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Agosto 13, 2014

Tra le famiglie dei rifugiati cristiani a Erbil. «Per noi in Iraq non c’è più posto. Eccoci qui, senza più nulla che la vita»
di Rodolfo Casadei

«Qui nelle strutture scolastiche e nei cortili della cattedrale caldea ci sono 600 famiglie, in tutto 3.060 persone (delle quali 500 bambini sotto i 14 anni)».

Le aule della scuola parrocchiale annessa alla cattedrale caldea di San Giuseppe a Erbil sono l’unico posto al mondo dove si incontrano bambini che fuggono davanti a una telecamera o si coprono il viso se vedono puntata verso di loro una macchina fotografica, anziché assieparsi davanti all’obiettivo e chiedere di essere fotografati come in qualunque altro luogo del pianeta, anche dopo la catastrofe più orribile. Non importa che i giornalisti siano accompagnati da abuna Salem Saka, il sacerdote della diocesi di Erbil che si occupa di loro in pianta stabile insieme ad alcune suore domenicane: ci sono ragazzini che si buttano fra le braccia della mamma – che a sua volta si schermisce – non appena si accorgono che un tizio che non hanno mai visto li sta filmando o fotografando. Non tutti, ma un certo numero sì.

Forse la spiegazione è che arrivano da Qaraqosh, la cittadina cristiana di 45 mila abitanti quasi tutti siriaci cattolici che è stata occupata dai jihadisti di Daesh nella notte fra il 6 e il 7 agosto, dopo che le forze curde si erano ritirate. In giugno erano arrivati lì migliaia di profughi da Mosul; poi i jihadisti si erano impadroniti dell’acquedotto che alimenta la località e avevano bloccato i commerci coi centri musulmani circostanti, rendendo la vita dura agli abitanti; all’inizio di luglio avevano lanciato l’attacco, provocando lo svuotamento della cittadina, con migliaia di persone in fuga verso Erbil. Dopo aspri combattimenti i curdi avevano recuperato le loro posizioni e la gente era quasi tutta tornata. Poi il 6 agosto a mezzanotte il tracollo: spari dappertutto, grida di “Allahu Akhbar!”, e i miliziani jihadisti che entrano nella città abbandonata dai reparti curdi. La gente è fuggita in massa, lasciando dietro di sé la maggior parte delle loro cose. «Non si fidano più, vogliono emigrare all’estero perché disperano che la situazione torni alla normalità. Già una volta sono ripartiti da zero e non è servito a nulla. Ormai si sentono una minoranza perseguitata per la quale in Iraq non c’è più posto», spiega padre Salem scuotendo la testa.

Qui nelle strutture scolastiche e nei cortili della cattedrale caldea ci sono 600 famiglie, in tutto 3.060 persone (delle quali 500 bambini sotto i 14 anni) che caldei non sono: per il 99 per cento si tratta di siriaci cattolici di Qaraqosh, più qualcuno di Karamlish e di Mosul, quei pochi rimasti qui dopo l’esodo di fine giugno, inizio luglio. «È il più grande dei centri di accoglienza della Chiesa, che sono 15 in tutto, comprese le strutture di cinque chiese: la nostra cattedrale, la chiesa di Sant’Elia, quella di San Giorgio, quella di Oum Nour, “Madre della luce” e la parrocchia di san Giovanni Battista». Le ultime due chiese citate da padre Salem sono la prima una siriaca ortodossa e la seconda una assira orientale, ma per lui come per quasi tutti ormai è normale dire “la” Chiesa quando si parla dell’attuale situazione dei cristiani. La persecuzione ha accomunato cattolici e non cattolici, oltre che i diversi riti orientali fedeli a Roma, abbattuto barriere secolari che parevano insuperabili.

