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29.05.2014

Egitto e Thailandia: ecco perché non esistono colpi di Stato buoni e cattivi
di Luca Lampugnani

Non che si possa definire una sorpresa, ma la vittoria schiacciante e plebiscitaria di Abdel Fattah al Sisi alla corsa presidenziale egiziana è ormai realtà. I primi exit poll, usciti in queste ore, riportano percentuali bulgare: il generale, ex numero uno delle forze armate, avrebbe raccolto dal 90% dei consensi in su, cifra che azzera letteralmente il 5% ottenuto dall'unico sfidante in gara, il progressista Hamdine Sabbahi. Insomma, al Sisi è a tutti gli effetti il nuovo faraone d'Egitto, forte di una spinta elettorale che traccia un pericoloso parallelo con l'ex presidente Hosni Mubarak, costretto alle dimissioni l'11 febbraio del 2011 all'apice delle proteste di Piazza Tahrir.

Altrettanto poco sorprendente, tornando all'elezione, il dato sull'affluenza, nonostante il prolungamento dell'appuntamento elettorale di un giorno. Ufficiosamente, questa non è andata oltre il 40%, anche se alcune stime parlano di un possibile 47%. Ad ogni modo si tratta di cifre bassissime - nelle presidenziali del 2012 che videro la vittoria di Mohamed Morsi si recò alle urne il 51,8% degli aventi diritto -, soprattutto se si considera che più della metà dei 53 milioni di egiziani iscritti al voto ha snobbato le urne.

Ma al di la dell'aspetto prettamente numerico, ciò che cerchiamo di mettere in luce è la strada che ha portato al Sisi, classe 1954, alla presidenza dell'Egitto. Il generale, indicato nel gennaio di quest'anno come candidato di punta dal Consiglio supremo delle forze armate, benché lui abbia aspettato qualche mese ad ufficializzare la sua partecipazione alla corsa elettorale, è salito agli onori della cronaca sul finire della presidenza Morsi, nel luglio del 2013. Come il suo predecessore Mubarak, anche quest'ultimo divenne bersaglio di ingenti e pressanti rivolte di piazza, simbolo di una certa insofferenza verso le svolte islamiste del Paese dovute allo strapotere dei Fratelli Musulmani, braccio religioso del partito di Morsi. Il primo luglio dell'anno scorso, proprio al Sisi, per mezzo delle Forze Armate, diede all'allora presidente un ultimatum, intimandogli di fare il possibile per risolvere la crisi che stava investendo con forza il Paese.

Due giorni dopo, il 3 luglio del 2013, convinto che l'avvertimento non fosse stato preso sul serio, l'Esercito decise di intervenire a gamba tesa sugli scontri intestini e civili tra pro e anti-Morsi, deponendo il presidente e dando il ad un vero e proprio colpo di Stato militare. Nelle settimane e nei mesi successivi, l'Egitto - tra repressioni e bagni di sangue - fu affidato ad un governo e ad una presidenza ad interim, terreno di coltura tanto per il pugno duro verso i Fratelli Musulmani - banditi e dichiarati terroristi -, quanto per il ritorno al potere di un uomo forte dell'Esercito.

Insomma, riassumendo in estrema sintesi quanto scritto fino a questo momento, al Sisi deve il suo attuale appeal sugli egiziani ad un Golpe e a tutto ciò che ne è conseguito. Ed è proprio su questo punto che ci concentreremo.

Come è ormai noto, settimana scorsa, mentre in Egitto fervevano i preparativi per le elezioni, in Thailandia l'Esercito si è reso protagonista del dodicesimo colpo di Stato militare dal 1932, quando il Paese è passato da una monarchia assoluta ad una costituzionale. In un primo momento i soldati, che avevano assunto il controllo di luoghi del potere e di Tv, radio e giornali, avevano smentito il Golpe, salvo annunciarlo in piena regola, giovedì 22 maggio, in diretta televisiva. Politici sono stati arrestati, la legge marziale è stata instaurata e ai manifestanti in piazza, da una parte le "camicie rosse" e dall'altra gli anti-governativi, è stato intimato di fermare ogni tensione e manifestazione.

Ovviamente non sono mancate reazioni internazionali di sdegno e preoccupazione: "sono deluso dalla decisione dei militari thailandesi di assumere il controllo del Paese sospendendo la democrazia dopo un lungo periodo di agitazione politica. Non vi è alcuna giustificazione a questo colpo di Stato militare", ha sentenziato tra gli altri il Segretario di Stato USA John Kerry giovedì scorso.

Eppure, lo stesso Kerry si espresse con parole ben diverse in una situazione se non uguale per quanto riguarda i momenti successivi, analoga nell'aspetto del Golpe: quella, inutile dirlo, egiziana: "all'Esercito è stato chiesto di intervenire da milioni e milioni di persone, le quali temevano per il caos dilagante e la crescente violenza nel Paese. Inoltre, fino a questo momento (un anno fa, ndr) le Forze Armate non hanno preso il sopravvento nella vita politica, tanto che a guidare l'Egitto c'è un governo civile. A tutti gli effetti - concludeva il Segretario di Stato USA -, hanno ripristinato la democrazia".

Insomma, cercando di tracciare un parallelo tra la prima e la seconda dichiarazione, sembra quasi che Kerry creda nell'esistenza di colpi di Stato 'buoni' e colpi di Stato 'cattivi'.

Ma così non è, spiega al Washington Post Jay Ulfelder, studioso americano di fenomeni e crisi politiche: "secondo tutte le principali definizioni usate dagli esperti, entrambi gli eventi, quello in Thailandia oggi e quello in Egitto l'anno scorso, si identificano come Golpe andati a buon fine (riusciti, ndr). Quindi, basandoci solo sui fatti, non c'è assolutamente coerenza nel ritenere che i due esempi possano ricadere in due diverse categorie". Tuttavia, la definizione di colpo di Stato è tutt'ora argomento di dibattito tra gli studiosi. E, d'altra parte, quando un Golpe è in corso nessuno sembra mai volerlo ammettere fino in fondo, tanto che un funzionario dell'esercito thailandese dichiarò all'AP che quanto stava succedendo a Bangkok "non è sicuramente un colpo di Stato".

Eppure, spiega ancora Ulfelder, emergono tre punti in comune delle varie definizioni di Golpe: "la minaccia o l'effettivo uso della forza (punto 1), l'uso di questa forza da parte di persone interne al governo o dall'Esercito (punto 2) con l'obiettivo dichiarato di ottenere il controllo su tutta la nazione (punto 3)". Inoltre, in alcuni casi, si potrebbe aggiungere un quarto punto: la presa di potere attraverso mezzi illegali o, comunque, extra-costituzionali.

Alla luce di tutto questo, è indubbio che tentare di distinguere i due colpi di Stato, egiziano e thailandese, è pressoché impossibile.

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