Originale: Mondoweiss
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23 luglio 2014

Il silenzio assordante sulla proposta di Hamas
di Francesca Albanese
traduzione di Giuseppe Volpe

Nel corso dei suoi primi 14 giorni l’aggressione militare israeliana contro la Striscia di Gaza ha lasciato oltre 500 morti, la grande maggioranza dei quali civili, e un numero ancor maggiore di feriti. Migliaia di case sono state bersagliate e distrutte assieme ad altre strutture civili essenziali. Più di 100.000 civili sono stati evacuati. Per il momento in cui leggerete questo articolo le cifre saranno aumentate e, deprecabilmente, non è in vista alcuna vera tregua. Quando dico ‘vera’, intendo dire praticabile, accettabile per entrambi gli schieramenti e sostenibile per un certo tempo.

Il governo israeliano, seguito a ruota dai media e dai governi occidentali, è stato rapido nell’incolparne Hamas. Hamas – affermano – ha avuto un’occasione di accettare una tregua mediata dall’Egitto e l’ha rifiutata. Altri hanno già spiegato esaurientemente perché questa proposta, elaborata senza alcuna consultazione con Hamas, era difficile da accettare per Hamas.

Molto meno notato dai media occidentali è stato che Hamas e la Jihad Islamica avevano contemporaneamente proposto una tregua di dieci anni sulla base di dieci condizioni (molto ragionevoli). Anche se Israele era troppo occupato a preparare l’invasione di terra, perché nessuno nella comunità diplomatica ha speso una parola riguardo a questa proposta? La domanda è tanto più pertinente visto che questa proposta era essenzialmente in linea con ciò che molti esperti internazionali e le Nazioni Unite chiedono ormai da anni e includeva alcuni aspetti che Israele ha già considerato richieste realizzabili in passato.

Le principali richieste di questa proposta sono incentrate sul togliere l’assedio a Gaza mediante l’apertura ai commerci e alle persone dei suoi confini con Israele, sulla creazione di un porto e di un aeroporto internazionale sotto la supervisione dell’ONU, sull’ampliamento della zona autorizzata di pesca nel mare di Gaza a 10 chilometri e sulla rivitalizzazione della zona industriale di Gaza. Nessuna di queste richieste è nuova. Le Nazioni Unite, tra gli altri, hanno ripetutamente richiesto l’abbandono dell’assedio, che in base alla legge internazionale è illegale, come condizione necessaria per por fine alla tremenda situazione umanitaria della Striscia. L’agevolazione del movimento di merci e di persone tra la West Bank e la Striscia di Gaza era già stata stipulata nell’AMA [Accordo sul Movimento e l’Accesso] firmato dal governo d’Israele e l’Autorità Palestinese nel 2005. Persino la costruzione di un porto e la possibilità di un aeroporto a Gaza erano già state stipulate nell’AMA, anche se non ne è mai seguita la concreta realizzazione. Il richiesto ampliamento della zona autorizzata di pesca è minore di quello considerato negli Accordi di Oslo del 1994 e faceva già parte dell’accordo di cessate il fuoco del 2012. L’accesso non ostacolato dei pescatori al mare, senza tema di essere presi a colpi d’arma da fuoco o di essere arrestati e di vedersi sequestrate imbarcazioni e reti dalle pattuglie israeliane è essenziale per i 30.000 pescatori di Gaza che lottano oggi per sopravvivere pescando in un’area limitata che è già eccessivamente sfruttata e gravemente inquinata. La rivitalizzazione della zona industriale di Gaza, che è stata progressivamente smantellata dopo il ritiro del 2005 e attraverso continue operazioni militari, era già stata considerata un interesse palestinese cruciale all’epoca del Disimpegno del 2005.

La tregua proposta richiede anche il ritiro dei carri armati israeliani dal confine di Gaza e l’internazionalizzazione del Valico di Rafah, da porre sotto la supervisione internazionale.  La presenza di forze internazionali ai confini e il ritiro dell’esercito israeliano richiesti da Hamas non sorprendono, considerato il pesante pedaggio di vittime del fuoco israeliano nelle Aree ad Accesso Limitato prossime al confine israeliano (cioè un’area di 1,5 km lungo il confine comprendente il 35% del territorio di Gaza e l’85% della sua intera terra arabile). La presenza internazionale dovrebbe garantire che anche la sicurezza egiziana e israeliana fosse ugualmente soddisfatta.

