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23 giugno 2014

La sfida dell'ISIS in Iraq
di Lorenzo Nannetti

I recenti eventi in Iraq con l’emergere della minaccia dell’ISIS stanno riportando il Paese al centro dell’attenzione. Quali le cause e cosa ci si può attendere? Lo vediamo in 10 punti.

1-I Sunniti in Iraq - L’attuale situazione in Iraq è figlia non solo dell’instabilità nella vicina Siria, ma anche e soprattutto della mala gestione della complessità settaria in Iraq stesso, Paese da sempre diviso in tre aree: approssimativamente Curdi al nord, Sciiti al sud, Sunniti al centro nell’area più povera. Con la caduta di Saddam Hussein, che aveva posto i Sunniti in cima alla gerarchia dello stato, erano stati poi questi ultimi a soffrire l’esclusione. Vivendo nell’area più povera e priva di risorse naturali del paese, da soli non avevano una chance di ricostruzione e sviluppo senza l’aiuto del resto del paese.

2-Gli errori USA -  Colpevoli della mala gestione iniziale gli USA, che avevano sciolto e mandato a casa gran parte dell’esercito iracheno, in particolare le componenti sunnite, senza fornire loro un’alternativa di impiego civile. Come successe all’Italia unita dopo il 1861, sciogliere un esercito (nel nostro caso fu quello delle Due Sicilie) in questo modo significa creare le premesse per una forte resistenza armata da parte di chi, senza altra prospettiva, trova la lotta armata come unica via d’uscita. E così fu.

3-La chiave giusta - Lo aveva capito Petraeus che questa era la chiave per la pacificazione del paese: dopo anni di aspra lotta il generale americano cambiò la rotta della strategia USA e riuscì a ridurre quasi del tutto il terrorismo di Al-Qaeda in Iraq tramite i Sahwa (“consigli del risveglio”), ovvero milizie sunnite che, disgustate dalla violenza dei terroristi anche verso la popolazione, avevano accettato di lottare al fianco degli americani, chiedendo in cambio una maggiore considerazione politica e l’inclusione nelle forze armate regolari di gran parte delle milizie stesse. Nel 2011, il paese poteva considerarsi quasi pacificato.

4-Gli errori di al-Maliki - Non lo aveva capito, o forse preferì ignorarlo per motivazioni politiche, il premier Nuri al-Maliki, sciita, che con l’uscita di gran parte delle forze americane nel 2011 ha implementato una politica settaria volta nuovamente all’esclusione dei sunniti dal potere e da tutti i posti chiave, estromettendo le figure politiche ad essi legate e rimangiandosi tutte le promesse di Petraeus. Esclusi da tutto, la rivolta armata rimaneva per i sunniti l’unico, logico esito. Nasce così l’insurrezione sunnita nel paese che è attiva oggi, della quale l’ISIS non è l’unica espressione, ma sicuramente quella più eclatante, estrema e, come visto recentemente, “di successo”, oltre ad essere l’unica “esportata” al di fuori del paese, in Siria. Del resto la cosa non deve stupire: nel mondo sono proprio le aree a difficile condizione socio-economica, dimenticate dalle istituzioni, a essere le più adatte per la nascita e il proliferare di movimenti estremisti.

5-L’ISIS - L’ISIS, come tanti altri casi simili in altre parti del mondo (ad esempio in Mali), è composto principalmente da guerriglieri altamente motivati armati principalmente alla leggera con pochi veicoli da combattimento degni di questo nome, anche se non mancano apparecchiature e armi più sofisticate ottenute dalla conquista di Mosul e di altre basi dell’esercito iracheno. La sua forza attuale è però proprio il suo entusiasmo e recente successo, che attirerà tra l’altro probabili donatori di fondi tra coloro (principalmente emiri e ricchi affaristi del Golfo Persico) che hanno sempre aiutato le formazioni estremiste islamiche nei loro momenti di maggior fama.

6-Entusiasmo e fragilità - E’ però un equilibrio altrettanto fragile, che generalmente funziona solo contro avversari deboli e mal motivati. L’ISIS ha già incontrato difficoltà in Siria, spesso sconfitto da Jabhat al-Nusra, l’altro movimento estremista, e dai Curdi siriani, e comunque incapace di imporsi globalmente nel paese davanti a resistenze organizzate. I suoi buoni risultati lì sono dovuti anche alla scelta politica di Bashar al-Assad di ignorare l’ISIS per favorirlo contro le altre formazioni ribelli e screditare quindi l’opposizione. In generale, è plausibile che il successo dell’ISIS in Iraq continui solo fino a che non venga loro rivolta una risposta militare decisa – allora i loro limiti strutturali verranno a galla e le prime serie sconfitte minerebbero proprio quell’entusiasmo e quell’attrattiva che il movimento ha ora.

