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29/08/2014

Rebus Gaza per Federica Mogherini
di Janiki Cingoli
Direttore Cipmo, Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Ora che finalmente Federica Mogherini è stata nominata Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Sicurezza della UE, la sua attenzione dovrà sicuramente concentrarsi su Gaza.

Le dichiarazioni di vittoria di Netanyahu e di Hamas offuscano malamente la dura realtà: a Gaza hanno perso tutti. Ha perso Hamas, che dopo 50 giorni di battaglia ha dovuto accettare un cessate il fuoco senza scadenza, alle stesse condizioni della iniziale proposta egiziana, avanzata una settimana dopo l'inizio delle ostilità, e subito respinta dalla organizzazione islamista. 50 giorni che hanno provocato ai palestinesi 2100 morti, 10.000 feriti, 10.000 abitazioni distrutte. Hamas porta dunque una responsabilità gravissima, come ha ricordato proprio il Presidente palestinese Mahmoud Abbas, e probabilmente dovrà fronteggiare la rabbia della popolazione, per quei danni enormi subiti senza grandi risultati: le questioni più importanti, la fine completa del blocco alle frontiere, l'apertura del porto, dell'aereoporto, sono rinviate ai negoziati che inizieranno entro un mese. Per ora, c'è solo una parziale apertura dei valichi per i generi di stretta necessità e per i materiali necessari alla ricostruzione, sotto lo stretto controllo israeliano, oltre all'allargamento da tre a sei miglia dei limiti di pesca.

Tuttavia, Hamas può rivendicare di aver tenuto testa per due mesi ad uno degli eserciti più potenti al mondo, infliggendogli alte perdite, 64 militari più 6 civili, e sconvolgendo per due mesi la vita della popolazione israeliana, costringendola a cercare nei rifugi riparo dalla incessante pioggia di razzi e provocando persino la chiusura per due giorni dell'Aeroporto internazionale di Tel Aviv.

Ma il danno forse più grave subito da Israele è il deterioramento delle sue relazioni con gli Stati Uniti, che dopo un iniziale sostegno del suo diritto all'autodifesa di fronte ai razzi provenienti da Gaza, hanno subito prese le distanze rispetto al numero sproporzionato di vittime civili provocate dai bombardamenti aerei, e hanno preso malamente, come uno schiaffo inaccettabile, il rifiuto israeliano di accettare la proposta di tregua avanzata dal Segretario di Stato statunitense John Kerry. Il blocco per 36 ore nell'invio di armi dagli USA, in particolare di missili Hellfire, è stato un segnale di quelli che non si possono trascurare. Certo, vi è stata la distruzione dei tunnel alla frontiera di Gaza, almeno di quelli conosciuti, nonché di numerose installazioni militari. E gravi perdite sono stai inflitti ai miliziani islamici, incluso l'assassinio mirato di importanti comandanti militari. Ma la struttura militare e politica di Hamas è rimasta in piedi, i tunnel e i razzi possono essere ricostruiti.

Solo un'invasione prolungata di terra avrebbe potuto portare all'abbattimento del regime di Hamas a Gaza, ma Israele non è disposta a sopportare le alte perdite che questo comporterebbe e a farsi carico del mantenimento del milione e ottocentomila palestinesi che popolano la striscia, né potrebbe riaffidarne la gestione ad una Autorità Palestinese reinsediata a Gaza dalle armi israeliane. Inoltre, eliminando Hamas, teme di aprire la strada ai sostenitori del Nuovo Califfato, l'ISIS, o altri gruppi qaedisti che già prosperano nel Sinai.

Perciò la domanda fondamentale è quella posta dal Presidente palestinese Abbas, il vero vincitore di questa fase insieme al Presidente egiziano Al-Sisi: What's next?

Pensare che si possa avere un ritorno puro e semplice ai vecchi accordi del 2012 è illusorio: entro un mese i nodi negoziali verranno al pettine, e se non si troverà una soluzione il conflitto potrebbe riesplodere. Vi sono tuttavia alcuni aspetti specifici che costituiscono elementi di novità rilevanti. Il primo è che in questi due mesi Israele ha accettato di trattare, indirettamente ma ufficialmente, con una delegazione palestinese unificata, capeggiata da un rappresentante dell'ANP ma comprendente anche Hamas e Jihad Islamico. E non si trattava solo di negoziati per uno scambio di prigionieri, come all'epoca del soldato Shalit, ma di trattative su aspetti di carattere strategico.

Quando a fine aprile Abbas aveva formato il nuovo Governo di Unità palestinese, sostenuto anche da Hamas, Netanyahu aveva gridato al governo dei terroristi e aveva interrotto i negoziati, facendo appello alla Comunità internazionale perché si unisse alla condanna. Restando isolato, va detto, nessuno si era associato alla condanna. Ora quello stesso governo palestinese è chiamato, in base agli accordi di tregua, a riassumere il controllo dei valichi di Gaza con Israele e l'Egitto, e Netanyahu dichiara di vedere con favore la possibilità che l'Autorità Palestinese riassuma il controllo di Gaza.

Cosa farebbe se, in base ai contatti in corso, si arrivasse alla formazione di un nuovo governo non solo tecnico, ma che includesse esponenti delle maggiori fazioni palestinesi? In altri termini, è disposto a non ostacolare un iniziale processo di evoluzione di Hamas da formazione armata a formazione eminentemente politica? D'altra parte, l'esperienza di tutti questi anni dimostra che pensare di arrivare a fare la pace con i palestinesi prescindendo da Hamas è illusorio e non fa i conti con la realtà.

L'altro aspetto è la precarietà della tregua in atto, l'aleatorietà delle prossime scadenze negoziali. Ancorarle ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU è un obbiettivo cui stanno lavorando in molti, dal terzetto europeo Francia Inghilterra Germania, alla Giordania che ha presentato una sua proposta, agli stessi Stati Uniti.

La proposta dei tre Stati europei contiene elementi importanti, quali la creazione di una “Missione internazionale di monitoraggio e verifica” a Gaza, ma presenta anche aspetti bizzarri (Israele non viene mai nominato) o non sufficientemente equilibrati. Federica Mogherini, cui va il nostro augurio affettuoso, potrà certamente svolgere un prezioso lavoro di riconnessione tra queste diverse proposte, in particolare rispetto agli Stati Uniti, rilanciando un ruolo europeo che in questi mesi è stato troppo vacante.

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