La proposta richiede anche che Israele rilasci i prigionieri palestinesi che erano stati liberati come parte di un accordo per liberare Gilat Shalit e che sono stati arrestati dopo l’uccisione dei tre giovani israeliani nella West Bank il 24 giugno; che Israele si astenga dall’interferire nell’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah e che siano agevolati i permessi ai credenti di pregare nella moschea di Al Aqsa.

Non solo queste condizioni sono sensate alla luce degli accordi precedenti ma, specialmente quelle che riguardano la fine dell’assedio, sono gli standard minimi che Hamas e la gente di Gaza potrebbero accettare nella situazione attuale. Come riferisce Raji Sourani, la frase più comune della gente di Gaza dopo l’annuncio del cessate il fuoco ‘mediato’ dall’Egitto è stata: “O questa situazione migliora sul serio oppure è meglio semplicemente morire”. La situazione orribile in cui hanno vissuto gli abitanti di Gaza negli ultimi sette anni ha realmente evocato in molti l’immagine dell’enclave come “la più vasta prigione all’aria aperta del mondo”. Una prigione che è sovraffollata e dove in sei anni non c’è stata più abbastanza acqua potabile o capacità di offrire altri servizi essenziali, come denuncia un recente rapporto dell’ONU. Di fronte a questo cupo contesto, per molti il continuo lancio di razzi da Gaza è una reazione all’assedio e alle aspre condizioni imposte dall’occupazione.

Si potrebbe immaginare che un accordo basato sulla proposta di Hamas potrebbe non solo interrompere l’attuale tornata di ostilità ma anche aprire la via a una soluzione duratura del conflitto. Tuttavia Israele non ha mostrato alcun interesse a prendere in considerazione questa proposta e continua a preferire l’opzione militare. In conseguenza c’è da chiedersi se Israele voglia davvero una soluzione duratura del conflitto. Tale soluzione richiederebbe necessariamente compromessi da parte israeliana, compresa la rinuncia al controllo sulla West Bank e su Gaza. Netanyahu ha recentemente chiarito senza ombra di dubbio che questa opzione è esclusa. Un eventuale accordo tra Israele e Hamas rafforzerebbe ulteriormente la legittimità di Hamas nell’unità palestinese di nuova realizzazione, il che è un prerequisito per qualsiasi pace durevole. Legittimare l’unità palestinese è qualcosa che il governo israeliano evita come la peste perché farebbe progredire la loro richiesta di giustizia nell’arena internazionale.

Forse più sorprendentemente la comunità internazionale – a eccezione di Turchia e Qatar – non ha dedicato una parola alla proposta di tregua di Hamas, sebbene molti dei punti della proposta godano già di sostegno internazionale. Questo rifiuto di occuparsi della proposta è particolarmente problematico nel contesto attuale. Senza una qualche pressione della comunità internazionale Israele, la parte più forte in questo conflitto, si sentirà legittimato a continuare a rifiutare negoziati con Hamas per una vera tregua. Le tregue e i negoziati si fanno con nemici, non con amici. Le organizzazioni internazionali e i leader occidentali, facendo eco a Israele e agli Stati Uniti, sostengono che Hamas è un’organizzazione terroristica e che dunque ogni negoziato diretto con essa è interdetto.

Hamas ricorre alla violenza, spesso indiscriminata e contro civili, anche a causa della mancanza di armi di precisione. Ma lo stesso fa Israele, indipendentemente da quanto sofisticati siano i suoi armamenti. Se la questione è aiutare le parti a negoziare, entrambe le parti devono essere trattate in modo uguale, incoraggiate a prendere in considerazione misure diverse da quelle militari e ad accettare compromessi basati sulla legge internazionale. Specialmente quando, come in questo caso, sono sul tavolo proposte sensate. Il fermo rifiuto di trattare con Hamas a questo punto è un esempio del fallimento della comunità internazionale nel gestire la crisi umanitaria di Gaza. Salvo che la comunità internazionale inverta questo schema prendendo una posizione onesta basata sulla legge e sulla diplomazia internazionali le sofferenze di Gaza e del conflitto israelo-palestinese continueranno.


Francesca Albanese è un avvocato internazionale che vive a Washington, DC. Dopo aver lavorato otto anni per le Nazioni Unite, anche in Medio Oriente e a Gerusalemme, il cuore del conflitto sulla Palestina, ora è impegnata in ricerche e sviluppo di vari temi umanitari, tra cui la fine dell’occupazione militare in Palestina e il pieno riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi in base alla legge internazionale.


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Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/in-greece-a-struggle-to-save-europes-soul-from-privatization/

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