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4 agosto 2014

I partiti israeliani divisi su una soluzione per Gaza
di Enzo Amendola

I deputati italiani oggi hanno incontrato i rappresentanti della Knesset. Emerge il ruolo del nuovo segretario generale dei laburisti Hilik Bar: «Siamo contro la visione della destra che legge il mondo arabo compatto contro Israele»

La triste particolarità di chi viaggia in Terrasanta – in questi giorni di guerra nella Striscia di Gaza – consiste in una dotazione aggiuntiva di pazienza per comprendere le ragioni politiche di chi non la pensa come te.

Sia chiaro, non è una questione di etichetta, specialmente quando a pochi chilometri centinaia di morti innocenti e sofferenze gelano il sangue nelle vene. La ricerca di una soluzione politica che faccia cessare le armi deve innanzitutto convincere la parte forte di questa “guerra asimmetrica”, trovando terreni d’incontro o di scontro con i decisori politici israeliani.

In queste ore tutto è complicato per la diffidenza locale verso l’esterno, il sospetto verso chi non comprende le finalità dell’invasione di Tsahal e una rabbia per il lancio dei razzi di Hamas e Jihad islamica che spesso, accusano, fuori da Israele viene sottaciuto. Non ho mai giustificato il lancio di ordigni dalla Striscia, ma considerare “danni collaterali” di un’azione di self-defense innocenti, ostaggi di una guerra che non hanno voluto, è intollerabile.

Visitando la Knesset e i ministeri israeliani a Gerusalemme, con la delegazione della commissione esteri del parlamento, le sorprese e la complessità nei ragionamenti aumentano.

«Dopo la guerra, forse la pace?», si chiede Barak Ravid dalle colonne di Haaretz. Una domanda ottimista in quanto, ad oggi, non c’è nessuno sviluppo nelle due direzioni. Le ipotesi si moltiplicano e i punti di vista riaccendono un dibattito tra i partiti di maggioranza e opposizione sopito durante l’operazione militare. Su questa traccia ho scambiato opinioni con vari esponenti politici.

Il presidente del parlamento israeliano Yuli Edelstein è un esponente del Likud con una biografia sui generis. Nato in Russia da genitori ortodossi si collegò all’ebraismo tramite antiche radici familiari studiando l’ebraico clandestinamente. Non a caso è uno dei più famosi refusnik dell’ex Unione Sovietica, arrestato e condannato a tre anni di gulag nel 1984 da dove, dopo la liberazione, scappò in Israele. Oggi Edelstein, che vive in una colonia in territorio palestinese, prova a fare i conti con una situazione politica incandescente: «Il nostro unico nemico si chiama Hamas ma vogliamo aprire agli arabi moderati saldando una alleanza con Egitto ed altri contro il terrore. Un’alleanza che se funziona isolerà Hamas e ridarà forza ad Abu Mazen».

Un refrain che per tutto il giorno, come in un passaparola, riascolteremo da altri membri influenti della Knesset.

«Credetemi – conclude Edelstein – oggi su questa linea del dialogo, dopo l’intervento a Gaza, c’è una consistente maggioranza in parlamento trasversale ai partiti di governo e di minoranza». Come non volergli credere, peccato che la stessa maggioranza della Knesset per mesi ha ritenuto Abu Mazen incapace di mantenere gli accordi.

Lo ripetono con toni più accorti anche oggi deputati della commissione esteri e difesa guidata da Zeev Elkin, quasi come se fossero impreparati a tornare indietro da una retorica anti Autorità Palestinese usata da tempo (nel mentre si discute due attentati fanno salire l’allarme sicurezza a Gerusalemme radicalizzando le posizioni espresse).

Infatti, la destra al governo ne ha fatto una bandiera l’assenza di partner per la pace, con una competizione dai toni duri tra gli alleati e separati in casa del Likud di Netanyahu e Israel Beitenu (“Casa nostra Israele”) della destra radicale capeggiata dal ministro degli esteri Avigdor Liberman.

