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ago 26 2014

Abbiamo parlato delle origini dell’isis con Anand Gopal un corrispondente di guerra
di Leighton Woodhouse

Per anni, Anand Gopal ha fatto da corrispondente dall'Afghanistan per il Wall Street Journal, e tra qualche mese si recherà in Iraq per seguire da vicino il caos che attanaglia la regione. Dopo l’uccisione del giornalista James Foley da parte dello Stato Islamico, VICE ha contattato Gopal per sentire cosa pensa della situazione in Iraq e dei rischi del mestiere di giornalista in una zona di guerra.

VICE: Hai vissuto molti anni in Afghanistan, prima come inviato per Christian Science Monitor e poi per il Wall Street Journal. Il reporter del WSJ che ti ha preceduto in Afghanistan era Daniel Pearl, ucciso dalle milizie pachistane secondo dinamiche non del tutto diverse dall'assassinio di Foley da parte dello Stato Islamico. Fra qualche mese sarai in Iraq. Ovviamente il tuo lavoro comporta rischi con conseguenze potenzialmente fatali. Cosa ne pensi? Ti sei abituato ai pericoli?

Anand Gopal: No, non mi sono abituato, perché nel momento in cui ti abitui diventi più vulnerabile. Anche se lavoro in zone di guerra, in zone che sono considerate pericolose, prendo diverse precauzioni. Innanzitutto devo conoscere benissimo l’area, e disporre di una rete di contatti fidati. Tendo a non correre i rischi che corrono altri tipi di giornalisti—i fotogiornalisti, in particolare, credo si assumano più rischi dei giornalisti, perché per scattare le foto devono essere nel mezzo dello scontro. Io sono più interessato a ciò che sta dietro al conflitto, al retroscena politico, quindi non sono quello che corre sul luogo dell'esplosione come potrebbe invece fare un fotogiornalista. 

Di sicuro ci sono dei rischi: cerco di mitigarli con la preparazione e con il tipo di storie che seguo. 

Ha intervistato sia soldati semplici che capi talebani e signori della guerra afghani come Gulbuddin Hekmatyar. Parliamo di uomini pericolosi immersi in un clima di guerra e violenza bruta. Dal punto di vista privilegiato di un occidentale, però, in termini generali lo Stato Islamico sembra appartenere a un’altra categoria. La sete di sangue dell’IS sembra superare quella dei talebani, di Al-Qaeda, e degli altri gruppi del radicalismo islamico contro cui hanno combattuto gli Stati Uniti negli ultimi 13 anni. È una descrizione accurata, secondo te? Oppure è un’esagerazione?

Per certi aspetti è corretto dire che l’ISIS, o Stato Islamico, sia diverso dai talebani. E anche da Al-Qaeda, ma soprattutto dai talebani. Ed è così per diverse ragioni: in primo luogo, gli obiettivi dei talebani sono sempre stati di tipo nazionalistico, nel senso che loro dicono di combattere per l’Afghanistan contro gli occupanti stranieri. Dicono che le loro ambizioni politiche consistono nel ritorno allo status quo precedente all’invasione americana del 2001. In questo senso sono molto concentrati sull’Afghanistan. Una cosa che ho imparato parlando con i combattenti talebani è che i fattori che li spingono a combattere sono di natura estremamente locale. Se ti trovi davanti un signore della guerra sanguinario che viola i diritti umani, reagisci. Né più né meno. Ed ecco perché ti unisci ai talebani. È un movimento locale, a differenza dell’ISIS. 

La cosa molto interessante dell’ISIS è che sembra rigettare in blocco l’ordine internazionale, e credo che questo sia un aspetto unico e peculiare. Anche quando erano al potere, in un certo senso i talebani cercavano l’approvazione internazionale. Non credo che l’ISIS sia più assetato di sangue del regime di Assad, o dei talebani, o di Al-Qaeda: la cosa diversa è che loro sono ben disposti a mostrare le loro atrocità. Le pubblicano su Twitter. Mettono i video su YouTube. Ed è perché, fondamentalmente, rifiutano l’ordine internazionale e ne rivendicano uno proprio. I gruppi al potere, regime siriano compreso, e i gruppi all’opposizione, come Al-Qaeda o i talebani del Pakistan, possono essere altrettanto assetati di sangue. La differenza è che tentano di minimizzare le loro atrocità: non vogliono che il mondo sappia. Le nascondono, mentre l’ISIS, rifiutando l’ordine internazionale, ha una logica strategica completamente opposta. Pubblicizza le sue barbarie, ed è per questo che tendiamo a pensare che l’ISIS sia violento come nessun altro gruppo. Ma non credo sia così. 

In apparenza, la cruenta uccisione di James Foley poteva sembrare un avvertimento agli Stati Uniti affinché non si immischiassero in Iraq o una provocazione a entrare in guerra. Ma i destinatari erano gli occidentali, oppure il video poteva anche essere rivolto a un pubblico iracheno, a scopo di reclutamento?

Be', può essere entrambe le cose. In alcune zone dell'Iraq a mio giudizio c'è molta meno empatia nei confronti di un americano ucciso, dato il passato recente con gli Stati Uniti—meno di quanta ce ne potrebbe essere per un iracheno o un siriano, anche se pure iracheni e siriani vengono uccisi ogni giorno dall’ISIS. È molto plausibile che da una parte il video avesse una funzione di reclutamento a livello locale, ma dall’altra è dura negare che in qualche modo fosse rivolto all’Occidente. 

