla la “Repubblica di Cancur” o la “Repubblica Tzeltal”. Diamo una rapida scorsa a questi eventi.

Lo spinoso rapporto tra gli indigeni e i colonizzatori entrò in una nuova crisi nel 1711, causata fondamentalmente dalla persecuzione da parte della chiesa cattolica di nativi che affermavano di essere stati testimoni di manifestazioni divine. Il primo evento accadde nella comunità Toztzil di Santa Maria dove una “vergine con tratti indigeni” fu rivelata in un pezzo di legno scolpito agli tzotzili Dominica Lopez e Juan Gomez. L’apparizione generò un subbuglio tra le comunità vicine e fu per questo che l’Inquisizione confiscò l’immagine.

Mesi dopo, mentre le comunità parlavano ancora dell’”apparizione della vergine”, i santi cattolici San Sebastiàn e San Pedro fecero la loro apparizione nel villaggio di San Pedro Chenalho, Ciò condusse all’idea che “la fine del mondo si stava avvicinando”, cosa che toccò la coscienza collettiva del popolo della regione.

Inoltre l’asfissiante sistema fiscale del capitanato e le pesanti commissioni imposte dal vescovo Juan Baptista Alvarez de Toledo alimentarono lo scontento sociale, inducendo migliaia di indiani a ribellarsi contro le autorità della Nuova Spagna. All’epoca fu vista di nuovo la figura della vergine, in quest’occasione da Maria de la Candelaria, una tzeltal della comunità di Cancuc; ciò fu interpretato dai ribelli come un nuovo messaggio. I ribelli trovarono in Maria Candelaria “una medium per comunicare con la vergine”, e per proteggerla crearono l’esercito dei “soldati della vergine”, che riunì 32 comunità Tzeltal, Tzotzil e Chol e raggiunse un totale di tremila miliziani nei suoi ranghi.

I “soldati della vergine” reclutavano sostenitore attraverso la pratica di culti semiclandestini, dimostrando così che i popoli nativi avevano conservato le loro strutture organizzative e avevano mantenuto una certa indipendenza dalla Corona.

La ribellione dei popoli originari si rafforzò di nuovo quando Sebastian Gomez de la Gloria, un indiano Tzotzil che affermava di essere salito in cielo e di aver parlato con “Dio il padre”, cominciò a nominare sacerdoti indiani, distribuire poteri e benedire l’esercito ribelle. Le comunità vicine cominciarono a ignorare ogni potere che non fosse originato da Cancuc e i sacerdoti e le figure religiose spagnole cominciarono a essere perseguitati e giustiziati. Gli insorti nominarono proprie autorità e numerosi villaggi furono ribattezzati.

Conflitti inter-etcnici, alimentati dagli spagnoli, la cooptazione di alcuni dei leader e la brutale carica dell’esercito della Nuova Spagna posero fina alla “Repubblica di Cancuc”, ma non fu che nel 1727 che furono arrestati i responsabili della ribellione e i loro figli, per “non lasciare in libertà i semi della ribellione”.  I colonizzatori si incaricarono di mantenere viva la sconfitta nella memoria degli insorti. Un esempio è Pedro de Zavaleta, che per vendetta per l’assassinio di ladinos e spagnoli, si diede a tagliare un orecchio e tutti quelli che considerava membri o complici della ribellione.  

I popoli indigeni tornarono di nuovo – consapevolmente o inconsapevolmente – alla resistenza celata. Ma anche se ci furono dimostrazioni pubbliche in più di un’occasione, nessuna fu della vastità della Repubblica Tzeltal.