Ironia tragica della storia per i fratelli coltelli al governo, che devono da un lato difendere i propri convincimenti militari di sempre, ma cercano rumorosamente, dall’altro, una exit strategy politica dal conflitto. Entrambi sanno che questa via non può non passare dal negoziato con il bistrattato Abu Mazen e con i leader arabi moderati di un Medio Oriente in fiamme.

La sinistra d’opposizione divisa tra Laburisti e Meretz ha assecondato la reazione militare contro Hamas, in una posizione che agli occhi di militanti progressisti europei desta scalpore, figlia di un consenso popolare israeliano altissimo a favore degli attacchi su Gaza. Solo adesso che si intravede la prevedibile necessità di una uscita politica rialzano la testa e provano a dividere la compagine al governo forzando Netanyahu e i partiti centristi di Tzipi Livni e Yair Lapid a rompere con le tesi oltranziste di Israel Beiteneu.

Non a caso la leader della sinistra pacifista di Meretz, Zahava Gal-On, critica non la conduzione dell’operazione militare del governo ma la sua decisione di ritirarsi senza partecipare al negoziato al Cairo: «È il ritorno alla vecchia strategia di Netanyahu, gestire la disputa militare escludendo il negoziato di pace», commenta offrendo anche un’altra ipotesi: «Senza rafforzare i moderati palestinesi e mettere pressioni ad Hamas nel negoziato, senza riconoscere che la soluzione per Gaza passa per Ramallah, Hamas rischia di rafforzarsi e non di indebolirsi».

Il partito laburista ha dato una linea di credito a Netanyahu durante l’operazione militare e i distinguo iniziano solo ora, perché dopo il colpo inferto ad Hamas «siamo in un momento intermedio dove il ritorno alla calma e alla demilitarizzazione di Gaza non è assicurato – ragiona Isaac Herzog, presidente del Labour, formulando uno slogan accattivante – Adesso dopo protective edge serve un diplomatic protective edge, poiché non esiste una soluzione militare a lungo termine senza un accordo diplomatico».

Il Labour israeliano da tempo ha perso la centralità nella vita politica malgrado una storia gloriosa di leader e uomini che scelsero la pace come Rabin. Tra scissioni, divisioni e candidature a premier deboli nelle ultime due elezioni, ha una posizione difficile per risalire la china conquistando fiducia in un popolo con forti fratture sociali ma unito nella avversità ai nemici esterni.

Un po’ di ripresa la vuole organizzare la nuova generazione che si affaccia alla guida del partito, a cominciare dal quarantenne Hilik Bar, segretario generale dei laburisti e vice presidente della Knesset. «Noi siamo ad un punto delicato con la de-escalation delle operazioni a Gaza. Non nascondiamo il via libero dato al premier contro Hamas. Però siamo contro la visione della destra che legge il mondo arabo compatto contro Israele. Ho chiamato Netanyahu e gli ho detto di rispondere all’iniziativa e alle proposte per la pace che provengono dalla Lega araba. Adesso si è aperta una possibilità d’intesa necessaria che interessa molti nella regione per mettere gli estremisti fuori gioco e noi non possiamo lasciarla sfuggire – continua Bar – Adesso dobbiamo tornare al tavolo con Abu Mazen per dare un ulteriore schiaffo ad Hamas».

Come non volergli credere, ma conosciamo tutti molte delle resistenze israeliane al tavolo dei negoziati. Una su tutte, quella delle colonie in territorio palestinese da citare in cifre: nel 2013 gli insediamenti sono cresciuti del 123% rispetto al 2012 e nei nove mesi dei negoziati israelo- palestinesi su iniziativa Kerry (luglio 2013 – aprile 2014) sono stati promossi piani per la costruzione di 8.983 unità abitative e pubblicati bandi per altre 4.868 a Gerusalemme est e in Cisgiordania, per un totale di circa 14.000 unità, a cui si aggiungono innumerevoli avamposti.

Non recede Hilik Bar: «Bisogna tornare a negoziare e se non lo vuole fare Netanyahu, si togliesse da mezzo e lasciasse spazio ad una nuova generazione».

Me lo auguro per lui ma soprattutto per chi non si arrende alla via della pace.

2 – continua

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