Anche a livello internazionale l’amaro destino dei cristiani del nord dell’Iraq ha suscitato solidarietà impensabili: facciamo appena in tempo a non farci scippare l’appuntamento con padre Salem da parte del rappresentante di una Ong indiana sikh – provvisto di lunga barba scura e splendido turbante d’ordinanza – che vorrebbe conferire con lui. Fra gli sfollati del cortile si aggirano un ragazzo e una ragazza con foulard islamico e maglietta dell’Acf, la Ong creata 35 anni fa da Bernard Henry-Levy, Marek Halter e altri intellettuali perlopiù ebraici della gauche revisionista francese. Dentro a un’aula addetti dell’Unicef visibilmente musulmani conducono il loro censimento.
«Arrivano aiuti da tutto il mondo, dagli Usa e dall’Europa, dal Governo regionale curdo e da quello centrale, ma purtroppo non riusciamo a trattare tutti allo stesso modo, a parte i tre pasti quotidiani ai quali si accede con la tessera di riconoscimento che abbiamo distribuito a tutti». Come in tutte le disgrazie, vige la regola che chi ultimo arriva male alloggia. Mentre i profughi delle aule principali della struttura scolastica possono godere di impianti di aria condizionata, quelli del cortile boccheggiano sotto tende ancora perlopiù di fortuna. Alcuni litigano col sole e con l’ombra – preziosa più dell’acqua in questa stagione – addossati con le loro poche cose lungo le pareti esterne della cattedrale. Padre Salem mostra un inverecondo sottoscala che porta alla tettoia della scuola: «Qui la notte ci dormono sei famiglie strette le une contro le altre. Il problema è che continua ad arrivare gente insoddisfatta delle condizioni che hanno trovato in altri centri. Tenete conto che a Erbil sono arrivati in poco tempo 50 mila profughi cristiani, più altre migliaia di yazidi e di shabak».

I soggiornanti di una delle aule meglio rinfrescate ci danno la più sorprendente delle notizie: a Qaraqosh vivono ancora 30 famiglie cristiane. Gente che per vari motivi non se la sentiva di abbandonare la propria casa. I contatti con loro sono sporadici perché i jihadisti hanno sequestrato quasi tutti i cellulari di chi è rimasto in città. Le poche notizie arrivano da quei rarissimi che hanno saputo nascondere bene i loro telefoni mobili e da qualche amico musulmano di villaggi vicini che si è avvicinato per capire cosa sta succedendo nella capitale dei siriaci cattolici dell’Iraq. E non sono buone notizie: i cristiani non escono mai di casa e stanno consumando le riserve alimentari che, com’è abitudine da queste parti, avevano accumulato. Daesh sta organizzando su grande scala la spoliazione delle case abbandonate mentre ha già fatto sparire tutte le auto che erano state lasciate in città. Le notizie sono frammentarie, ma ricalcano quelle che avevamo raccolto ieri da padre Paolo parroco caldeo di Karamlish. Anche lui e i suoi parrocchiani dicevano che i loro conoscenti musulmani di paesi vicini ai quali avevano chiesto informazioni sullo stato delle proprietà cristiane rispondevano che ogni volta che si avvicinavano venivano respinti senza tante cerimonie dai jihadisti, ma da vari elementi segnalavano che una grande e capillare razzia era in via di realizzazione.

Nessuno degli esuli di Qaraqosh pare avere avuto contatti diretti con Daesh. Fa eccezione una giovane donna di Mosul, che racconta in poche parole il suo esodo alla fine di luglio: «Non volevano lasciarci andare. Siamo partiti con l’auto di un amico musulmano che stava alla guida, io, mio marito, mia figlia e mia sorella. Per far sì che ci lasciassero passare il nostro autista si è inventato che saremmo tornati indietro subito, dopo aver incontrato altre persone. I jihadisti del posto di blocco hanno voluto in pegno le nostre chiavi di casa. Ed eccoci qui, senza più nulla che la vita».

Girano voci che i curdi stiano per contrattaccare, con l’assistenza degli Usa e delle forze armate irachene, in una certa zona della Piana di Ninive. Eppure queste notizie qui non generano nessun entusiasmo. Per tanti l’orizzonte della vita si è stretto all’improvviso. È diventato ottenere un segmento diverso dei muri esterni della cattedrale, uno dove le ore di ombra siano di più e quelle di sole di meno. Come per il signore dai baffi bianchi che indica il suo materassino arroventato in piena luce e ci chiede di rappresentare il suo caso a padre Salem. Ma per lui, come per tanti altri, in questo momento non si può fare niente di più di quello che si sta facendo.

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