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02/09/2014

Uomini e ragazzi fucilati, donne vendute come schiave. Ecco i primi racconti dell'orrore nel Califfato di al-Bagdadi
di Daniele Mastrogiacomo
Inviato di guerra, la Repubblica

I racconti sono agghiaccianti. Per i dettagli forniti da chi si è riuscito a salvare e perché sono uguali, nonostante siano stati rivelati da persone diverse, che non si conoscevano, e in luoghi differenti. Quindi, testimonianze importanti e vere: saranno la base per formalizzare l'accusa di pulizia etnica su scala storica nei confronti dell'Is (Stato Islamico) da parte di Amnesty international. L'organizzazione per i diritti umani li ha raccolti sul campo, tra le poche centinaia di uomini e di ragazzi, di etnia Yezidi, rimaste intrappolate nei villaggi di Sinjar, regione nord occidentale dell'Iraq, ai piedi della catena montuosa Kursi.

Tra il 3 e il 15 agosto, le milizie dell'Isis lanciano la loro offensiva partendo da Mosul, seconda città irachena per importanza, conquistata il 10 giugno. Sono decise a fare piazza pulita di una piccola comunità yezida, il cui nome deriva da un'antica religione monoteista. Affollano i villaggi di Qiniyeh e di Kocho, noto anche come Kuju. Le notizie sull'avanzata dei jihadisti scesi dalla Siria e sostenuti dai sunniti iracheni, allarma le piccole comunità. Si tratta di gente povera, legata alla terra che coltiva a fatica. Chi può, fugge. La maggioranza: 830 mila persone. Gli altri decidono di restare sperando di non essere coinvolti nelle scorribande.

L'esercito iracheno del governo centrale ha abbandonato le sue postazioni, travolto da un'ondata che non si aspettava e che non ha alcuna intenzione di fronteggiare. Agli Yezidi non resta che tirare fuori i propri Ak-47 per difendere le famiglie e le case. Ma è una misura estrema: sanno di poter fare poco nei confronti di un vero esercito munito di armi sofisticate e di migliaia di mezzi, anche corazzati.

La prima incursione inizia il 3 agosto nel villaggio di Solagh, a sudest della città di Sinjar. Racconta un testimone che per paura ha chiesto di restare anonimo: "Un Toyota bianco con 14 combattenti a bordo si è fermato davanti alla casa di un mio vicino. Io ero riuscito a nascondermi e ho potuto assistere a tutta la scena. Il mio conoscente è uscito in strada e ha sollevato una bandiera bianca per sostenere che erano pacifici. Gli uomini li hanno rassicurati. Hanno detto che li volevano trasferire in montagna, al sicuro. Hanno preso circa una trentina di persone che si erano rifugiate nella casa: c'erano uomini, donne e bambini. Questi ultimi sono stati caricati su un camion giunto subito dopo: erano circa una ventina. Gli uomini, in tutto nove, sono stati costretti a marciare in fila indiana lungo il wadi (letto di un fiume asciutto, ndr). Dopo 2-300 metri sono stati fatti inginocchiare e li hanno fucilati alla schiena. So che due delle vittime avevano 80 e 50 anni".

La regione viene tenuta sotto assedio per due mesi. Ogni tanto ci sono nuove incursioni degli jihadisti. I 1200 abitanti del villaggio di Kocho restano senza cibo e acqua. Per rifornirsi devono uscire di notte, strisciare lungo sentieri e raggiungere alcuni ruscelli. Ma non è facile. Così, la maggioranza è costretta a restare rintanata in casa.

Ma il 15 agosto c'è un nuovo assalto. "Sono arrivati con una decina di pick-up e camion", racconta un sopravvissuto. "Su ogni mezzo c'erano almeno 15 militanti dell'Isis. Aprono case, negozi e piccoli edifici. Gli uomini dai 12 agli 80 anni vengono divisi dalle donne, spesso giovani, e dai loro figli, anche bambini di pochi anni. I primi vengono imbarcati sui pickup che iniziano a fare la spola verso un campo fuori il villaggio".

Su 100 prigionieri si salvano in 10. Di altri 400, scomparsi, si teme che siano stati massacrati. Ricorda Elias Salah, infermiere di 59 anni: "Ci hanno convocati tutti nei locali della scuola secondaria, trasformata nel loro quartiere generale. Ci hanno ordinato di consegnare loro tutti i cellulari e i soldi che avevamo. Alle donne hanno chiesto i gioielli che indossavano. Ci hanno diviso. Gli uomini e i ragazzi siamo stati caricati su alcuni camion e portati in una costruzione poco fuori il villaggio. Ci hanno fatto inginocchiare sul bordo di una grande piscina, ci hanno ripreso con un video. Ho pensato che ci avrebbero liberato. Invece ci hanno mitragliato di colpi alle spalle. Sono stato colpito al ginocchio sinistro. Di striscio. Mi sono lasciato cadere in avanti e ho finto di essere morto. Ero terrorizzato. Solo quando è finita la sparatoria ho avuto la forza di aprire gli occhi, di alzarmi e di fuggire".

Altri due sopravvissuti, Khider Hassan e Rafid Said, raccontano: "C'era una grande confusione. Divisi dalla donne, uomini e ragazzi venivano messi dentro le auto e i pickup, In modo indiscriminato. Si è salvato solo chi è rimasto solo ferito e si è dato per morto. L'unico posto sicuro era il monte Sinjar ma per raggiungerlo bisognava camminare per sette-dieci ore. Molti, feriti alle gambe, alle braccia e al petto, non ce l'hanno fatta".

"I militanti dell'Isis", racconta Khaled Mrad, 32 anni, commerciante, "ci avevano garantito più volte che ci avrebbero lasciati andare. Ci hanno caricato su dei mezzi e ho pensato che ci portavano in montagna. Si sono fermati sul bordo di una collina. Ci hanno costretti a sdraiarci, con il volto verso terra. Ho guardato in basso: era già pieno di cadaveri. Hanno esploso centinaia di colpi. Sono rimasto ferito ad un polpaccio e un braccio, mi sono finto morto".

Nel villaggio di Qiniyeh, gli uomini dell'Isis sono stati ancora più spietati. Chiedevano a tutti di consegnare le armi. "Ma noi", ricorda un sopravvissuto, "non le avevamo. Erano già state nascoste in alcuni anfratti. Eravamo 400, forse 500. Ragazzi di 12 anni e uomini di 60. Molti hanno cercato di fuggire ma sono stati centrati dagli jihadisti. Qualcuno ho lottato, altri hanno travolto il muro di miliziani. Nella confusione, qualcuno si è salvato. altri sono stati colpiti come birilli. Le donne, le ragazze, anche i bambini di pochi mesi, sono stati trasferiti altrove".

Secondo alcune testimonianze sarebbero tenute prigioniere a Mosul e a Tal Afar, nelle case lasciate dai turcomanni fuggiti. Le più fortunate sono state costrette a sposarsi con dei miliziani; le altre sono state violentate. Chi rifiutava i matrimoni combinati è stata venduta come schiava. Alcune riescono a chiamare i propri familiari. Ma lo fanno di nascosto, con cellulari trovati sul posto. Della maggioranza non si hanno notizie certe. Forse sono state uccise, forse già vendute e sparite nel vasto territorio controllato dallo Stato islamico. Ma decine, secondo le testimonianze di chi è riuscito a fuggire, hanno preferito suicidarsi. Con un colpo di pistola, strappata al proprio carnefice.

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