7-Il fattore Kurdistan - Da dove verrebbero questa resistenza e questa reazione? Innanzi tutto dal nord: gli stessi Curdi iracheni, ben organizzati, armati e addestrati, sono un ostacolo insormontabile che fa preferire all’ISIS il rivolgersi verso sud. Hanno ripreso Kirkuk, importante centro petrolifero, e potrebbero decidere di recuperare la stessa Mosul. La città, per i Curdi, ha una duplice importanza: è una città dove i curdi sono % rilevante della popolazione; nei suoi dintorni passa uno dei più importanti oleodotti per l’esportazione di petrolio proprio da Kirkuk verso la Turchia. I Curdi hanno dunque interesse a intervenire, almeno limitatamente, anche di propria spontanea volontà. Allo stesso modo governo iracheno e USA potrebbero chiedere il loro intervento. Certo è che il “prezzo” istituzionale per, eventualmente, intervenire – o per restituire ciò che nel frattempo hanno liberato e che non vorranno abbandonare tanto presto – potrebbe essere molto alto e includere maggiori autonomie (ma non l’indipendenza, che comunque non è più una priorità).

8-Iraq e Iran - L’asse anti-ISIS dunque vedrà in prima linea il governo iracheno che dovrà impegnare forze considerevoli e assicurarsi che siano le truppe migliori ad operare, per evitare capitolazioni impreviste o fughe pericolose di unità poco motivate. L’Iran, interessato alla stabilità del Paese sia per supporto al governo sciita (che garantisce a Tehran una certa influenza) sia per evitare che diventi un nuovo avamposto di forze sunnite legate all’Arabia Saudita, invierà consulenti, addestratori e, forse, anche forze paramilitari (Basiji o perfino Pasdaran, probabilmente sotto mentite spoglie) che evitino di mostrare un intervento diretto in Iraq ma aiutino l’Iraq nella lotta. Con più alto morale e capacità di combattimento, potrebbero rivelarsi decisive sul campo. Le milizie paramilitari sciite locali presenti in Iraq (come quella che, anni fa, mostrava i muscoli nel paese sotto la guida del chierico sciita Moqtada al-Sadr) saranno un altro elemento di contrasto che potrebbe entrare in gioco, per quanto indichino anche una debolezza del governo centrale a garantire la sicurezza con sole forze convenzionali.

9-E gli USA? - Gli USA invece non hanno intenzione di usare truppe di terra in quantità dopo essersene andati solo qualche anno fa. Ma manderanno addestratori, consulenti e qualche reparto di forze speciali che, all’occorrenza, possa compiere raid mirati. Poi ci sarà, plausibilmente anche se non è stato ancora formalizzato, un aiuto aereo: i gruppi estremisti sono vulnerabili alle ricognizioni aeree e agli attacchi dal cielo che ne mettono in crisi gli spostamenti, i rifornimenti e le linee di comunicazione. Se questa combinazione di sforzi anti-ISIS avverrà, il movimento non resisterà a lungo e rimarrà limitato alla Siria e ad aree difficilmente controllabili al confine con lo stesso, ma è ancora da verificare se tutti gli attori in gioco siano convinti dello stessa necessità di sforzo e dunque, prima di ogni valutazione sarà necessario aspettare gli esiti sul campo, ancora incerti.

10-Il problema non è solo militare - Lo sforzo anti-ISIS è appoggiato da gran parte della comunità internazionale, inclusa la Cina che del petrolio iracheno ha bisogno, soprattutto in prospettiva futura, e certamente non vuole che tensione geopolitiche mettano a rischio prezzi e riserve. Ma la vera partita non è solo militare: anche sconfitto l’ISIS, serve una nuova politica che includa nuovamente i sunniti nelle istituzioni e nel governo del Paese, ascoltando le rimostranze di quei gruppi di ribelli che non sono estremisti ma che comunque si sentono costretti alla lotta. Da qui nasce la forte critica ad al-Maliki, e la richiesta USA che egli venga sostituito da qualcuno che cambi rotta. Altrimenti si sarà curato il sintomo, ma non la malattia dell’insurrezione sunnita: nuovi gruppi nasceranno, evolveranno e potranno diventare altrettanto pericolosi.

 

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