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09 luglio 2014

Con l’Arcivescovo nel fortino dei "crociati": "Solo un Gandhi potrà salvare Bagdad"
di Alberto Stabile

Circondato da filo spinato e decine di soldati: è la vita da recluso del nunzio apostolico Giorgio Lingua “L’Isis vuole conquistare Roma? Non siamo nel Medio Evo”

BAGDAD. Monsignore, come rappresentante del Vaticano, non si è sentito minacciato dal messaggio del Califfo al Baghdadi, quando ha invitato i musulmani ad unirsi a lui, "perché così potranno conquistare Roma e diventare i padroni del mondo"?

Il nunzio apostolico in Iraq, l’Arcivescovo Giorgio Lingua, sorride prima di rispondere: "Sinceramente non ho dato peso a quelle parole. Mi è sembrata più una boutade provocatoria che un’affermazione da prendere sul serio".

Evidentemente le autorità irachene non la pensano allo stesso modo. La sede della Nunziatura, nel quartiere di Karada, fino a pochi anni fa popolato quasi completamente da cristiani gli “eredi dei crociati” secondo la retorica jihadista - somiglia più ad un quartiere militare che a una sede diplomatica, circondata com’è da alti blocchi di cemento sormontati da filo spinato e vigilata da decine di uomini armati alloggiati in una fila di container parcheggiati lungo il viale d’accesso, con le divise e la biancheria stesa ad asciugare.

Lui stesso, l’arcivescovo, un piemontese di 54 anni con importanti esperienze sul campo, confessa di vivere nello stato di semilibertà, o di semi reclusione, dipende dai punti di vista, in cui sono costretti quasi tutti i diplomatici occidentali a Bagdad. Salvo, ammette timidamente, una "passeggiatina" di un’ora al giorno sulla terrazza della villa coloniale che ospita la nunziatura.

La capitale irachena è immersa nell’ansia dell’attacco contro la capitale. L’avanzata dei jihadisti dell’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, "come un coltello nel burro", dice il monsignore, ha messo a nudo la fragilità dell’Esercito iracheno, per la gran parte composto da truppe di fede sciita, e svelato l’esistenza di forti complicità interne, da parte di ex ufficiali agli ordini di Saddam Hussein e di tribù sunnite esacerbate dalla discriminazione settaria praticata ai loro danni dal premier sciita Nuri al Maliki.

"Accettare questo dato di fatto — secondo il Nunzio — vorrebbe dire accettare la divisione dell’Iraq. Allora, se non si vuole che questo succeda, bisogna intervenire, ma una reazione militare rischia di alienare ancora di più la gente, già scontenta dell’operato del governo".

Quindi, qual è la risposta?

"Sogno — confessa l’inviato del Vaticano — che nasca qualche profeta... Nel senso che tocca alla società civile organizzarsi, farsi sentire attraverso la voce di un nuovo Gandhi, di un nuovo Martin Luther King, che dica quanto siamo stufi di guerra, perché i politici non sono in grado di farlo".

Nel corso degli ultimi 11 anni, dall’invasione americana in poi, la minoranza cristiana ha subito attacchi e persecuzioni che ne

hanno minato il rapporto ancestrale con questa terra. Dei quasi un milione e mezzo di cristiani presenti in Iraq all’inizio del terzo millennio oltre due terzi sono fuggiti altrove. Praticare la loro fede è diventato, a tratti, impossibile. Adesso, dopo un periodo di relativa stabilità arrivano le nuove minacce.

"I trentamila cristiani di Mosul — racconta il Nunzio — hanno lasciato la città, spesso abbandonando tutti i loro beni, per rifugiarsi nei centri cristiani della regione autonoma curda. Ci angoscia il destino di due religiose che compivano la loro missione in un orfano-

trofio di Mosul. Le due suore, dopo essersi allontanate con gli altri, erano tornate forse per prendere qualcosa. Sono state rapite assieme a due ragazze e a un ragazzo di 12 anni, ospiti della struttura, e di loro non abbiamo più avuto alcuna notizia". Incertezza anche sullo stato delle chiese di Mosul, "secondo alcuni saccheggiate, secondo altri lasciate intatte".

La paura di una nuova ondata di violenza anti-cristiana s’è riverberata fino a Bagdad. L’esodo è ripreso. Ad assistere alla messa di domenica mattina nella Chiesa della Nostra Signora del Soccorso, sulle cui mura tardivamente fortificate spicca il manifesto con le foto dei 47 fedeli uccisi assieme a due preti, il 31 ottobre 2010, in un attacco jihadista cui è seguita l’improvvisa risposta delle forze di sicurezza, partecipano non più di una quarantina di fedeli, per la maggior parte anziani. Soltanto chi sente mancare le energie per affrontare un altro viaggio verso l’ignoto ha deciso di restare. Gli altri sono tentati di fuggire. Come Nader, un ingegnere meccanico sui 40 anni, sposato, due figli, che ha deciso di raggiungere il fratello Ayam in Australia. "Ho affittato la casa per un anno. Ho venduto i mobili e la macchina. Partirò in questi giorni. Non mi fido più di al Maliki che mi sembra più preoccupato di restare al potere ad ogni costo che del futuro del nostro paese".

Chiedo al Nunzio se l’idea del Califfato, lanciata da Abu Bakr al Bagdadi possa fare presa sulla popolazione sunnita. "Io credo che nel momento in cui dovessero dimostrare di saper governare un territorio così vasto e complesso come quello che hanno conquistato sarebbero destinati a fallire, perché, anche se hanno rilanciato il Califfato, non siamo più nel Medio Evo e questo la gente lo sa".

Resta, però, il rischio di dovere fare i conti con una mentalità radicale, propensa a vedere nei cristiani soltanto gli eredi dei crociati e, dunque, degli infedeli.

"Finora non hanno dimostrato questo odio anticristiano, i segni lanciati dagli uomini dell’Isis a questo proposito sono contraddittori. Ma, certo — conclude il Nunzio — se dovessero decidere di mettere in pratica il loro programma per i cristiani qui non ci sarebbe posto".

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