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09 apr 2014

Andreasson: “Aprite il mare per dare futuro alla Striscia”
di Tiziano Ferri

Intervista all’attivista svedese impegnato nella costruzione dell’Arca di Gaza. La nave, progetto palestinese e internazionale, è pronta a partire e a rompere l’assedio israeliano, esportando i prodotti gazawi all’estero.

Gaza City, 9 aprile 2014, Nena News

Mentre il negoziato tra governo israeliano e Autorità Nazionale Palestinese subisce un nuovo stallo, la popolazione della Striscia di Gaza conta il settimo anno di isolamento imposto da Israele, situazione aggravata dalla scelta egiziana di chiudere per lunghi periodi il valico di Rafah. Tale isolamento è rotto solo dalla solidarietà internazionale che si manifesta attraverso l’interposizione dei volontari (tra contadini e cecchini israeliani, oppure tra pescatori e motovedette della marina di occupazione), l’impegno degli attivisti che nel Mondo sensibilizzano sulla Palestina, le cronache informate dei giornali onesti, i progetti di assistenza sanitaria, le missioni volte a superare un blocco fuori dalle leggi, operante sulla sola base della forza.

Tra queste troviamo anche i tentativi messi in atto dalla Coalizione Freedom Flotilla, dalle prime imbarcazioni dirette a Gaza alla tragedia della Mavi Marmara nel 2010, dal boicottaggio subìto nei porti greci l’anno successivo alla navigazione sulle vele dell’Estelle nel 2012.

Oggi è in preparazione un’imbarcazione che nelle intenzioni degli organizzatori dovrà, per la prima volta dal 1967, rompere il blocco di Gaza dall’interno e consegnare prodotti palestinesi, via mare, a chi li ha ordinati. Grazie ai contributi raccolti negli ultimi mesi, è stato acquistato un vecchio peschereccio che recentemente, in virtù del duro lavoro di palestinesi e volontari internazionali, è stato trasformato nell’Arca di Gaza. Charlie Andreasson, svedese, è uno di questi volontari che abbiamo l’opportunità di intervistare.

Come è nato in te il desiderio di utilizzare il tuo lavoro volontario per la causa palestinese?

Per far sì che il mondo funzioni, ci devono essere delle regole che tutte le nazioni sono tenute a rispettare. Queste vanno sotto il nome di Diritto Internazionale, Convenzione di Ginevra, Diritti Umani, ecc. Esse nascono per proteggere i civili in tutto il mondo ed è responsabilità dei leader politici porre fine alle violazioni contro queste regole, chiunque le violi. Ma quando si tratta dei crimini di Israele contro il popolo palestinese, i nostri leader sembrano voler chiudere gli occhi. E quando i nostri politici non si prendono le loro responsabilità, noi, all’interno della società civile, dobbiamo farlo. È una questione di coscienza. Sai, a casa ho uno specchio appeso al muro e voglio potermici guardare senza vergognarmi. Se non ci solleviamo al fianco del popolo palestinese, chi si solleverà al nostro fianco se un giorno saremo occupati? Si tratta di sostenere i valori dei Diritti Umani, della Convenzione di Ginevra, ecc.

Partendo dalla tua esperienza a bordo di Estelle nel 2012, visto come questa imbarcazione è stata accolta dai cittadini europei nei porti dove ha attraccato, puoi dedurre che questo impegno abbia ripagato in termini di aumento della coscienza collettiva in merito ai crimini subiti dai palestinesi?

Sì, penso di sì. Quella è stata una parte del nostro obiettivo. Ma dobbiamo ricordarci che la maggioranza delle persone che sono venute nei porti, che ci hanno sostenuto, erano già in qualche modo coinvolte con la questione palestinese. Allo stesso tempo, insieme a tutti quelli che sono venuti a dare il loro supporto, stavamo inviando un chiaro messaggio ai nostri leader politici, vale a dire che non possono più nascondersi, perché gli elettori chiedono loro di agire. Adesso possiamo vedere che in Europa, Paese dopo Paese, i leader politici stanno prendendo posizione, non tollerano più la sottrazione delle terre da parte di Israele e la sua politica di apartheid. Non sto dicendo che questo avviene solo grazie ad Estelle. Ma Estelle è parte di ciò che ha permesso il  cambiamento.

Da quanto tempo ti trovi a cooperare all’Arca di Gaza, l’ultimo progetto della Coalizione Freedom Flotilla?

L’idea che sta dietro l’Arca di Gaza, di inviare una nave da Gaza verso l’esterno, per rompere l’assedio dall’interno, era stata discussa in precedenza, ma è stata la campagna canadese, parte della Coalizione Freedom Flotilla, che l’ha poi concretizzata. Ne avevo parlato già a bordo di Estelle con uno dei fondatori dell’organizzazione; alcune settimane più tardi, mi sono state fatte delle domande a  riguardo, durante l’interrogatorio da parte del Mossad. Sono venuto a Gaza nell’aprile del 2013, sei mesi dopo l’abbordaggio di Estelle in acque internazionali da parte di un commando della marina israeliana; è stata la prima volta che ho visto la barca. Poi sono tornato a giugno per lavorare al progetto e adesso sono qui dalla fine di settembre.