Nel corso dei secoli diciannovesimo e ventesimo, la resistenza continuò, a volte in forma pubblica e altre in forma nascosta, ma l’opposizione alla dominazione era sempre viva. E’ vero che gli indiani della regione, come quelli dell’intero continente americano, subirono uno sterminio che spazzò via la maggior parte della popolazione, inducendo Tzvetan Todorov a definire la conquista “il maggiore genocidio della storia umana” [14]. Ma tuttavia, o unendosi ai ranghi dell’esercito d’indipendenza o rafforzando l’Esercito di Liberazione del Sud sotto la guida di Emiliano Zapata, durante la rivoluzione, i popoli indiani del Chiapas parteciparono attivamente alla costruzione della nazione messicana. Figure mitiche come Juan Lopez o ribellioni come quella nello Yucatan nel 1847 alimentarono sia la memoria sia la pratica ribelle.

Alcune resistenze implicano la costruzione di nuove forme di organizzazione sociale e politica, come nel caso dei popoli Maya;  prendendo alcune espressioni del cattolicesimo e dell’organizzazione politica coloniale, ma anche creando nuove forme di sussistenza autonoma le etnie del Chiapas sono sopravvissute alla conquista e all’insediamento. Nel Messico indipendente hanno affrontato lo sfruttamento e l’emarginazione da nuove figure del potere, ad esempio quelle del “Caciquismo illuminato” o della “Famiglia Chiapas”, chiare prove del colonialismo interno.

La lunga guerra di colonizzazione affrontata dai popoli indigenti dell’America Latina, particolarmente da quelli del Chiapas, non è riuscita a spogliarli della loro identità. Le politiche di sterminio, pulizia sociale e etnocidio si sono tradotte, come “conseguenza indesiderata della guerra”, nel rafforzamento della coesione sociali e della coscienza collettiva del popolo indiano. Al riguardo merita di essere detto che la guerra di conquista, il colonialismo e il neocolonialismo hanno fallito a livello culturale e ideologico. Non sono riusciti a imporre la razionalità occidentale come unico modo di pensare e la religione cattolica come la sola forma di espressione spirituale.

Questa resistenza millenaria si dimostra nuovamente presente nell’EZLN. Come la descrive Gonzalez Casanova:

“I maya spiccano tra i popoli che hanno maggiormente resistito alla conquista. Nello Yucatan e in Guatemala, non sono stati soggiogati fino al 1703 e presto si sono ribellati di nuovo. In Chiapas hanno attuato una grande rivolta nel 1712. Il Chilam Balam dice: “Poi venne il giuramento segreto, il giuramento della rabbia, il giuramento della violenza, il giuramento senza pietà”.  E quello stesso popolo tornò di nuovo alla ribellione il primo gennaio del 1994 [15].”

La lunga tradizione di resistenza e di ribellione dei popoli indigeni intrecciata al pensiero e alla prassi delle Forze Marxiste di Liberazione Nazionale hanno dato origine all’EZLN. Tuttavia merita anche di essere sottolineato il lavoro compiuto in precedenza nella regione da una corrente della Chiesa Cattolica sotto la guida del vescovo Samuel Ruiz Garcia.

III. La scelta per i poveri

Durante la guerra di conquista e il processo di colonizzazione, ci sono state figure che hanno denunciato le atrocità attuate dai rappresentanti della corona spagnola contro gli indigeni. Tali voci hanno trovato un’eco importante nella Chiesa Cattolica. Un caso esemplare è quello di Fra Bartolomé de las Casas. Secoli dopo, durante la guerra d’indipendenza, due sacerdoti hanno di nuovo svolto un ruolo importante: Miguel Hidalgo y Costilla e Josè Maria Morelos y Pavon. Tuttavia non è che nella seconda metà del ventesimo secolo che il ruolo della chiesa e di alcuni suoi rappresentati che hanno accompagnato movimenti sociali è stato analizzato in profondità.

In un tentativo di rinnovare e rafforzare la Chiesa Cattolica, papa Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano Secondo, che ebbe luogo tra il 1962 e il 1965. In quel congresso emersero antiche differenze all’interno del cattolicesimo, specialmente quelle tra gli “anti-moderni” e i “modernisti”. Come parte di questo Concilio, papa Paolo VI – che succedette a Giovanni XXIII dopo la sua morte – convocò un Consiglio Episcopale Latino Americano per rinnovare la sua visione e prassi al fine di renderlo più coerente con la realtà del continente.

