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lug 10th, 2014

Pioggia di missili su Gaza e su Israele. Perché a Netanyahu conviene più la guerra della pace
di Enrico Oliari

Se non è guerra, poco ci manca. Non si contano più i razzi lanciati da Gaza, spesso veri e propri missili che raggiungono la capitale Tel Aviv e Gerusalemme, e i raid israeliani, 750 fino ad oggi, diretti a colpire obiettivi nella Striscia come infrastrutture, rampe di lancio, edifici di Hamas e case dei militanti del partito, in realtà spesso distruggendo intere palazzine con dentro gli abitanti.
In tre giorni sono 64 i palestinesi rimasti uccisi dai missili sganciati dagli aerei, mentre non si hanno notizie di vittime sul fronte israeliano anche a causa dell’imprecisione dei razzi e dei sistemi difensivi come le batterie Iron Dome, sebbene alcuni missili siano caduti a Dimona, regione nella quale è situata una centrale nucleare.
Le diplomazie di mezzo mondo sono al lavoro per scongiurare il precipitarsi della crisi al di fuori di ogni controllo: il Segretario generale delle nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha indetto la seduta del Consiglio di Sicurezza richiesta dai palestinesi, l’Organizzazione per la Conferenza islamica (Oci) ha messo in calendario una riunione per sabato a Gedda, in Arabia Saudita, mentre il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Chokri, sta discutendo con i suoi omologhi arabi su quale possa essere la via da intraprendere per porre fine all’offensiva militare israeliana.
La situazione appare comunque complicata, poiché più passano le ore, più appare chiaro che il premier Benjamin Netanyahu e i suoi alleati di governo nazionalisti hanno tutto l’interesse ad affondare il più possibile la lama, poiché non è andata giù all’estabiliment di Tel Aviv l’alleanza di governo dell’Anp annunciata da Abu Mazen pochi giorni fa, tradottasi subito con una serie di firme di trattati internazionali che, di fatto, contribiscono alla nascita di uno Stato palestinese. E bisogna fare di tutto per romperla, per scongiurare un peso maggiore dei palestinesi nel complesso della diplomazia internazionale e soprattutto l’approvazione da parte dell’opinione pubblica, soprattutto occidentale, della soluzione dei “Due popoli, due Stati”.
D’altronde il processo di pace, caparbiamente voluto dal Segretario di Stato Usa John Kerry, si è arenato proprio per una serie di ostacoli tutti israeliani, fra cui la mancata interruzione della costruzione di nuovi alloggi nei territori occupati (il ministro dell’Edilizia, Uri Ariel, ne ha annunciati altri 1500 a metà giugno), il rifiuto della parte più nazionalista del governo di accettare la designazione di confini veri e propri di un futuro Stato palestinese e la sospensione del rilascio dei prigionieri politici.
Lasciare che un processo di pace continui il suo corso significa accettare di fermare l’espansione dello Stato di Israele, di chiuderlo dentro confini precisi e non più espandibili, o ancora di accontentarsi di sola mezza Gerusalemme, la “Città Santa”.
Per cui, mentre il suo governo traballa a causa dei dissidi proprio con i nazionalisti Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, che vorrebbero un’azione ancora più cruenta, vanno bene a Netanyahu, quei missili che cadono su Gaza come pure quelli che cadono su Israele, poiché riportano in pari la (sua) bilancia di premier di un Paese aggredito, perennemente vittima e per questo giustificato a sopraffare i palestinesi autoctoni.
Anche se il rischio, alto, è che ne esca una guerra. Vera.

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