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19 luglio 2014

Cosa faranno Hamas e Israele.
Alessandro Accorsi intervista Khaled Hroub

«Israele non distruggerà Hamas, alla fine dovranno accordarsi. L'accordo con Fatah? È ancora possibile», dice il professore dell'Università di Cambridge

Le prime operazioni terrestri a Gaza da parte dell’esercito israeliano hanno avuto l’effetto di alzare la pressione politica. Cresce l’attesa per conoscere come reagirà Hamas, che nel frattempo ha rispedito al mittente gli inviti del presidente Abu Mazen ad accettare velocemente una tregua, rilanciando non solo la resistenza contro Israele, ma anche la competizione con il rivale Fatah. Ne abbiamo parlato con Khaled Hroub, professore all’Università di Cambridge ed esperto di Hamas.

Professore, crede che ci sia ancora una possibilità per una tregua tra Hamas e Israele e una fine del conflitto in tempi brevi?

Hamas e Israele alla fine non hanno altra scelta se non quella di accordarsi per un cessate il fuoco e tornare indietro alla situazione di stallo e allo status quo. Credo che il cessate il fuoco alla fine arriverà perché entrambe le parti lo vogliono. Le altre opzioni sono troppo costose. Un’invasione di terra più ampia – lanciata da Israele con l’obiettivo di distruggere Hamas – è quasi da escludere per le ovvie conseguenze che avrebbe in termini di vite umane. In più, Israele ha bisogno che Hamas mantenga il controllo su Gaza o potrebbe emergere uno scenario da incubo in cui i gruppi estremisti o quelli più simili ad al Qaeda potrebbero prendere il sopravvento facendo precipitare il tutto in una situazione difficile da prevedere e controllare.

Eppure, nelle ultime ore Israele ha intensificato i bombardamenti e iniziato delle operazioni terrestri all’interno della Striscia.

Il governo israeliano può condurre delle operazioni militari terrestri limitate per provare che ha a disposizione altre “opzioni” e per mostrare all’opinione pubblica interna che non ha paura di reagire. Ma effettivamente, ogni movimento sul terreno è fatto per aumentare la pressione politica, più che per ottenere una vittoria militare decisiva. Per Hamas, d’altronde, la continuazione della guerra non è un’opzione perché i costi umani del conflitto sarebbero insostenibili per i palestinesi e nel medio periodo perderebbero solo altro consenso.

Hamas è spesso considerata come un’organizzazione politica monolitica, con posizioni nette e decise. Ma esistono secondo lei dei disaccordi all’interno della leadership o la possibilità che sia divisa?

Dentro Hamas ci sono state sempre grandi differenze di vedute, soprattutto sulle grandi questioni politiche. Il movimento, però, ha finora mostrato una straordinaria capacità di rimanere unito e riassorbirle. Sono riusciti a coltivare una cultura di solida disciplina e coerenza interna nonostante le sfide e i dissapori. Non penso che qualsiasi disaccordo sulla situazione attuale possa portare a delle spaccature serie. Storicamente parlando, Hamas è stata fondata 27 anni fa ed è l’unico movimento politico ad aver resistito così a lungo senza subire scissioni dai tempi del mandato britannico in tutta la Palestina storica. Includendo, quindi, tanto le organizzazioni palestinesi quanto quelle israeliane.

Qual è la posizione della leadership militare di Hamas al momento? 

È difficile da stabilire con precisione per via della segretezza che la circonda. Ma si può dire che, al di là delle tensioni e delle differenze di vedute tra leadership militare e politica, continuano a lavorare in armonia o almeno in maniera consensuale. E alla fine sono i politici che prendono le decisioni.

Crede ci sia ancora speranza per un accordo di riconciliazione nazionale tra Hamas e Fatah?

Sì. Credo che Hamas sia finalmente convinta che un governo di unità, qualsiasi forma abbia e anche se creato su basi sfavorevoli per il movimento islamico, sia un’opzione strategicamente migliore di mantenere la divisione tra Gaza e Cisgiordania. Continuare a essere divisi aiuta solo Israele. Il governo israeliano stesso l’ha confermato chiedendo ad Abbas di interrompere la riconciliazione con Hamas.

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