In risposta a questa chiamata, vari sacerdoti dell’America Latina si diedero al compito di preparare la Seconda Conferenza Generale dei Vescovi Latino-americani a Medellin, Colombia, nell’agosto e settembre del 1968. La conferenza ebbe un impatto globale sulla Chiesa Cattolica a motivo della sua composizione, dei temi affrontati e delle conclusioni raggiunte.

Evidenziamo alcuni di questi elementi:

a) Il documento conclusivo della conferenza non affrontò solo temi che andarono oltre i confini della Chiesa Cattolica, ma rivelarono apertamente una posizione politica in contesti locali.  Alcuni dei documenti affrontarono i temi dei movimenti dei laici, dei media, della giustizia, della povertà, della pastorale popolare (la religione popolare) e così via.

b) Molte delle idee espresse nel corso dell’incontro di Medellin rafforzarono l’opinione che la chiesa dovesse denunciare la sistematica oppressione dei poveri e lo sfruttamento delle società del Terzo Mondo.

c) Parteciparono non solo sacerdoti, ci furono anche religiosi, laici e un’importante rappresentanza delle Comunità Ecclesiastiche di Base – un movimento sociale nato nello stesso contesto – il che significava un’aperta volontà di collaborare con la società, anche in iniziative strategiche.

d) I partecipanti posero una forte enfasi sulle differenze storiche e strutturali tra l’America Latina e l’Europa; così, pur considerandosi parte della stessa chiesa, affermarono che i loro ruoli erano diversi.

e) I partecipanti concordarono non solo di assumere il ruolo di denuncia dello sfruttamento e dell’oppressione, ma anche di passare alla sfera dell’azione e di fornire assistenza in ogni modo necessario affinché, in modo organizzato, gli impoveriti riuscissero a modificare la loro condizione di povertà.

I risultati della Conferenza di Medellin incoraggiarono religiosi e laici a studiare in profondità il ruolo della chiesa in America Latina, guardando alle caratteristiche di un continente segnato da rapporti di forte ed evidente sfruttamento, generato dalle strutture – coloniali e capitaliste – della produzione materiale.

Questo rinnovato interesse al ruolo della Chiesa Cattolica in America Latina indusse numerosi intellettuali a riscoprire il ruolo di alcuni sacerdoti che erano vicini alle lotte sociali e a costruire una visione storica di quel ruolo, dando vita alla Teologia della Liberazione (TL, nell’acronimo spagnolo).

Il filosofo Enrique Dussel identifica tre generazioni di teologi della liberazione: la prima è quella che nei tempi coloniali intraprese una critica della corona spagnola e si schierò con gli indiani. Certe figure spiccano, come Fra Antonio de Montesinos, Fra Domingo de Vico e Fra Bartolomè de las Casas. La seconda generazione sarebbe rappresentata da Josè Maria Morelos y Pavon, Miguel Hidalgo y Costilla e Fra Servando Teresa de Mier; condussero la lotta per rendere il Messico una nazione indipendente. La terza generazione appare nella seconda metà del ventesimo secolo e diviene articolata dopo la Conferenza di Medellin. Alcune figure spiccano, come Gustavo Gutierrez (Peru), Leonardo Boff (Brasile), Camilo Torres (Colombia), Ernesto Cardenal (Nicaragua), Jean-Bertrand Aristide (Haiti), Fernando Lugo (Paraguay), Oscar Arnulfo Romero (Salvador), Sergio Mendez Arceo e Samuel Ruiz Garcia (Messico).

Il punto di partenza della TL è l’analisi concreta della realtà e dei processi storici che realizzano tale realtà, ma sempre a livello teologico. Franz Hinkerlammert nota che la TL considera la povertà come la “negazione del reciproco riconoscimento tra soggetti” e che una società con poveri e una società senza Dio.

