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17/06/2014

Chi è responsabile della crisi irachena
di Andrea Plebani

Se l’Iraq oggi è preda degli islamisti è solo in parte colpa dell’intervento a guida Usa nel 2003

Sommario

1.            Le colpe degli Usa

2.            La responsabilità di al-Maliki

3.            Il ruolo dei miliziani islamisti

4.            La situazione attuale

5.            Cosa resterà dell’Iraq

Pochi giorni fa, Tony Blair ha riaperto il dibattito sul conflitto che nel 2003 portò alla caduta di Saddam Hussein. L’ex primo ministro britannico – alleato chiave di George W. Bush ai tempi dell’operazione Iraqi Freedom – ha provato a contrastare l’idea che l’attuale crisi irachena non sia altro che l’inevitabile conseguenza dell’intervento in Iraq nel 2003 da parte della “coalition of the willing”, un gruppo di Paesi guidati dagli Usa. Secondo Blair, questa idea sarebbe non solo impossibile da dimostrare, ma anche sbagliata, poiché – per sintetizzare al massimo le argomentazioni dell’ex premier – difficilmente il Rais sarebbe riuscito ad evitare l’ondata di sollevazioni che ha investito il Medio Oriente a partire dalla fine del 2010. Infatti, dato il record tutt’altro che positivo del presidente iracheno in ambito di diritti umani, secondo Blair ci si sarebbe probabilmente trovati a fare i conti con un teatro molto simile – se non addirittura peggiore – di quello presentatosi in Siria con Bashar al-Assad.

La questione sollevata da Blair resta aperta. Di chi è la responsabilità della crisi che ha investito la Terra dei due fiumi e che ha portato alla caduta di città chiave come Falluja, Ramadi Mosul, Tikrit e Tal Afar nelle mani dei miliziani dell’Isis? Degli Stati Uniti e dei loro alleati, mobilitatisi oltre 11 anni fa per una causa (l’eliminazione di Saddam Hussein) forse tutto sommato accettabile, ma combattuta per motivazioni e con modalità del tutto errate? Degli iracheni stessi, e soprattutto del primo ministro, Nuri al-Maliki, che avrebbe vanificato gli enormi sforzi della comunità internazionale imbarcandosi in una deriva settaria che molti considerano alla base della situazione attuale? Oppure degli artefici del moderno Stato iracheno che riunirono le tre province ottomane di Mosul, Baghdad e Bassora alla fine del primo conflitto mondiale più per soddisfare gli interessi di Londra nell’area che per rispondere alle esigenze di una popolazione coesa e unita da tratti identitari e socio-culturali comuni?

Nessuno, a oggi, può dare una risposta compiuta a tale interrogativo. Probabilmente, però, tutti gli attori che a vario titolo hanno avuto un ruolo nella questione irachena hanno una quota di responsabilità.

Le colpe degli Usa

Senza alcun dubbio gli Stati Uniti e i loro alleati hanno le loro colpe. La scellerata gestione del sistema iracheno nei mesi seguiti alla sconfitta di Saddam Hussein ha avuto un peso determinante nel fallimento del progetto di “nuovo Iraq” sorto in ambito neo-con. La terra dei due fiumi sarebbe dovuta divenire un faro di speranza, democrazia e stabilità nel cuore di una regione che – nonostante i molti alleati di Washington – era ottenebrata da autoritarismi, sperequazioni e violazioni quotidiane dei diritti umani più basilari.

Essa sarebbe dovuta essere esempio e monito al tempo stesso, oltre che un alleato eccezionale dal punto di vista economico, politico e di sicurezza. Nel giro di pochi mesi, però, questo scenario è collassato sotto il peso di scelte errate, destinate a segnare l’Iraq per anni a venire: scioglimento delle forze armate, processo di de-baathificazione, passaggio immediato a un’economia di mercato e articolazione degli interessi della popolazione irachena su basi etno-settarie su tutte. Tali misure furono associate alla Coalition provisional authority di Paul Bremer III, ma gli errori americani furono più legati alla scarsa conoscenza degli equilibri locali e alla inadeguatezza dei preparativi per il “post-Saddam” che alle responsabilità – seppur importanti – di una singola persona o istituzione. Eppure, al momento del loro ritiro nel dicembre 2011 (una scelta frutto più dell’intransigenza della dirigenza irachena che dell’effettiva volontà di disengagement americana) gli Stati Uniti erano riusciti con gran dispendio di risorse ed energie a lasciare un Iraq, se non completamente pacificato, quantomeno non minacciato da un’insurrezione su ampia scala, con i resti dello milizie qaediste in fuga od operanti nell’ombra a Mosul e dintorni.

La responsabilità di al-Maliki

Nel giro di pochi mesi, però, nonostante le rassicurazioni fornite a Washington, Nuri al-Maliki – il premier sciita alla guida del Paese dal 2006 – impresse una svolta significativa alla propria linea politica, dando il via ad una lotta senza esclusione di colpi contro le forze di opposizione, soprattutto quelle in quota arabo-sunnita. A farne le spese fu, nel dicembre del 2011, l’ex vice-presidente iracheno Tariq al-Hashimi, accusato di essere il mandante di una serie di attentati terroristici e condannato in contumacia, in seguito alla sua fuga in Kurdistan e da lì in Turchia e Arabia Saudita. Esattamente un anno più tardi, a cadere nella tela del primo ministro fu Rafi al-Issawi, allora ministro delle Finanze, che – a differenza di al-Hashimi – non sembrava altrettanto coinvolto nel bagno di sangue che aveva travolto il Paese tra il 2005 e il 2008.