C’è una linea di pensiero, che giudico plausibile, che sostiene che l’ISIS e le sue precedenti incarnazioni, nel 2004, 2005 e 2006, siano perfetti per operare in uno stato di guerra: seminare caos, e sfruttarlo per attrarre reclute e agire come gruppo. Oggi operano ancora in stato di guerra. I loro sforzi per costruire un vero stato, anche in posti come Raqqa, in Siria, non sono così estesi come in altri casi, ad esempio se si fa il paragone con Hezbollah e il mini-stato che controlla in Libano, o con altri gruppi islamisti. 

Per quanto mostruoso possa essere lo Stato Islamico, il suo successo è alimentato dalla legittima rabbia di parte della popolazione sunnita relegata a uno status di inferiorità dal governo di Maliki, salito al potere dopo la sconsiderata invasione e occupazione americana del Paese. L’ISIS, in pratica, ci sta sfidando a intervenire di nuovo in quella che è diventata una guerra civile a più attori. Gli Stati Uniti possono assumere un qualche ruolo attivo in questo scenario, militare o di altra natura, oppure l’amministrazione Obama farebbe meglio a tenersi alla larga dalla situazione? 

No, non credo che gli Stati Uniti possano assumere un qualche ruolo. È importante ricordare che gli Stati Uniti sono indirettamente responsabili dell’esistenza stessa dell’ISIS, a causa dell'invasione, del caos che l’invasione ha alimentato, e della guerra civile frutto dell’occupazione americana. Questo è il primo motivo. E poi c'è il fatto che sono stati gli alleati degli Stati Uniti ad aver gettato le basi del malcontento sunnita sfruttato dall'ISIS. Gli Stati Uniti non hanno un buon curriculum in Iraq: io sarei molto cauto in materia di intervento. 

Ma a parte questo, non ci sono molte buone opzioni. Una potenza straniera, una grande potenza come gli Stati Uniti, non può sconfiggere l’ISIS senza che ci siano conseguenze involontarie ed effetti di secondo e terzo ordine simili a quelli che hanno determinato la nascita dell’ISIS. Penso che se la Rivoluzione Siriana cambiasse corso, cosa che non pare molto probabile al momento, ma se così fosse, se gli islamisti meno radicali e le forze non islamiste riuscissero a divenire più forti le dinamiche potrebbero cambiare. Ma sfortunatamente non sembra esserci molto da fare. Ci saranno spargimenti di sangue per molti altri anni.

Da un punto di vista più ampio, quello che vediamo oggi è il risultato di 30, 40, 50 anni di dittature, dittature secolari in tutto il mondo arabo, con poche forze in grado di articolare una visione di giustizia sociale che fosse anche secolare. Questi movimenti sono sempre stati molto deboli, in gran parte a causa delle dittature, per il fatto che il nazionalismo arabo, il baathismo e molte di queste ideologie che si crogiolano in una retorica di sinistra, sono, in realtà, molto oppressive. Penso che questo tolga molta legittimità ai movimenti di sinistra. Quello che si ottiene alla fine sono dittature di sinistra oppure, in alternativa, islamismo. Così, dopo le primavere arabe che hanno rovesciato, o tentato di rovesciare, un po’ dappertutto le dittature secolari, nessuno poteva colmare il vuoto di potere se non gli islamisti, ed è questa la partita che si gioca oggi nel mondo arabo.

Non c’è una soluzione semplice. È una questione generazionale. Ci vorrà un’operazione di ricostruzione, di riscoperta di forme politiche e di resistenza che non hanno a che fare con l’islamismo, né con il baathismo e altre rovinose ideologie. Ci vorrà molto tempo, e disgraziatamente anche molto sangue.

Hai scritto che, nel caso della Siria, c’è un “forte tentativo da parte dell’Occidente di ordinare una realtà enormemente complessa e trasformarla in una storia semplice e autoreferenziale.” La stessa cosa può valere per i media che seguono l’Iraq? 

Certamente. Innanzitutto, mi sembra che ci siamo dimenticati della storia. Il dibattito attuale ruota principalmente intorno alla possibilità che il ritiro di Obama del 2010-11 sia ciò che ha causato il rafforzamento dell’ISIS, o se il non aver armato i ribelli siriani abbia permesso all’ISIS di crescere e acquisire potere. Ma queste sono visioni semplicistiche e parziali: dobbiamo avere una prospettiva più ampia, e considerare il contesto del cambiamento radicale portato dall’intervento americano e dall’invasione dell’Iraq.

In secondo luogo, si tende a pensare all’ISIS come il male assoluto. Sento spesso ripetere questa espressione. Ovviamente sono brutali, barbarici, e li disprezzo. Ma pensandoli come il male assoluto non si arriva molto lontano. Dobbiamo ragionare sulle origini sociali, le radici politiche dell’ISIS. Quali sono state le condizioni che, in particolare dopo il 2008-2009, hanno portato al malcontento e alla negazione dei diritti delle comunità sunnite irachene e alla rabbia contro il governo Maliki, permettendo a gruppi come l’ISIS di rafforzarsi? 

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