“Questa assenza di Dio, comunque, è presente dovunque qualcuno pianga. L’assenza di Dio è presente nei poveri. I poveri sono la presenza del Dio assente. E’ una questione di un caso visibile di teologia negativa, in cui la presenza di Dio – una presenza effettiva – è data dall’assenza, un’assenza che grida, e dalla necessità” [16].

Per questo motivo i teologi della liberazione scelsero di aiutare i poveri ad abbandonare da soli la loro condizione di povertà, con il conseguente riconoscimento di tutti i soggetti e nella costruzione del regno di Dio sulla terra.

La reazione delle correnti ortodosse in seno al Vaticano e di alcuni governi locali fu immediata: iniziò una campagna di diffamazione contro le posizioni e il lavoro dei teologi della liberazione in cui furono accusati di essere influenzati da gruppi comunisti e di avere relazioni con i guerriglieri. In quest’ottica i teologi della liberazione erano promotori di odio e di violenza, dunque non erano rappresentanti validi della Chiesa Cattolica.

In questo modo si ebbe in tutta l’America Latina una specie di simbiosi tra marxismo e cattolicesimo. Perciò i teologi della liberazione non furono interessati a far parte della struttura gerarchica della chiesa. Il loro lavoro fu più incentrato sull’organizzazione sociale, sul lavorare con i poveri e con il proletariato.

Con l’estendersi del dibattito oltre il livello verbale e intellettuale, nella loro pratica i critici religiosi continuarono il loro lavoro di base con i “poveri e gli oppressi”. Assieme a incontri episcopali, in America Latina il movimento formato dalle Comunità Ecclesiastiche di Base (CEB, secondo l’acronimo spagnolo) stava guadagnando vigore e trovò in Brasile e in Nicaragua uno spazio di riferimento. Alcune espressioni di questo movimento divennero addirittura partiti politici.

In Messico il CEB trovò principalmente vasta accettazione tra i settori più emarginati della società. Al riguardo Miguel Concha ha affermato che “il CEB in Messico ha origine nelle aree rurali e cittadine più povere, tra quelli che subiscono una realtà economica e politico-sociale di sfruttamento, fame, repressione e miseria. I suoi principali protagonisti sono gli indigeni e i campesinos, gli operai, i sotto-occupati e i disoccupati che – dalla pastorale di lavoratori, sacerdoti, religiosi e laici, la cui vita è dedicata alla scelta preferenziale per i poveri – hanno scoperto nel Movimento CEB il seme di speranza nella chiesa dell’America Latina in generale e in quella del Messico in particolare” [17].

La metodologia di lavoro dei membri delle Comunità Ecclesiastiche di Base include cinque elementi, che sono molto descrittivi del rapporto dialettico tra pensiero e azione:

           ·         Vedere: essere consapevoli di ciò che succede, avere contatto con la realtà e analizzarla con “occhi individuali e collettivi”.

           ·         Pensare: Alla luce della Parola di Dio e della guida della Chiesa, pronunciare un giudizio di fede riguardo a ciò che è VISTO (primo passo) e sviluppare piani di azione evangelica.

           ·         Agire: Attuare ciò che è stato pianificato, con una visione globale e un’azione locale – articolata, organizzata – basata su un progetto di comunità.

           ·         Valutare: Valutare i risultati, comprendere i fallimenti, imparare dalla via intrapresa e reindirizzare le azioni.

           ·         Celebrare: E’ nella celebrazione della fede e nella celebrazione della comunità dove ringraziamo la presenza di Dio nel nostro viaggio e ci prepariamo ad andare avanti.

Le CEB e la Diocesi di San Cristobal de las Casa – con Samuel Ruiz Garcia alla loro testa – svolsero un ruolo importante nelle comunità indigene. Parteciparono attivamente, ad esempio alla convocazione e all’attività del Primo Congresso Indigeno nel 1974. Imitando le risoluzioni della Conferenza di Medellin, i religiosi cominciarono a imprimere negli indigeni l’idea che il regno di Dio doveva trovare espressione sulla terra e che avrebbe dovuto essere basato sulla giustizia e la verità. Il lavoro della diocesi rafforzò l’organizzazione interna dei popoli indigeni e consentì loro di costruire reti di contatti con organizzazioni simili nello stato, in Messico e nel mondo.