L’arresto di al-Issawi rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso. Alimentata dall’esclusione dai pubblici uffici, dagli arresti sommari e dai soprusi che avevano colpito migliaia di esponenti della comunità arabo-sunnita, la crisi esplose in tutta la sua intensità nel nord-ovest del Paese, con intere aree completamente bloccate dalle proteste. Il pugno di ferro adottato dall’esecutivo non fece che esasperare la situazione, dando vita a massacri indiscriminati (come avvenuto ad Hawija nella primavera del 2013, quando gli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza lasciarono sul campo centinaia tra morti e feriti) e traducendosi ancora una volta nell’arresto di un prominente politico sunnita, Ahmed al-Alwani, fermato alla fine dello scorso anno.

Il ruolo dei miliziani islamisti

È all’interno di questo contesto che si colloca il ritorno dello Stato Islamico dell’Iraq (chiamato dalla primavera del 2013 Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, Isis) posto che esso abbia mai realmente abbandonato la terra dei due fiumi. Grazie alla crescente esasperazione della popolazione locale e all’opposizione della gran parte delle comunità sunnite a un esecutivo percepito come ostile, autoreferenziale e schiavo dei voleri di Teheran, i militanti islamisti poterono “rientrare” in Iraq, un passo alla volta. Perché, come già dimostrato tra il 2006 e il 2009, al-Qaida e i suoi simili possono sopravvivere solo in un clima di forte instabilità e con la connivenza, o quantomeno con la non-opposizione, delle comunità ospiti.

Lo spettro dello Stato Islamico dell’Iraq tornò a infestare il Paese: prima la ripresa degli attentati dinamitardi su ampia scala a partire dalla seconda metà del 2012; poi gli assalti nell’estate dello scorso anno alle carceri dove erano detenuti centinaia di jihadisti; e – infine – il tentativo di dar vita (ancora una volta dopo il fallimento del 2007) a uno stato islamico a cavallo tra Iraq e Siria. Uno stato che iniziò a ricostituirsi nel governatorato di al-Anbar alla fine dello scorso anno, con la presa di città come Fallujah e (parzialmente) Ramadi, per poi estendersi gradualmente come una tenaglia a ovest, a nord e a est di Baghdad, penetrando nelle regioni di Niniveh, Diyala e Salah al-Din.

Tutto questo di fronte al silenzio della comunità internazionale e dei principali media – preda di una vera e propria sindrome da damnatio memoriae quando si tratta di Iraq. Sarebbe bastato guardare con attenzione alle elezioni del 30 aprile scorso per capire che qualcosa non stava funzionando. Nonostante le rassicurazioni della autorità, oltre 500.000 civili avevano abbandonato il governatorato di al-Anbar a causa dell’avanzata dei miliziani dell’Isis, formalmente cinti d’assedio da mesi dalle forze armate irachene male addestrate e soprattutto demotivate, in gran parte composte da reparti sciiti tutt’altro che benvoluti dalla popolazione locale.

La situazione attuale

Il resto è cronaca di questi giorni, con l’Isis in grado di muoversi liberamente all’interno di un’ampia striscia di territori che da Mosul si estende verso al-Anbar, Salah al-Din e Diyala. E mentre le forze jihadiste tentano di convergere sulla capitale, i curdi a nord hanno colto l’occasione per estendere la loro protezione a molte delle aree contese con Baghdad, Kirkuk inclusa, segnando una serie di punti che si riveleranno fondamentali per i futuri equilibri dell’Iraq e dell’intera regione. Da Baghdad, invece, le forze lealiste convergono su Samarra, da dove al-Maliki promette la rapida eliminazione degli insorti, grazie anche all’arruolamento di migliaia di cittadini che hanno risposto all’appello della massima autorità religiosa sciita, l’ayatollah al-Sistani, e al sostegno delle vecchie milizie sciite, chiamate ancora una volta a giocare un ruolo di primo piano nel Paese.

A far da sfondo a tale situazione vi sono Washington e Teheran, pronte a intervenire congiuntamente – a dispetto della ritrosia palesata di fronte ai media – per proteggere un Paese che, seppur per motivi diversi, rimane per loro fondamentale.

Cosa resterà dell’Iraq

Ancora una volta lo spettro del conflitto settario e della guerra per procura sembra tornare ad attanagliare l’Iraq che, sin dalla sua formazione, è stato accusato di essere nient’altro che il risultato della hubrys imperiale inglese, prima, e americana poi. Uno stato apparentemente destinato a essere diviso in tre tronconi tra sciiti, sunniti e curdi. Eppure una tale visione non rende onore a un Paese ben più complesso, fatto di minoranze, città, famiglie e regioni miste che non possono essere ritagliate secondo linee settarie.La vera domanda non è, quindi, se l’Isis vincerà o meno, ma cosa rimarrà dell’Iraq. E, soprattutto, se la comunità locale e quella internazionale saranno disposte a operare attivamente e in sinergia per ricostruire e ridefinire l’identità di un Paese che deve ritrovare se stesso, ma che ha radici ben più forti e profonde di quanto si tenda ad ammettere.

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