Originale: Le Monde Diplomatique English Edition

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Settembre 2014


Città di muri

di Nael Shama

Traduzione di Maria Chiara Starace

Le città parlano, sorridono, si accigliano e gioiscono ma il loro linguaggio può essere sentito soltanto da coloro a cui interessa ascoltare. L’architettura e l’arte di una città, la sua pianificazione e il progetto, le strade e il traffico, le case e le baracche, i segnali e i cartelloni, gli avvisi e gli striscioni; tutti parlano tutti della sua identità.
La Cairo vecchia è diventata la capitale dell’Egitto nel 19° secolo, sebbene l’attuale zona del centro sia stata costruita nel 19° secolo dall’ultra ambizioso Khedive come una Parigi sul Nilo, un simbolo del suo grandioso piano di allineare l’Egitto all’Europa e alla civiltà occidentale. I cambiamenti demografici e socio-economici degli scorsi 150 anni, la hanno trasformata in una Bombay sul Nilo, una metropoli con una grande popolazione, spazio limitato e servizi decrepiti, inquieta e frustrata.
L’effervescenza del centro del Cairo rasenta la follia. Peggio ancora, è stata organizzata in compartimenti in anni recenti con muri di sicurezza in cemento per tenere lontani i dimostranti dagli edifici governativi. Alcune mura sono state abbattute, altre rimangono intatte oppure sono state sostituite con cancelli di metallo che possono essere chiusi ogni volta che si prevede un tumulto sociale. Le mura che sono state costruite come misura provvisoria durante il governo del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) sono per lo più restate al loro posto, durante tutta la leadership del presidente islamista Mohammed Morsi e l’amministrazione appoggiata dai militari che lo ha destituito l’estate scorsa. Con il cappello dell’esercito o con la barba islamica, questi regimi hanno in comune la mancanza di legittimità, la fragilità politica e affidarsi alla sicurezza per risolvere i problemi politici.
Gli assalti dei deboli affrontano la rivoluzione
Un muro non è altro che una costruzione tetra con una funzione specifica. Tuttavia, come osserva l’antropologo Cliford Geetz, “fatti di lieve entità rivelano problemi più grandi” e i muri hanno massicce implicazioni psicologiche. Sappiamo che gli esseri umani, per istinto, evitano i blocchi e i recinti. I muri, le staccionate e le barriere evidenziano le differenze, rendono più profonde le divisioni, impongono la segregazione e soffocano. Il Muro di Berlino e il Muro di Separazione di Israele simbolizzano politiche sbagliate; i loro destini dimostrano la falsità della logica da cui sono derivate. Il Muro di Berlino non è riuscito a fermare il flusso di idee verso l’Europa dell’Est o a impedire la caduta finale dei regimi comunisti; il muro di separazione non protegge Israele dagli attacchi dei terroristi.
In nessun luogo si sente di più la necessità di spazio aperto e di movimento non controllato, che in un luogo sovrappopolato, affollato e anarchico come il Cairo. Dato che gli stati sono di solito più potenti al loro centro che ai margini, i segnali di timore nel centro possono essere considerati come un’ammissione ufficiale di debolezza e di vulnerabilità. Sotto Mubarak non c’erano muri al centro del Cairo, sebbene la gente avesse vissuto per decenni nella paura, grazie alla gigantesca macchina brutale della sicurezza; le dimostrazioni erano poche, di modesta portata e intermittenti. La rivoluzione del 2011 ha scatenato un movimento popolare che non si era visto da decenni, e poiché la gente protestava e il governo adottava misure difensive, il problema era diventato: chi ha più paura, le guardie o coloro contro i quali puntavano le loro armi?
Piazza Tahrir, il fulcro della rivoluzione dell’Egitto, è stata chiusa ai dimostranti contrari al regime da quando Morsi è stato cacciato nel 2013. La zona circostante è ora circondata da barricate, blocchi stradali e filo spinato nei giorni in cui si prevedono le proteste – il che dimostra quante poche speranze rimangono dal giorno in cui Mubarak era stato deposto, nel febbraio 2011. Qualsiasi discorso ufficiale di democrazia, legittimità e volontà del popolo, viene evitato con una zona militare nella piazza della liberazione. Quando migliaia di dimostranti hanno sfondato i molteplici cordoni di sicurezza della polizia e si sono riversati a Tahrir, il 25 gennaio 2011, hanno considerato la loro azione l’inaugurazione di una nuova era, il ripristino di un diritto a lungo sottomesso dallo stato. Si sono abbracciati tra di loro e hanno stabilito, nel 18° giorno della rivoluzione, la “Repubblica di Tahrir”. Fin dall’estate scorsa la piazza è stata chiusa, le dimostrazioni sono state vietate e le recinzioni di sicurezza sono state rinforzate.
