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mercoledì 17 settembre 2014

Hamas: il fallimento di una strategia
di Fabio Della Pergola

Pochi giorni fa la dura presa di posizione di Abu Mazen, presidente (scaduto) di uno stato che non c'è, contro la dirigenza di Hamas: "Si potevano evitare molte vittime". 

Oggi, dopo il devastante conflitto tra Israele e Hamas conclusosi con oltre duemila morti (in larghissima parte palestinesi) e distruzioni devastanti nella Striscia, non è poi tanto strano leggere quello che ha scritto una giornalista apertamente schierata contro (ripeto: contro) le politiche israeliane nei Territori. Parlo di Amira Hass, che da decenni vive a Ramallah e scrive articoli di fuoco contro il governo Netanyahu, spesso pubblicati sul quotidiano di sinistra Haaretz.

Ma oggi la Hass, pur non lesinando stoccate polemiche contro il governo del suo paese, si rivolge ai dirigenti di Hamas, ponendo 18 domande, piuttosto imbarazzanti.

L’ultima è la più tranchant. Riassumo: “La via militare che avete scelto fin dagli anni ‘90 è più datata di quanto non lo siano i negoziati. E che cosa ha concluso?” 

Poi ancora: “Durante il primo decennio del nuovo millennio avete notevolmente aumentato la vostra preparazione militare ed avete cominciato a migliorare i vostri razzi. E tutto è peggiore di quanto non fosse prima: il territorio palestinese è più frammentato".

Per finire seccamente: "Non solo le colonie sono aumentate, ma anche la disparità fra i palestinesi è aumentata. La conclusione è forse che la vostra resistenza armata ha dimostrato il suo fallimento e la sua inutilità ?".

Bella domanda.

Che è provocatoria naturalmente. La prima risposta dal fronte filopalestinese potrebbe essere: anche la resistenza non armata, quella dei negoziati e delle trattative ha fallito. Il che sarebbe anche vero. Oggi l’intero complesso quadro della situazione palestinese appare compromesso. E non si sa dire se definitivamente o meno. Compromesso tanto quanto la sorte della sinistra israeliana, naturalmente, spinta nell'angolo dell'irrilevanza da molti fattori, il primo dei quali è stato, storicamente, quello di non saper conciliare le trattative con la capacità di garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Dal 1973 (guerra del Kippur) ha dovuto lasciare il premierato; dal 2006 (guerra del Libano) anche i governi di coalizione. Oggi non conta più niente ed ogni singolo attentato o missile sparato sulle città israeliane vede come prima vittima, insieme alle possibilità di negoziare, anche la sopravvivenza politica della sinistra. Il che, ovviamente, non è un bene né per gli israeliani né, tantomeno, per i palestinesi.

Così il governo israeliano, il più destrorso di sempre, pesantemente condizionato da estremisti nazionalisti e religiosi, dal partito dei coloni più intransigenti (ma questo non significa che tutti i coloni siano intransigenti) ha promesso agli abitanti del sud, costantemente sotto il tiro dei razzi da Gaza (in media tre al giorno, tutti i giorni, da almeno tredici anni), di risolvere il loro problema con le buone o con le cattive (queste ultime più che altro). Ma è chiaro che non solo non ci è riuscito, ma che nemmeno ci riuscirà mai. A meno di radere al suolo tutta Gaza (cioè molto più di quanto non sia già stato fatto, per quanto dura sia stata la reazione alle provocazioni di Hamas).

Allora ha cambiato obiettivo e ha puntato sulla chiusura dei tunnel, che fanno molta più paura dei razzi agli abitanti dei kibbuz vicini alla Striscia. L’esercito ne ha trovati e fatti saltare una trentina. Ma i militanti di Hamas sono già al lavoro per ricostruirli, come dimostra un servizio di al Jazeera andato in onda pochi giorni fa.

E oggi un nuovo razzo, il primo dalla formalizzazione del cessate il fuoco, è stato sparato da Gaza.

Insomma l’ultimo round è appena finito e già ci sono tutte le condizioni per il prossimo. Ma il quadro mediorientale sta cambiando velocemente, anche se la dirigenza di Hamas non dà segno di essersene accorta.

