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Merc 26 Marzo 2014

Egitto, prove di sterminio
di Michele Paris

La condanna a morte ai danni di centinaia di membri dei Fratelli Musulmani in Egitto nella giornata di lunedì è stata solo la più recente e clamorosa iniziativa della giunta militare al potere al Cairo per distruggere i suoi oppositori e consolidare la propria posizione in vista delle prossime elezioni presidenziali. Oltre ad avere condannato ben 529 imputati alla pena capitale in primo grado, il tribunale della città di Matay ha iniziato martedì a presiedere anche un altro processo-farsa, nel quale sono coinvolti più di seicento affiliati all’organizzazione dell’ex presidente Mursi, tra cui alcuni dei più alti esponenti dello storico movimento islamista messo fuori legge dal regime.

Mentre i vertici delle forze di sicurezza egiziane e i membri della giunta militare si sono resi protagonisti a partire dal luglio scorso di una violentissima repressione ai danni dei sostenitori del governo e del presidente eletto dei Fratelli Musulmani, facendo più di 1.400 morti, i 529 condannati di lunedì potrebbero essere giustiziati sostanzialmente per la morte di un solo poliziotto.

I fatti incriminati risalgono all’agosto dello scorso anno, quando le forze di sicurezza - poche settimane dopo il colpo di stato contro il presidente Mursi - dispersero una serie di manifestazioni di protesta dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi reagirono dando vita a scontri violenti soprattutto nella provincia di Minya, a sud del Cairo, una delle roccaforti degli islamisti. Oltre ad assaltare alcune chiese cristiane, i manifestanti presero d’assedio una stazione di polizia a Matay, incendiandola, uccidendo un agente e tentando di ucciderne altri due. Su quest’ultimo episodio verteva il processo da cui sono scaturite lunedì le condanne a morte.

Il mancato rispetto delle basilari norme giudiziarie nel procedimento di primo grado è difficile da sopravvalutare. Per cominciare, i tre giudici che hanno presieduto il processo hanno preso la loro decisione dopo appena due sedute della durata di meno di un’ora ciascuna.

Inoltre, alla difesa non è stato praticamente concesso spazio per esporre la propria versione dei fatti né è stato possibile studiare le oltre tremila pagine di indagini su cui la causa era basata. La stessa richiesta degli avvocati difensori di ricusare uno dei giudici scelti per presiedere il caso non è stata presa in considerazione, nonostante quest’ultimo avesse dei precedenti a dir poco controversi, come l’assoluzione di 11 membri delle forze di sicurezza di Mubarak accusati di avere ucciso dei manifestanti durante la rivoluzione del gennaio 2011.

Secondo i legali della difesa, poi, uno dei condannati sarebbe addirittura paralizzato e costretto su una sedia a rotelle, rendendo quanto meno difficile la sua partecipazione all’assalto contro la stazione di polizia al centro del procedimento.

In ogni caso, dei 545 imputati, solo 150 erano presenti in aula e la maggior parte di essi è stata perciò condannata in absentia. Appena 16 sono stati invece prosciolti. Viste anche le reazioni a livello internazionale, nonché la flagrante violazione di qualsiasi principio di legalità, è probabile che almeno una parte delle condanne a morte verrà ribaltata nei procedimenti di appello già annunciati.

Ciononostante, il verdetto di lunedì e le modalità con cui esso è arrivato rappresentano un tentativo di intimidire gli oppositori del regime militare egiziano e non solo i Fratelli Musulmani. Infatti, le dimensioni della condanna a morte di massa - probabilmente la più pesante da molti decenni a questa parte - la dicono lunga sulle intenzioni dei militari e del potere giudiziario, in larga misura composto ancora da giudici nominati durante l’era Mubarak.

Per dare un’idea della smisuratezza della sentenza, è sufficiente citare alcuni dati riportati dal sito di informazione Ahram Online, secondo il quale in Egitto tra il 1981 e il 2000 nei tribunali civili erano stati condannati a morte 709 imputati, di cui 249 effettivamente giustiziati.

Gli stessi metodi sommari potrebbero essere utilizzati ora nel già ricordato processo ai danni di 683 membri dei Fratelli Musulmani apertosi martedì e subito aggiornato al 28 aprile. Tra di essi spiccano il leader spirituale del movimento, Mohamed Badie, e il numero uno del braccio politico, Saad El-Katatny.

Ad occuparsi del nuovo caso che riguarda un altro assalto ad una stazione di polizia - questa volta nella città di Minya - sarà lo stesso tribunale che ha condannato i 529 imputati nella giornata di lunedì. Alla prima seduta di martedì erano presenti solo 60 imputati, mentre gli avvocati della difesa hanno deciso di boicottarla in segno di protesta, sia per la sentenza del giorno precedente che per le irregolarità riscontrate anche nel nuovo procedimento.

Se gli eventi di questi giorni in Egitto sono stati condannati da molti governi occidentali, le loro dichiarazioni critiche sono apparse spesso di circostanza e, soprattutto, non hanno messo in nessun modo in discussione il presunto percorso di transizione “democratica” che il paese nord-africano starebbe seguendo sotto la guida dei militari.

Gli Stati Uniti, in particolare, tramite una portavoce del Dipartimento di Stato hanno espresso “profonda preoccupazione” per le 529 condanne a morte, senza però minacciare una revisione delle relazioni con Il Cairo. 

La responsabile della diplomazia per l’Unione Europea, Catherine Ashton, ha semplicemente ricordato al regime come la pena di morte sia “crudele e inumana” e che il rispetto degli “standard internazionali” è particolarmente importante per “la credibilità della transizione egiziana verso la democrazia”. Né Washington né Bruxelles, come è ovvio, hanno ad esempio prospettato possibili sanzioni come quelle tempestivamente applicate nei giorni scorsi contro la Russia per i fatti di Crimea.

Nonostante la retorica occidentale, quello intrapreso dal più popoloso paese arabo, dopo la rimozione di Mohamed Mursi il 3 luglio del 2013 sull’onda delle proteste oceaniche contro il suo impopolare governo, è in realtà un percorso regressivo che ha riconsegnato il controllo diretto del potere ai vertici militari.

La sentenza draconiana contro i Fratelli Musulmani giunge d’altra parte dopo una lunga serie di iniziative anti-democratiche promosse dalla giunta, tra cui la messa al bando di qualsiasi manifestazione di protesta e della stessa organizzazione islamista, nonché l’approvazione di una nuova costituzione che sancisce la posizione di privilegio dei militari nel paese.

I fatti giudiziari di questi giorni, infine, si inseriscono nei preparativi per il lancio verso la presidenza del leader della giunta militare, generale Abdel Fattah al-Sisi, primo responsabile di arresti e uccisioni di massa nei mesi scorsi in nome del ritorno alla stabilità dell’Egitto.

La sua ascesa, favorita dall’Occidente e dalle forze secolari e progressiste che si opponevano ai Fratelli Musulmani, dopo più di tre anni dalla fine di Mubarak segnerà così la chiusura definitiva della parentesi rivoluzionaria, inaugurando però probabilmente l’inizio di una nuova fase di tensioni interne e di inevitabile confronto con la popolazione egiziana.

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