http://www.ilcaffegeopolitico.org
1 luglio 2014

Riflessioni dopo l’operazione “Guardiano di mio fratello”
di Lorenzo Nannetti

L’analisi degli eventi fornisce questi spunti di riflessione:

1) Israele aveva mal digerito il governo di coalizione tra Fatah e Hamas lanciato dal Presidente palestinese Abu Mazen in seguito al fallimento dell’iniziativa di pace USA guidata dal Segretario di Stato John Kerry. Lo sforzo per il ritrovamento dei tre ragazzi rapiti ha fornito a Netanyahu l’occasione per screditare Hamas e procedere a un forte smantellamento delle sue strutture in Cisgiordania. Non è tuttavia realistico pensare che l’intera questione sia stata montata ad arte da Israele come sostengono alcuni esponenti palestinesi: gli indizi sul campo indicano il contrario.

2) Hamas, dal canto suo, non aveva interesse ad alzare i toni dello scontro organizzando e autorizzando il rapimento, nonostante i probabili colpevoli indicati da Israele, Marwan Qawasmeh e Amer Abu Aisha, siano suoi affiliati. Al tempo stesso però il movimento non ha ascoltato le richieste internazionali di rinuncia pubblica alla resistenza armata quando ha formato il governo di unità nazionale: in altre parole, il suo linguaggio comunque ostile verso Israele contribuisce a mantenere un forte desiderio di rivalsa e vendetta tra i suoi affiliati. E’ opinione di chi scrive che Qawasmeh e Abu Aisha possano aver agito da soli, e difficilmente Hamas avrebbe potuto preventivamente fermarli, tuttavia il movimento non ha mai assunto posizioni di condanna verso azioni simili (anzi in passato auspicandole in altri casi, vedi Gaza).

3) A questo si aggiungano le tensioni tra comunità palestinesi e di coloni ebrei in Cisgiordania, spesso caratterizzate anche da attacchi degli stessi coloni contro i villaggi palestinesi (inclusi gli attacchi “price tag” volti a punire i palestinesi per ogni concessione loro rivolta dal governo israeliano). In tale ambito di forte ostilità e prevaricazione, nonostante gran parte dei palestinesi nella West Bank non approvi più i mezzi violenti, il sentimento di vendetta fa ancora breccia tra le teste calde.

4) Questo si lega alla mancanza di una politica di riconciliazione da entrambe le parti, e alla decisione del governo Netanyahu di continuare nell’espansione delle colonie in Cisgiordania, contro le richieste della comunità internazionale. Non volendo affrontare le conseguenze di una crisi politica interna (Likud e Habayit Hayehudi, tra i maggiori partiti che lo sostengono, sono spesso pro-colonie, soprattutto il secondo), Netanyahu preferisce affrontare piuttosto le tensioni con i palestinesi. Questa visione che guarda molto al breve termine ma manca di soluzioni di lungo termine è peraltro comune nella strategia israeliana, ma porta con sé una sorta di “condanna” a eterne tensioni e indica un’incapacità di trovare soluzioni durature al conflitto.

5)  Anche la reazione di Hamas paga però una miopia di breve termine: l’unico modo che il movimento ha trovato per reagire è stato il lancio di razzi da Gaza, inutili per numero ed efficacia e capaci solo di scatenare la rappresaglia israeliana anche in quella direzione. Anche qui si tratta di una sorta di ammissione di non sapere che fare oltre a un’incapacità di cambiare il proprio cammino verso l’abbandono della resistenza armata, che ben pochi vantaggi ha portato negli anni.

6) Da parte palestinese chi viene marginalizzato è proprio il Presidente Abu Mazen, impossibilitato a fermare le operazioni israeliane e costretto di fatto a scaricare Hamas per non condividerne il fato.

SCENARI – Che succederà ora? Molte sono le possibilità. Gli Israeliani hanno proceduto a cinturare Hebron, da dove provengono i due presunti colpevoli, demolendone le case e scontrandosi con gruppi di palestinesi che protestavano per l’operazione. La morte del giovane palestinese Yousef Abu Zagha, colpito durante questi ultimi scontri, è indicazione di come le tragedie, per entrambe le parti, potrebbero non finire presto.

A livello politico la comunità internazionale ha espresso cordoglio ma ha anche invitato a non aumentare né le provocazioni né le rappresaglie. Da parte israeliana invece è in corso un forte dibattito tra chi, Tzipi Livni e Yair Lapid in testa (rispettivamente Ministro della Giustizia e Ministro delle Finanze), vorrebbe un atteggiamento più moderato e chi, come molti esponenti del Likud di Netanyahu e di Habayit Hayehudi, incluso il suo leader Naftali Bennet, vorrebbero una rappresaglia massiccia contro Hamas e la reintroduzione degli omicidi mirati dei suoi leader.

Difficile capire ora quale sarà la scelta, ma due cose sembrano più probabili. Innanzitutto Israele non può non reagire, o Netanyahu perderà la faccia davanti al Paese arrabbiato e a una parte importante della sua maggioranza. Secondariamente l’obiettivo saranno probabilmente Gaza e i singoli leader di Hamas, mentre, salvo sorprese, si ridurranno progressivamente le operazioni in Cisgiordania per non compromettere le relazioni internazionali. Tuttavia, come fa notare Gershon Baskin dell’Israeli Palestine Center for Research and Information (IPCRI), Israele può anche far fuori Hamas a Gaza, ma questo non risolverà il problema. Il rischio è che si cerchino ancora soluzioni a breve termine, mediaticamente forti, guidate da rabbia e paura, ma senza affrontare i veri nodi alla base della questione Israelo-Palestinese, che comporterebbero sacrifici politici soprattutto interni da entrambe le parti.

 

top