Il Manifesto
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25 settembre 2014

Guerra al Califfato, l’immaginario e la violenza
di Richard Falk

Gli ultimi decenni dovrebbero insegnare all’Occidente che la fase di instaurare interventi coloniali che riportino successo è finita e che fondare la nuova era di diplomazia interventista con la crociata morale di difesa dei diritti umani, democrazia e di antiterrorismo può ingannare solo i cittadini del proprio paese, scrive Richard Falk

Se prendiamo in considerazione quanto sta avvenendo nella regione mediorientale, a livello politico, circola un’altra «verità» che disturba: l’intera regione in questa fase appare meglio governata in modo autoritario, anziché in una sorta di «incoraggiamento alla democrazia».

Era questo il tema della litania della presidenza di George Bush (2000-2008) oppure durante della rivolta popolare che sembrava così piena di speranze in Siria, Egitto, Yemen, Bahrain, risultata infine insostenibile. I paesi con risultati migliori di questi, ora sembano essere proprio quelli laddove il vecchio regime autoritario è prevalso senza grandi intralci (come in Marocco) con qualche riforma «cosmetica». Le alternative presentano un situazione molto peggiore: terribile guerra civile (Siria) oppure una situazione caotica senza uscita (Libia). Data la situazione in Iraq, gli strateghi americani non preferirebbero, segretamente, un ritorno di Saddam Hussein in Iraq come regalo degli dei? La Siria, come l’Iraq ha inviato segnali errati in tutta la regione mediorientale. È iniziato tutto con una sfida della popolazione contro il regime di Assad, che ha fornito l’occasione per scatenare una sanguinaria campagna di repressione di «counterinsurgency».

In seguito, forze politiche esterne,Turchia, Usa, Paesi del Golfo, hanno formato una coalizione come «Amici della Siria» per aiutare le forze dell’opposizione ad avere la meglio, mal calcolando le capacità militari del governo di Damasco. In Siria, invece di un cambio di regime va così avanti una Guerra civile che ha già causato 200 mila vite umane, causato milioni di rifugiati e altri milioni di persone internamente internamente. Tre risultati negativi politici sono la conseguenza di queste direttive: i paesi confinanti sono stati destabilizzati, la irrisolta guerra siriana ha fatto sorgere varie forme di estremismo islamico e le atrocità di Assad hanno costituito una licenza ad altri nella regione (come al Sisi) di perpetrare crimini umanitari che restano impuniti.

Quale è la lezione da apprendere? Gli ultimi decenni dovrebbero insegnare all’Occidente che la fase di instaurare interventi coloniali che riportino successo è finita e che fondare la nuova era di diplomazia interventista con la crociata morale di difesa dei diritti umani, democrazia e di antiterrorismo può ingannare solo i cittadini del proprio paese. (…)Qualora l’intervento militare – poi – non abbia come conseguenza l’occupazione, i risultati non sono migliori. Montagne di corpi umani e desolazione è quanto resta, ma la nuova realtà che si prospetta come nel caso della Libia è un caos ingovernabile con milizie armate che si sostituiscono alle norme di legge. Washington chiama queste situazioni «failed states» come se non avesse nulla a che vedere con il collasso della governance.

L’America e la Nato avrebbero dovuto aver appreso i limiti della superiorità militare e le problematiche relative all’ccupazione dai loro fallimenti in Afghanistan ed Iraq. La superiorità militare può generalmente impressionare soltanto un governo del Terzo Mondo e distruggere la sua capacita militare, ma questa è soltanto una fase iniziale e semplice, come uno sforzo per controllare il future politico di un determinate paese. Bush non capì questo quando per l’Iraq annunciò «missione compiuta» al mondo intero. (…) L’idea di trasformare in sicurezza una milizia indigena addestrata per salvaguardare il governo imposto con un intervento militare è davvero una «missione impossibile». Non è con la forza militare che si puo controllare la storia. Questo modo di pensare è parte della cultura politica degli Usa, in base al quale la sicurezza viene assicurata con la violenza del potere. Questo ci riconduce all’Isis e quanto si può fare per migliorare la situazione e non peggiorarla. Obama è stato incaricato di formulare la risposta nella regione mediorientale. Ha dovuto affrontare una problematica dai molteplici aspetti. È stato eletto presidente due volte, in parte per porre fine al coinvolgimento americano nelle guerre oltreoceano, sopratutto in Medio Oriente e ancora una volta sta facendo una corsa per ramazzare nella regione ed in Europa alleati per una nuova guerra contro un nemico che non poneva nessuna minaccia contro la popolazione americana. Per aggirare questa realtà è stato necessario dramatizzare la barbarie delle tattiche dell’Isis, focalizzandosi sulle vittime americane e assicurando che non ci sarebbero stati morti americani. E qui sta il nocciolo del problema: la leadership americana nella regione dipende dalla protezione dello status quo autoritario. Quanto ha proposto Obama è una vecchia formula per il fallimento: bombardamenti, addestramento, fornitura di armi e «consiglieri» per forze amiche (curdi iracheni, siriani moderati, milizie irachene) per spezzare l’arruolamento e i finanziamenti dell’Isis.

Il programma di Obama è una pallida versione della dottrina post-Vietman di «counter-insurgency» ed i rischi di morti vengono minimizzati, così come lo sporco lavoro, che viene svolto dai droni e dalle forze indigene. Ebbene, come precedentemente, il risultato sarà una mistura di caos, «incidenti» che provocheranno la morte di civili innocenti facendo emergere il risentimento dell’opinione pubblica e grande sofferenza della società civile creando altri rifugiati e internamente cittadini in fuga. È questo ancora una volta il modo militaristico per affrontare la situazione e certamente per creare una situazione ancora peggiore. Certamente esistono opzioni preferibili, ma per attuarle richiede ammettere che l’occupazione americana dell’Iraq è stata la causa dell’emergere dell’Isis sopratutto dopo l’eliminazione degli elementi Bathisti nel governo e le forze armate con l’incoraggiamento al settarismo shiita. Un altro percorso produttivo presuppone una visione diplomatica americana che comporterebbe un allentamento dei legami di dipendenza da Israele e seguire piuttosto una linea di interessi geo-strategici in Medio Oriente.

Ciò comporterebbe includere l’Iran per trovare una soluzione politica per la guerra civile in Siria; proporre una «nuclear free-zone» in tutto il Medio Oriente; esercitare pressione su Israele per il riconoscimento ai Palestinesi dei diritti riconosciuti dal diritto internazionale. È questo un approccio prettamente politico che contrasta con il militarismo che sta producendo distruzione nell’intera regione mediorientale, sin da quando la parziale stabilita della guerra fredda è venuta meno con il crollo del muro di Berlino. Le geopolitiche militariste sembrano portare ancora verso un’altra catastrofe occidentale nel Medio Oriente. Non esiste all’orizzonte alcuna intenzione politica – da nessuna parte – che possa contrastare tale disastrosa decisione politica: e così il ciclo della violenza assassina si ripete ancora una volta. Il militarismo di questa coalizione occidentale sta confrontandosi con il militarismo dell’Isis, come già accaduto in precedenti interventi occidentali in quelle aree.

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