Tuttavia, come accaduto alle Forze di Liberazione Nazionale, anche il lavoro della diocesi si vide capovolto dalla particolare visione del mondo dei popoli indigeni, al punto che cominciò a formarsi una specie di “chiesa indigena”, composta da 2608 comunità con 400 pre-diaconi e 8.000 catechisti che, sebbene coordinata con la struttura della diocesi, aveva anche una certa autonomia.

Nel corso della fase dell’EZLN di “accumulazione delle forze in silenzio”, un gran numero di militanti fu trovato tra gli indiani che avevano collaborato con le CEB e con la diocesi di San Cristobal de las Casas. Non che la loro integrazione fosse pianificata, ma avvenne che il lavoro compiuto da Samuel Ruiz aveva condotto le comunità indigene a diventare il preludio ideale di un lavoro politico che fu poi sviluppato dai neo-zapatisti. Così, molti degli indigeni che erano stati pre-diaconi e catechisti della “chiesa indigena” scelsero anche di unirsi ai ranghi dell’EZLN.

Come abbiamo visto in tutte e tre queste sezioni, dietro l’EZLN che dichiarò guerra all’esercito messicano il 1 gennaio 1994 c’è una complessa rete di visioni politiche e culturali che s’intrecciano per evidenziare una realtà di oppressione e di sfruttamento nei confronti di un vasto segmento della società. Non è solo una lotta a favore dei popoli indigeni – se osserviamo attentamente la Prima Dichiarazione della giungla di Lacandon non troveremo nemmeno una singola citazione di essi – ma la loro lotta è molto più vasta, è “per il popolo messicano”.

Le lotte contro il colonialismo e la conquista, le lotte per fare del Messico una nazione libera, indipendente e sovrana e le lotte contro il capitalismo nella sua forma imperialista sono la sostanza storica della ribellione indigena che ha sconvolto il mondo e che ispira – ancor oggi – grande simpatia.

Così, l’EZLN può essere inteso come un movimento che chiede una liberazione nazionale che renda possibile uno sviluppo equilibrato ed equo. Ma la sua lotta consiste anche nel rendere il Messico una nazione democratica, ponendo fine alla “dittatura monopartitica” che governa questo paese da oltre settant’anni e che ora è di nuovo al governo.

C’è anche molto di nuovo riguardo ai neo-zapatisti. Citeremo soltanto un unico aspetto, di grande importanza: la loro lotta non è per conquistare il potere è poi creare un regime socialista o comunista, come accaduto nella maggior parte dei paesi dell’America Latina e del mondo dove ci sono state ribellioni armate. Al contrario, le prime rivendicazioni sono state meramente richieste del minimo necessario per una vita decente: “Lavoro, terra, un tetto, cibo, salute, istruzione, indipendenza, libertà, democrazia, giustizia e pace”.

Visto in questo modo, possiamo dire che l’EZLN è una sintesi, un processo sociale che si sforza di riunire una vasta gamma di rivendicazioni sociali, tradizioni di lotta e correnti di pensiero critico presenti in tutta la storia del Messico e del mondo. Al tempo stesso recupera nuovi approcci rilevanti per i loro tempi. Per questi motivi oggi, trent’anni dopo la sua creazione e quasi venti dopo la sua prima apparizione pubblica, dopo processi intensi e diversi di ricostruzione e di costruzione della storia ci sono molti di noi, in tutto il mondo, che ancora gridano “Lunga vita all’EZLN!”

Questo saggio è stato pubblicato originariamente in spagnolo da SubVersiones. Traduzione in inglese per Upside Down World del Dorset Chiapas Solidarity Group. Revisione di Nancy Pineiro e Tamara van der Putten.