A febbraio le autorità hanno dipinto la porta di Via Qasr al-Aini – un importante strada che porta a Tahrir – con i colori della bandiera egiziana, un promemoria che gli atti vergognosi sono spesso avvolti nel patriottismo: le dittature dividono per dominare, costruendo barriere e travestendole con una bandiera nazionale e dichiarazioni di buoni intenti.
Se le politiche dell’attuale regime sono appoggiate dalla maggioranza degli Egiziani,
e se questa maggioranza percepisce il suo attuale presidente (e l’uomo forte delle forze armate) Abdel Fattah Sissi come “salvatore della nazione”, perché il regime si sente così insicuro? Perché ha l’ossessione di imporre questa difesa così rigorosa? La risosta è che la maggioranza non è l’unanimità. Quello che vuole il regime dopo Morsi è eliminare il dissenso, vuole una sola voce, nessun tipo di opposizione, nessuna diversità – come un altro paese con molti muri: la Corea del Nord.
Repressione e ribellione
I veri muri del Cairo sono la sfiducia e la diffidenza che riflettono l’assenza di consenso politico, e il fallimento della transizione dell’Egitto verso la democrazia; la legittimità è la migliore difesa.
Il recente aumento di attacchi terroristi in Egitto non avvalla la sostituzione di piani marginali di sicurezza con progetti politici esaurienti; le bombe di stampo terrorista sono un allarme per ricordare a coloro che decidono le politiche proprio quanto si siano esacerbati i vecchi problemi e come e le vecchie soluzioni siano fallite. Gli uomini non uccidono per un forte desiderio o per noia, ma per rabbia e frustrazione. Però per un regime che cerca un pretesto, la cecità può essere un conforto, specialmente quella che i terroristi siano per natura cattivi. Come scrive Terry Eagleton, “abbiamo gettato via un determinismo dell’ambiente per sostituirlo soltanto con uno del carattere; è ora il vostro carattere, non le vostre condizioni sociali, che vi spingono a fare azioni inesprimibili” (1).
Tuttavia, se il regime combatte il terrorismo in base a quella cecità, sarà perdente. Gli uomini con le armi possono essere sconfitti con le armi, ma se non ci si occupa dei motivi di base che li hanno spinti a usare la violenza contro lo stato, allora ancora altri prenderanno le armi, facendo intensificare il conflitto. Le nuove generazioni di terroristi avranno un desiderio insaziabile di vendetta e di distruzione, e la guerra diventerà una cosa normale. La politica egiziana che abitualmente guarda i problemi politici complessi da un punto di vista limitato della sicurezza, deve alla fine cambiare.
Però gli autocrati pensano al controllo e alla coercizione, non alla collaborazione e all’impegno. Costruiscono più muri che ponti. Si chiedono: perché dovrei preoccuparmi della democrazia quando posso imporre la mia volontà e cavarmela? Forse non sono perspicaci, ma possono ancora dedurre quanta scarsa legittimità hanno, quanto disprezzo attirano, e quanta forza hanno bisogno di usare per restare al potere. Dato che vivono in un mondo di minacce, reali e immaginarie, le dinamiche del panico guidano il loro comportamento. La loro energia fisica si consuma per la difesa: per erigere alti muri, per comprare nuove armi, per assumere altre guardie e per costruire altre prigioni; credono che queste misure li salvaguarderanno. Gli psicologi chiamano questo atteggiamento: mentalità da fortezza.
Ci sono due speranze: che la repressione produca resistenza, e che una repressione peggiore esorti ad altra ribellione; che gli oppressi quasi sempre siano più furbi e che sconfiggano con una manovra i loro oppressori: la dittatura si allineerà sempre alla stupidità, e poi cadrà. La fine indecorosa di Mubarak e di Morsi sono casi chiari di questo. L’Egitto ha replicato ai famigerati muri ricoprendoli di graffiti – meravigliose, creative pitture murali che mescolano l’arte con l’intelligenza e l’umorismo, per denunciare i tiranni, celebrare i martiri, e per promettere la loro determinazione. (Come dice lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano: “I muri sono gli editori dei poveri”.). Via Mohamed Mahmoud si è trasformata in una galleria d’arte all’aperto durante e dopo gli scontri del 2011; oppressione e riluttanza, coercizione e maestria, orrore e bellezza in un solo luogo.
