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03/07/2014

L'Egitto a un anno dal golpe è una grande prigione
di Davide Piccardo
Coordinatore delle Associazioni Islamiche di Milano

Il 3 luglio dell'anno scorso il primo presidente democraticamente eletto della storia dell'Egitto veniva rovesciato da un colpo di stato militare, Mohamed Morsi sarebbe stato solo il primo di decine di migliaia ad essere arrestato e un paese intero sarebbe da lì a poco diventato una grande prigione.

Occorre ricordare che un anno fa c'era un presidente eletto con elezioni regolari, una costituzione approvata con un referendum vero e un parlamento che, seppur azzoppato dal Consiglio Superiore delle Forze Armate, era espressione del popolo. Oggi il potere è in mano all'ennesimo ufficiale dell'esercito, la costituzione è una farsa e il parlamento non esiste.

Oggi l'Egitto è una grande prigione, uno stato militare in cui l'esercito non si accontenta di gestire più del 30% dell'economia del paese ma pretende di governare, un paese in cui resta poco di civile, l'economia è militare, la retorica e il linguaggio sono militari, l'ordine imposto dai carri armati per le strade è militare ed è militare la giustizia dei tribunali speciali in divisa.

Molte delle voci di chi invocava la caduta del governo Morsi sono state soffocate dallo stesso regime, utili idioti della restaurazione, altre tacciono per la vergogna del loro errore: aver legittimato l'uso della forza e la sospensione dello stato di diritto per quella che consideravano una giusta causa ed essersi ritrovati con un regime feroce e intenzionato a perpetuarsi. Anche l'entusiasmo di una parte della società per il ritorno di un militare al potere si è spento molto in fretta e lo testimonia il fallimento delle ambizioni plebiscitarie di Al Sisi che ha dovuto fare i conti con un popolo arrabbiato e disincantato senza nessuna voglia di recarsi alle urne.

A chi ha pensato che si potesse fare un'eccezione sui principi della democrazia che tanto sbandiera in altri contesti, oggi voglio mostrare le immagini dei 1000 condannati a morte con due processi di quindici minuti, a chi ha creduto che gli egiziani non fossero pronti per la democrazia perché avevano sbagliato a votare, voglio mostrare i volti delle migliaia di morti a Rabaa o delle decine di migliaia di prigionieri politici.

Il 3 luglio del 2014 l'Egitto è un paese con un'economia in ginocchio, dove i soldi promessi dalle petromonarchie del golfo, in cambio di una nuova sudditanza, sono arrivati solo in parte e comunque non basterebbero più a sostenere un sistema che non funziona, schiacciato da un clima di sospetto e di paura costante. L'Egitto della dittatura militare fa sembrare l'epoca Mubarak un periodo di grande prosperità e libertà.

Le università sono un campo di battaglia perché i giovani non si arrendono, le piazze sono presidiate, le moschee sorvegliate e le preghiere controllate, i media assoggettati e imbavagliati, la libertà di espressione e di stampa stuprate insieme alle ragazze di piazza Tahrir.

Peter Greste, Mohamed Fahmi e Baher Mohamed, i tre giornalisti di Al Jazeera condannati a sette anni di galera, sono solo le vittime più illustri di questo nuovo corso e mentre l'Europa, dopo essersi strappata le vesti nei primi giorni del golpe, ora si gira dall'altra parte.

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