Così continua la preparazione militare per il prossimo scontro che vedrà, come sempre, una durissima reazione israeliana e una drammatica sproporzione di vittime e di distruzioni.

Detto in altri termini - e parafrasando le parole di Amira Hass - non sarà ora che la strategia palestinese cambi? Siamo sicuri che la via pacifica, quella dei negoziati e delle trattative non sia andata incontro a ripetuti fallimenti proprio perché - prima (secondo quanto sostenuto dalla Hass) - era stata scelta la via dello scontro militare?

Questa domanda rimanda al concetto di resistenza ed alla pretesa molto europea (e italiana in particolar modo), di identificare la resistenza con la "resistenza armata". Non a caso la via gandhiana è sempre stata snobbata dalla sinistra e fatta propria solo da quei quattro gatti di radicali (a proposito qui Emma Bonino e Domenico Quirico che parlano di Medio Oriente allo Stensen di Firenze).

In realtà la resistenza armata non ha mai dato alcun risultato se, dietro, non si coagulavano forze consistenti in grado di supportare quella stessa resistenza; è quello che successe nella lotta al nazifascismo e quanto si è ripetuto con la guerra del Vietnam. E non tragga in inganno la guerra d'Algeria ché la Francia non aveva già più la convinzione e la coesione interna per tenersi il suo impero coloniale.

Ma non è quello che è successo in Palestina, almeno a partire dalla doppia sconfitta del '67 (guerra dei Sei giorni) e del '73 (guerra dello Yom Kippur), dopo la quale i paesi arabi gettarono la spugna e si ritirarono, alcuni solo di fatto, altri ufficialmente (sottoscrivendo trattati di pace da lì a qualche anno), dallo scontro armato con Israele.

La resistenza palestinese fu lasciata a se stessa e optò essa stessa per la lotta armata, con l'entusiastico appoggio del terzomondismo e dei movimenti della sinistra occidentale caduti nella trappola del mito della "resistenza tradita" e pronti a identificarsi con una qualsiasi opposizione armata anticapitalista (dimenticandosi così delle resistenze anticomuniste altrettanto condivisibili, in nome del diritto all'autodeterminazione e dei diritti civili, ma - forse proprio per questo - liquidate in quanto "borghesi").

Così l'orgoglio dei martiri che accompagna ogni momento delle vicende mediorientali, secondo l'antico entusiasmo coranico della morte per fede (ricompensata a suon di vergini), si è fuso con il romantico idealismo occidentale per la bella morte (concetto fascista, ma tanto apprezzato anche dai comunisti).

Nel frattempo l'India di Gandhi si è liberata pacificamente dal colonialismo e il pragmatico Sudafrica di Mandela dall'apartheid. Come dire: smetti di amare la morte e forse troverai la strada giusta. Lo chiede anche Amira Hass alla dirigenza di Hamas: non vi siete accorti che la vostra resistenza armata ha dimostrato il suo fallimento e la sua inutilità?

Va ricordato a proposito quanto disse, nel corso del penultimo conflitto di Gaza (2012), Abraham Yehoshua uno scrittore israeliano che spesso è considerato fra i "pacifisti" (o almeno non è considerato fra i "falchi"):

«La gente di Gaza pensa alla gente di Sderot, che vive sotto l'incubo dei missili lanciati da Gaza? La gente di Gaza sta partecipando alla guerra contro Israele: abbiamo ritirato i coloni, siamo andati via, perché continuano a spararci? È la gente di Gaza che ha eletto il governo di Hamas, che - lo ripeto - è un governo responsabile delle sue azioni. In Israele questa situazione ha minato alle basi la fiducia nella possibilità di una pace con i palestinesi: gli israeliani oggi pensano che se si ritireranno completamente dalla Cisgiordania accadrà lì quello che già accade a Gaza. E che ci ritroveremo i missili a Gerusalemme e a Tel Aviv. Il comportamento di Hamas è uno dei più grandi ostacoli alla pace fra i palestinesi e gli israeliani».

Non solo il fallimento di una strategia quindi, ma di una strategia sostanzialmente suicidale che è "uno dei più grandi ostacoli alla pace". Il che non assolve Israele, ovviamente, dalle sue colpe e responsabilità, ma chiarisce un quadro su cui troppe volte si sorvola con inaccettabile superficialità.

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