Fuori Dentro
Un tempo il Cairo attirava gli immigrati da qualsiasi altra parte dell’Egitto, ma di recente coloro che hanno i mezzi finanziari per farlo, si rifugiano nelle nuove comunità suburbane che sono spuntate come funghi attorni ai suoi confini. Vi sono stati spinti dal desiderio di rimanere nell’ambito della metropoli, ma lontano dall’inquinamento, dalla congestione e dalle folle, e anche dal desiderio ricerca di isolamento, di distinzione e del sospetto dell’”altro” sociale.
Al contrario della Vecchia Cairo che una volta ospitava in armonia e in pace, le dimore dei pascià, le case dei mercanti della classe media e degli impiegati statali, e i takaya ( ricoveri ) degli ordini Sufi, la nuova Cairo impone la segregazione e l’interazione limitata. Questo ha ispirato il poeta egiziano Ahmed Fouad Negm (1929-2013) a scrivere: “Lunga vita ai miei connazionali; non c’è alcuna conoscenza tra di loro che faccia in modo che l’alleanza continui a vivere.” Mentre le mura e le porte della Vecchia Cairo, costruite dalle dinastie dei Fatimidi e degli Ayyubidi dal 10° al 12°secolo, erano lì per proteggere l’intera città dagli aggressori esterni, i muri odierni proteggono le elite dalle altre classi sociali, dagli “altri” egiziani.
I nuovi complessi abitativi e i progetti di alloggi quasi simili a un villaggio turstico intorno al Cairo, nei sobborghi della Nuova Cairo e della Città del 6 Ottobre, e lungo le strade Cairo-Alessandria e Cairo-Suex, sono per lo più fornite di cancelli e sono massicciamente protette. Queste comunità rafforzano i confini tra le classi sociali in una società che già soffre di un enorme divario tra i ricchi e i non ricchi. Un recente rapporto del governo ha dichiarato che il tasso di povertà dell’Egitto è aumentato al 26% nel 2012/2013, in confronto al 25% nel 2010/2011 e al 22% nel 2008/2009. Cinque imprenditori di due famiglie hanno dominato la classifica dei ricchi in Egitto compilata dalla rivista Forbes , che hanno una ricchezza totale complessiva di 17 miliardi di dollari, circa il 4% della ricchezza totale dell’Egitto.
Proprio la vista dei muri e delle guardie degli insediamenti deserti del Cairo, fa desiderare agli estranei – come dice il proverbio arabo: “ciò che è proibito si desidera più di tutto” – e fa loro immaginare qualcosa di prezioso che forse c’è all’interno delle mura. In Egitto c’è la sensazione che se mai scoppierà al Cairo un’insurrezione di chi ha fame, allora il loro primo obiettivo saranno le zone dove vivono i ricchi.
Le comunità protette da cancelli sono anche un segno di neoliberalismo, che si è diffuso nelle classi medie e basse dell’Egitto. Il potere politico ed economico si sta muovendo rapidamente verso i sobborghi del Cairo, lasciando la vecchia città ferita, per andare in questo nuovo centro. Molti politici vivono nel sobborgo Nuovo Cairo, compresi Mohammed Morsi e Ahmed Shafiq (secondo classificato nell’elezione presidenziale del 2012), e anche il quartier generale della campagna presidenziale di Sissi era lì. Un centro per i commerci e delle grosse aziende appena avviato lì, si chiama Cento città, facendo capire che la capitale parallela ha un suo proprio centro. Gli egiziani indigenti vivono ai margini di questa nuova città, nella cintura svantaggiata piena di miseria che è apparsa per la prima volta negli anni ’70: hanno sempre vissuto ai margini di un’economia ineguale.
I muri politici dell’Egitto crolleranno quando nascerà un nuovo ordine. I muri sociali, però, sono più radicati, con la loro divisione, segregazione, rottura, sfiducia; questi sentimenti fanno vacillare le nazioni. E il Cairo – in arabo significa ‘la città vittoriosa’ – è oggi più sconfitta che vittoriosa, più frammentata che unita, e più esasperata che soddisfatta. I suoi muri impersonano le massicce tensioni politiche e sociali che travolgono l’Egitto. Magari potessero parlare!



Nael Shama è ricercatore nel campo della politica e scrittore. E’ autore di Egyptian Foreign Policy from Mubarak to Morsi [La politica estera egiziana da Mubarak a Morsi], Routledge, 2013.
(Terry Eagleton, On Evil [Del male], Yale University Press, Londra, 2011, pag. 4.



Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
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Fonte: http://www.mondediplo.com/city-of-walls


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