Note:

[1] Galeano, E. (1995) “El desafío. Mensaje enviado al Segundo Diálogo de la Sociedad Civil”. En Clajadep, Red de divulgación e intercambios sobre autonomía y poder popular (“La sfida. Messaggio trasmesso al Secondo Dialogo con la Società Civile”)

[2] Una versione precedente di questa sezione è stata pubblicata nel 2012 dal giornale digitale Rebeliòn. La versione pubblicata qui contiene materiale nuovo. An earlier version of this section was published in 2012 in the digital newspaper Rebelión.

 [3] Hobsbawm, E. (1995) The age of extremes: The short twentieth century, 1914-1991. London: Abacus.

[4] Castellanos, L. (2008) México armado 1943-1981. México: Ediciones Era, p. 244.

[5] Castellanos, L. (2008), op cit., p. 247.

[6] Cf. Morquecho, G. (2011) “La Garrapata en el Chuncerro, cuna del EZLN” (“La zecca nel  Chuncerro, culla dell’EZLN”). [Online; solo in spagnolo]. In: Latin American Information Agency, 15 Novembre. Accessibile all’indirizzo http://alainet.org/active/50889&lang=es [Consultato il 13 novembre 2012].

[7] Le Bot, Y. (1997) Subcomandante Marcos. El sueño zapatista. Entrevistas con el Subcomandante Marcos, el mayor Moisés y el comandante Tacho, del Ejercito Zapatista de Liberación Nacional (Subcomandante Marcos. Il sogno zapatista: interviste al Subcomandante Marcos, al maggiore Moises e al comandante Tacho, dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) Messico: Plaza & Janés, p. 123.

[8] Ibid, p. 137-138.

[9] Ibid, p. 151.

[10] SCI Marcos (2002) “Rendirse no existe en lengua verdadera”. En Relatos del Viejo Antonio. México: Centro de Información y Análisis de Chiapas, pp. 25-26 (“Arrendersi non esiste nella lingua vera” In Tales of Old Antonio.)

[11] Scott, J. (1990) Domination and the Arts of Resistance: Hidden Transcripts. Yale University Press, 1990

[12] Ibid, p. 184.

[13] García de León, A. (2002) Resistencia y utopía. Memorial de agravios y crónica de revueltas y profecías acaecidas en la provincia de Chiapas durante los últimos quinientos años de su historia. (Resistenza e Utopia. Memoriale dei reclami e cronaca delle rivolte e profezie nella provincia del Chiapas negli ultini cinquecento anni della sua storia).Messico, Ediciones Era.

[14] Tzvetan Todorov, The Conquest of America, trad. Richard Howard, London: Harper Perennial, 1992, p. 5.

[15] Gonzalez Casanova, P. (2009) “Causas de la rebelión en Chiapas”. En De la sociología del poder a la sociología de la explotación: Pensar América Latina en el siglo XXI (Causes of the rebellion in Chiapas.” In: Dalla sociologia del potere alla sociologia dello sfruttamento: immaginare l’America Latina nel XXI secolo. Antologia.) Colombia: CLACSO/Siglo del Hombre Editores, p. 266.

[16] Hinkerlammert, F. (1995) “Teología de la Liberación en el contexto Económico-Social de América Latina: economía y teología o la irracionalidad de lo racionalizado” (“Teoria della Liberazione nel contesto economico-sociale  dell’America Latina: economia e teologia o irrazionalità del razionalizzato”) [Online] In Revista Pasos, no. 5, p.2. Accessibile all’indirizzo  http://dei-cr.org/uploaded/content/publicacione/910040863.pdf [Consultato il 15 ottobre 2012]

[17] Concha, M. (1988) “Las comunidades eclesiales de base y el movimiento popular” (“Le comunità ecclesiali e il movimento popolare”)  [Online] In Dialéctica Magazine, no. 19, July, p.159 Accessibile all’indirizzo   http://148.206.53.230/revistasuam/dialectica/include/getdoc.php?id=344&article=365&mode=pdf [consultato il 3 novembre 2012).

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte:http://www.zcommunications.org/a-brief-history-of-the-zapatista-army-of-national-liberation-by-ra-l-romero.html

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