In questa vostra iniziativa vi avvalete anche della collaborazione di attivisti israeliani per i diritti umani? C’è un rapporto con loro?

Avere qualsiasi tipo di cooperazione con israeliani è sospetto qui a Gaza. Con tutto quello che le persone passano qui, è comprensibile. Allo stesso modo, è un peccato perché potrebbe essere fruttuoso per entrambe le parti. Tuttavia, ciò non impedisce ai membri della Coalizione Freedom Flotilla di avere contatti con attivisti israeliani per i diritti umani, ma qui a Gaza è meglio di no.

Sai che esistono iniziative di cooperazione allo sviluppo e interventi di emergenza. Il vostro progetto sembra includere entrambe le tipologie, dal momento che lavorate sia per il lungo periodo (raccolta fondi, burocrazia, reperimento materie prime) che in uno stato di assedio (mancanza d’acqua potabile, black out, raid aerei con F-16 e droni, invasioni quotidiane della marina militare israeliana). Com’è lavorare in questa situazione?

È molto frustrante non poter svolgere alcuni lavori solo perché non possiamo trovare i materiali o le attrezzature necessarie. Potrebbe essere qualsiasi cosa, dai tubi di una certa dimensione ai bulloni. Non esiste un esatto concetto del tempo qui; dobbiamo pianificare molto attentamente tutto ciò di cui abbiamo bisogno con largo anticipo, quanto materiale serve, dove poterlo reperire, quanto tempo ci vorrà per trovarlo. Ma è quello che i palestinesi devono affrontare ogni giorno: dove possono trovare la benzina per i generatori o per le auto, medicine, calcestruzzo, materiali da costruzione…la lista può essere lunga. Molto spesso è difficile poter dire a chi raccoglie i fondi quando l’Arca sarà pronta, e quando dobbiamo cambiare le date mantenendo la fiducia dei donatori. È importante mostrare che i lavori vanno avanti, anche se a volte procedono lentamente.

Qual è secondo te la cosa più utile che potrebbe fare il mondo sull’altra sponda del Mediterraneo per porre fine all’apartheid israeliano?

Direi che le cose da fare per porre fine all’apartheid israeliano sono tre, e possiamo impararle dalla battaglia per la fine dell’apartheid in Sudafrica. Prima di tutto, non dobbiamo dimenticare che Israele dipende dalle sue esportazioni e scegliere di non comprare prodotti israeliani può avere un grande impatto. Il secondo passo è ottenere che le aziende ridefiniscano i loro investimenti in Israele e che smettano di cooperare con compagnie israeliane. Per ottenere questo, il consumatore deve rendere chiaro alle aziende che fare affari con Israele e con compagnie israeliane significa sporcarsi. E nessuna azienda vuole avere macchie sul proprio logo, le costerebbe molto ripulirlo. Qui l’individuo gioca un ruolo cruciale, non solo come consumatore ma anche contattando le aziende, scrivendo nei giornali locali, usando i social network. Il terzo passo è fare pressione sui politici. Questo è più facile di quello che molti credono. In una democrazia, i leader dipendono dai loro elettori e ascoltano le persone più di quanto si creda. Ma ogni cosa comincia con la consapevolezza: senza consapevolezza di ciò che succede nei Territori Occupati, nulla fermerà l’apartheid.

L’Arca di Gaza salperà per rompere il blocco illegale israeliano alla libertà di movimento palestinese, blocco che colpisce anche l’autonomia economica della Striscia, costretta all’aiuto esterno per sopravvivere. I prodotti che partiranno per il mondo proverranno anche dal restante territorio palestinese?

Sarebbe naturale avere prodotti provenienti da tutta la Palestina, non solo dalla Striscia di Gaza. Il problema è che Israele non consente il trasporto dei prodotti tra Gaza e la Cisgiordania. Questo sta danneggiando l’economia palestinese in modo serio, e molto probabilmente è la ragione per cui Israele non permette gli scambi tra Gaza e la Cisgiordania.

Cosa hai provato quando l’Arca è entrata in acqua per la prima volta dopo i lavori di ristrutturazione?

La discesa in acqua è stata solo un ulteriore passo di preparazione dell’Arca. È stato una specie di evento, ma tutti i piccoli passi, anche quelli meno visibili, sono altrettanto importanti.

Il vostro fine immediato con l’Arca di Gaza è restituire al porto palestinese la possibilità di essere aperto agli scambi come tutti gli altri porti liberi del mondo. Qual è il vostro obiettivo di lungo periodo?

Il divieto di esportazione sotto cui Gaza vive, impedisce lo sviluppo economico di Gaza e della Palestina tutta. Con la possibilità di scambi commerciali e di viaggio, dell’apertura al turismo, la Palestina avrebbe il futuro nelle sue mani. Adesso non è così. Oggi si tratta di un problema umanitario, quindi il nostro obiettivo è che i Palestinesi, come tutte le persone del mondo, abbiano gli stessi diritti di chiunque altro. Cosa che invece è adesso loro negata dalla potenza occupante. Nena News

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