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19 giugno 2014

Shock nel Paese che teme un nuovo caso Shalit.
di Fabio Scuto

Tra le strade di Hebron, la città sotto assedio, in cerca dei ragazzi rapiti. I giovani postano l’hashtag “bring back our boys”

Hebron - Un sole impietoso flagella la strada, una luce accecante rimbalza dai palazzi di pietra bianca. Auto ferme e strade deserte, i caffè, i negozi, le fabbriche di ceramica e di vetro famose in tutto il Medio Oriente, sono sbarrati. Due cani randagi frugano fra i mucchi di immondizie abbandonate sulla strada. Benvenuti a Hebron, la città sotto assedio da sei giorni. Più di metà degli oltre 250 uomini di Hamas arrestati in risposta al rapimento di Eyal, Gilad e Naftali — i tre seminaristi ebrei scomparsi giovedì scorso in un incrocio alle porte della città — sono stati prelevati dalle case qui attorno. Uomini del Sayeret Matkal, i reparti speciali dell’Esercito, frugano in ogni casa sospetta, magazzino, cantina, negozio, pollaio, dell’abitato.

Nelle colline circostanti si vedono i mezzi militari muoversi nelle campagne. L’Unità 669, specializzata nelle ricerche, e una brigata di paracadutisti stanno cercando in fattorie, grotte, pozzi, granai, mulini e cisterne dell’acqua, la possibile prigione. Perché i generali che comandano le operazioni sono convinti che i tre studenti israeliani siano ancora tenuti prigionieri nell’area urbana o nelle vicinanze, da sempre un caposaldo di Hamas.

Soltanto qualche mese fa qui circolava un manuale di Hamas — che considera il sequestro di israeliani l’arma migliore per ottenere il rilascio dei palestinesi detenuti in Israele — di 18 pagine a circolazione interna dal titolo “Guida per il rapitore”, con suggerimenti e consigli ben dettagliati.

Al sesto giorno Israele si consuma nell’ansia di quest’attesa, di un segnale, un indizio, una rivendicazione. I rapimenti degli islamisti non sono una novità, ma il fatto che questa volta riguardi tre giovani seminaristi, usciti dalla yeshiva quasi inconsapevoli dei rischi legati al fatto di attraversare a tarda sera un territorio ostile, pieno di minacce, ha colpito l’immaginario collettivo. Soprattutto i giovani, i ragazzi israeliani hanno reagito con forte emozione. In migliaia stanno postando il loro sostegno all’hashtag “Bring back our boys”, lo hanno fatto anche due giovani arabiisraeliani che abitano a Nazareth e che per questo hanno ricevuto minacce di morte.

L’esercito non si fermerà finché «non avrà messo le mani sui rapitori e non avremo riportato a casa i ragazzi», ha promesso ieri il ministro della Difesa Moshe Yaalon, che ha incontrato alcuni parenti dei giovani scomparsi che hanno potuto ascoltare la registrazione della telefonata che uno di loro ha fatto giovedì notte al centralino della Polizia, sussurrando: «Siamo stati rapiti». La Polizia spera che le famiglie, ascoltandola, si rendano conto quanto fosse difficile capire dalla telefonata che si trattava di una richiesta di soccorso reale e non di uno scherzo, come è spesso accaduto in passato e accade in questi giorni.

Negli istituti religiosi, fra gli amici, i parenti, si susseguono le preghiere collettive per un loro rapido ritorno a casa. Tutti si sono stretti a fianco delle famiglie. Ieri i compagni di studi di Eyal, il più grande dei tre, han-

no portato ai suoi genitori un filmato girato le scorso Purim ( il carnevale ebraico), in cui si vede Eyal che nella tradizionale recita della festa, che interpreta la parte di un soldato che libera ostaggi rapiti. Certamente non ha mai pensato che un giorno, non lontano, si sarebbe trovato in un contesto simile ma nella parte della vittima.

Il presidente palestinese Abu Mazen, si sente pugnalato alla schiena dal coinvolgimento di Hamas nel rapimento ad appena due mesi dalla “riconciliazione”. «Chi lo ha compiuto vuole distruggerci» ha detto ieri mattina al vertice arabo di Jedda, ricevendo in cambio da Gaza l’accusa di tradimento dal portavoce degli integralisti. Perché anche gli uomini del generale Adnan Al Damiri, il capo dei servizi segreti palestinesi, stanno collaborando alla ricerche dei rapiti e sono stati discretamente sguinzagliati per la città. All’appello degli arrestati in città mancano due boss delle Brigate Ezzedin Al Qassam — il braccio armato di Hamas — che da giovedì, il giorno del rapimento, sono scomparsi nel nulla e potrebbero essere coinvolti.

Ma il “colpo” sarebbe stato fatto da un piccolo gruppo criminale attivo nel furto di auto legato ad ambienti integralisti e salafiti. In città due anni fa è stata sgominata una cellula composta da sei persone, uccisi in due scontri a fuoco. Mohammed Nairuk, il loro leader, era stato espulso due anni prima da Hamas per il suo «estremismo religioso». Questi gruppi di solito operano in cellule molto piccole, non predicano il loro messaggio e non raccolgono fondi dalla gente. Per questo rintracciarli è un compito particolarmente difficile.

«Arriveremo ai rapitori, è solo questione di tempo», promette anche l’ufficiale che comanda il plotone schierato all’ombra del complesso della Tomba dei Patriarchi. Ma di tempo non ne resta molto, fra meno di dieci giorni inizia il Ramadan — mese sacro per i musulmani e sempre già gravido di tensioni — e non sarà possibile fare operazioni militari di questa ampiezza in Cisgiordania senza suscitare la reazione della popolazione palestinese. E anche Israele ha fretta di risolvere il “caso”, nessuno dei suoi politici vuole trovarsi di fronte ad un nuovo caso Shalit, il soldato rapito a Gaza e liberato dopo cinque anni di prigionia in cambio della liberazione di più di mille detenuti palestinesi, buona parte dei quali in questi giorni è tornata in cella.

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