L'Huffington Post
18/06/2014

Non solo spread e fiscal compact, il Vietnam iracheno ci impone un nuovo discorso pubblico in Europa
di Lucia Annunziata
Direttore editoriale

Le due maggiori società petrolifere americana e inglese, cioè Exxon e Bp, stanno lasciando precipitosamente i loro pozzi petroliferi in Iraq. Stanno cioè lasciando tutto quello per cui avevano voluto, fin dal 1990, la guerra contro Bagdad. Per dirla in termini crudi, crudi come il petrolio di cui si tratta, gli americani e gli inglesi lasciano "il bottino iracheno" pagato con un così alto prezzo in termini di vite e di sconvolgimento politico mondiale. Il precipitoso abbandono fa venire in mente un'altra altrettanto precipitosa partenza, quella degli elicotteri che prendevano quota dal tetto dell'ambasciata americana di Saigon. La somiglianza tra i due eventi è tutt'altro che emotiva: in Iraq si sta consumando in questi giorni il secondo Vietnam americano. Con l'eccezione che questo secondo non è solo americano, ma di tutti noi che a queste guerre abbiamo partecipato. Ora che si avvicina una nuova fase altrettanto drammatica, possiamo fare qualcosa come cittadini e paese, o non ci resta che, come sempre, restare alla finestra?

Segnalo la cosa non per entrare nel gioco delle responsabilità già avviato nel dibattito delle due nazioni che sono state l'asse principale di quella guerra. Se quello che succede oggi sia il frutto della mancanza di visione dei due Bush, della aggressività dei neocon, della vigliaccheria di Blair o del tentennare di Obama. Indipendentemente dal segno politico dei leader che in questi anni hanno guidato i paesi occidentali, e da quello che ognuno di noi cittadini ne abbia pensato (per quel che mi riguarda ho la coscienza posto - ho scritto un libro dal titolo inequivocabile "No" per spiegare la mia posizione ) le due guerre per la conquista di Bagdad sono state un evento epocale che ha ridisegnato la mappa del mondo. La conquista dell'Iraq doveva essere - nella idea dei suoi architetti - la costruzione nel cuore del Medio Oriente della Grande Stabilità, una piattaforma militare occidentale di dimensioni mai prima immaginate, da cui finalmente tenere in riga Iran, Arabia Saudita, Siria, Libano, palestinesi, curdi, e, perché no, anche Israele, e altri stati alleati come Turchia, Egitto e tutti i vari principati del Golfo. Un enorme sforzo, certo, ma che l'Occidente si sarebbe ampiamente ripagato sottraendo il petrolio alle volatili mani di amici e nemici, guadagnandosi così una infinita pace futura.

Invece non c'è stata nessuna quadratura del cerchio. Sono stati decenni di uno smottamento di confini, etnie, religioni, razze, poteri che si è consumato negli anni con l'effetto di una malattia a contagio lento ma inarrestabile, cui nessuno è riuscito a sottrarsi. Decenni di altre guerre, allargatesi a tutti i paesi dell'area, dalla Libia alle rivolte delle primavere arabe represse con sangue, carri armati e torture. Decenni di morti di civili e soldati occidentali di ogni nazionalità religione, inclusi italiani; di attentati mai visti prima, come quello alle Torri Gemelle, appunto; della espulsione di milioni di persone dalle proprie terre, riversatesi in una gigantesca ondata migratoria sulle nostre spiagge. Decenni di nuove radicalizzazioni religiose, di rotture fra stati e razze.

Ma, quel che più conta, sono stati decenni di un progressivo logoramento della coscienza del nostro mondo, di nuovi dilemmi etici e tanti peccati commessi da noi occidentali, torture, rapimenti, illegalità, violazione dei diritti civili e umani, conditi dalla inevitabilità di quella crescita della indifferenza, di quell'indurirsi dei cuori che rimane l'unico luogo in cui possiamo rifugiarci se non vogliamo impazzire.

Sono rimasta dunque sorpresa, lo confesso, che il Consiglio Supremo di Difesa presieduto dal presidente Giorgio Napolitano riunitosi in queste ore abbia colto questo senso della emergenza, del pericolo in cui tutti ci troviamo. Una nota finale dopo la riunione parla senza mezzi termini di "una situazione internazionale che mostra preoccupanti segni di peggioramento". L'elenco che fa di questo nuovo bilico in cui ci troviamo va dall'Ucraina al Sub-Sahara passando per tutto il Medioriente.

Sono rimasta sorpresa perché non è molto facile in Italia infrangere la ossessione del nostro ombelico. Quella che con un errore ottico continuiamo a definire "politica estera" continua a non abitare da noi. Anche ora che il paese vuole cambiar verso, il nostro rapporto con il mondo sembra sempre rimanere lo stesso - di diniego, di rassegnazione, di timore a osare. Come se l'Italia fosse il solito fanciullino che non abita il mondo, o, peggio, come se l'Italia continuasse ad essere il solito yes man di ogni grande o piccola potenza che passa.

Questo è il punto in cui siamo oggi, e questo è quello che voglio segnalare con queste righe. Non mi interessa oggi avviare un ennesimo dibattito sulle responsabilità del dove siamo. Mi interesserebbe molto di più capire se si può fare qualcosa, magari anche piccola.

La prima credo sia avere un nuovo tipo di "discorso pubblico" - nei media, nei giornali, nelle televisioni, ma soprattutto nell'intervento del governo - che avvicini il mondo al paese, alla vigilia di nuove destabilizzazioni. Cosa sta succedendo esattamente in Iraq, in Medio Oriente, cosa produrrà nelle nostre vite? L'Italia ha bisogno di sapere che paese è, di elaborare una nuova idea di se stessa, che vada al di là dei consolatori stereotipi del made in Italy e del paese del turismo e dei tesori artistici. Ha bisogno di una nuova idea della propria posizione nel mondo, che combini business, partecipazione, e rilevanza geopolitica.

Non possiamo avviare il semestre europeo, e non possiamo decorosamente presentarci sulla platea mondiale con la pretesa di essere oggi la nazione capofila del cambiamento in Europa, se non abbiamo da dire qualcosa, oltre che sullo spread e il fiscal compact, su quello che il nostro paese vuole fare in tempi di pace e di guerra

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