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28 Aprile 2014

In Egitto 700 condanne a morte. Una strana ricetta per la democrazia
di Alessandro Accorsi

Gli Stati Uniti rinnovano il loro sostegno al percorso verso la democrazia del governo egiziano. Ma le sentenze capitali contro gli islamisti e la messa al bando del Movimento liberale 6 aprile rischiano di favorire gli estremisti

L’Egitto aveva stabilito un record negativo già lo scorso mese, quando una corte di Minya, città a sud del Cairo, aveva condannato a morte 529 sostenitori dei Fratelli musulmani per l’uccisione di un ufficiale di polizia dopo un processo durato meno di cento minuti. Oggi, la corte di Minya ha confermato la pena capitale “solo” per 37 imputati, commutando in ergastolo la pena per gli altri 492. Ma in un altro processo di massa tenutosi subito dopo, lo stesso giudice ha condannato a morte in primo grado 683 imputati, tra cui la Guida Suprema della Fratellanza musulmana Mohamed Badie.

Se la sentenza fosse confermata, Badie sarebbe il primo leader dei Fratelli musulmani condannato a morte dal 1966, quando il regime nasseriano impiccò Sayid Qutb, l’ideologo della linea radicale della Fratellanza.

Allora, l’uccisione di Qutb spinse la maggioranza del movimento islamista ad abbracciare le sue teorie di lotta frontale e armata contro il governo che portò al dilagare del terrorismo jihadista negli anni Settanta e Ottanta. Allo stesso modo, la condanna a morte di 720 sostenitori della Fratellanza potrebbe convincere sempre più islamisti ad abbandonare la linea di lotta non-violenta predicata sinora dalla leaderhip del movimento. Spingendoli nelle braccia dei nuovi gruppi jihadisti.

Proprio in nome della lotta al terrorismo, dopo la condanna dei 529 imputati il 24 marzo scorso, il ministro degli esteri egiziano Nabil Fahmy si era affrettato a chiedere alle cancellerie occidentali di non interrompere il proprio supporto al Cairo nella transizione alla democrazia e nell’eradicare della minaccia jihadista. Fahmy aveva difeso la regolarità del processo e l’indipendenza del sistema giudiziario.

Il segretario di stato americano John Kerry aveva chiesto al governo egiziano di «rimediare alla situazione», specialmente «in vista dell’inizio di un altro processo di massa», quello conclusosi oggi con 683 condanne a morte.

Questa volta Nabil Fahmy avrà l’opportunità di chiarirsi direttamente con Kerry nel loro faccia a faccia a Washington. I due si incontreranno per discutere del processo di pace israelo-palestinese, della transizione democratica in Egitto e della ripresa della cooperazione militare tra i due paesi. Nei giorni scorsi, infatti, l’amministrazione Obama aveva accantonato la sospensione degli aiuti militari americani in vigore dalla scorsa estate – e che aveva dato occasione al generale Abdel Fattah al Sisi di siglare un accordo con la Russia – annunciando l’invio di 10 elicotteri Apache al Cairo.

L’amministrazione americana, così come le cancellerie europee, sono strette tra considerazioni strategiche che spingono ad offrire supporto al regime egiziano contro la minaccia jihadista in Sinai e nel resto del paese, e dubbi legittimi sul processo di transizione alla democrazia e sull’estensione della repressione del dissenso che potrebbero proprio alimentare la crescita del terrorismo.

«Dobbiamo prendere una posizione», aveva esortato l’ex primo ministro britannico Tony Blair la scorsa settimana, rivolgendo un appello ai governi europei e agli Stati Uniti per ricucire le proprie differenze politiche con Russia e Cina e creare un fronte compatto contro l’islamismo radicale. «Dobbiamo impegnarci attivamente, essere coinvolti» nella politica mediorientale.

In Egitto questo impegno, secondo Blair, si concretizza in una condanna severa della Fratellanza musulmana che «stava prendendo il controllo delle istituzioni del paese» e in un supporto vigoroso della comunità internazionale alla leadership e all’esercito egiziano «che sta riportando il paese sul cammino verso la democrazia». Supporto che per il leader laburista si traduce nel mostrare «sensibilità per l’uccisione violenta di oltre 400 poliziotti e centinaia di soldati», prima di commentare la condanna a morte di più di 500 persone.

Una presa di posizione chiara e legittima, che lascia però dubbi sulle vere intenzioni democratiche del governo egiziano. Al di là dei più di duemila studenti e oppositori politici in attesa di un verdetto nelle carceri egiziane, al di là della continua uccisione di manifestanti nelle proteste di strada, al di là del processo contro i giornalisti di Al Jazeera accusati di terrorismo, a preoccupare è anche un’altra sentenza emessa oggi dalla “Corte per gli Affari Urgenti” del Cairo.

Il tribunale ha messo al bando il Movimento 6 Aprile accusandolo di spionaggio e di danneggiare l’immagine del paese. L’organizzazione giovanile e liberale, nata durante i grandi scioperi del 2008, aveva giocato un ruolo fondamentale nella sollevazione contro Mubarak. Tanto che lo stesso generale Sisi, all’indomani della rivoluzione, aveva incontrato i leader del movimento, oggi in prigione, per discutere del futuro democratico del paese.

Non sembrano essere solo gli islamisti, dunque, i nemici della transizione verso la democrazia secondo il governo egiziano.

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