Scontri tra manifestanti pro-Israele e pro-Palestina ad Haifa: video
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ago 4 2014

Perché la società israeliana è sempre più razzista
di Philip Kleinfeld

In Israele, razzismo ed estremismo stanno esplodendo. Tutto si è reso più evidente poco dopo il rapimento di tre ragazzi israeliani—Naftali, Gilad e Eyal—che ha condotto all'attacco su Gaza in cui sono rimasti uccisi più di 1500 palestinesi. Una pagina Facebook che inneggiava all'uccisione dei palestinesi è diventata virale. In una foto, un soldato imbraccia un'arma mostrando la scritta "vendetta" sul petto. In un'altra, due ragazze sorridono reggendo un foglio che recita, "Odiare gli arabi non è razzismo, è un valore."

Qualche giorno più tardi, durante un funerale a Modin, il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu ha rincarato la dose. "Che dio possa vendicare il loro sangue," ha detto rivolgendosi ai presenti. "Satana non ha ancora ideato la vendetta per il sangue di un bambino," ha poi twittato.

Il desiderio di vendetta non si è limitato alle parole. Nelle settimane successive, su internet hanno iniziato a circolare sempre più video in cui gruppi di destra in marcia per le strade, da Gerusalemme a Beer Sheva, sventolavano bandiere e urlavano "Morte agli arabi!"

Molte di queste azioni si sono concluse con attacchi fisici. A Gerusalemme ovest, due arabi sono stati aggrediti mentre effettuavano delle consegne a un alimentari. Il giorno successivo, altri due, Amir Shwiki e Samer Mahfouz, sono stati picchiati da un gruppo di 30 giovani israeliani armati di bastoni e barre di metallo.

Ad Haifa, una città solitamente presentata come modello di coesistenza liberale, una manifestazione che denunciava gli attacchi su Gaza a cui partecipavano molti attivisti ebrei è stata attaccata da 700 persone armate. Questo dimostra che i destinatari degli attacchi non sono solo gli arabi d'Israele, i quali tuttavia hanno sempre la peggio.

Un mese fa, a Gerusalemme Est, alcuni uomini, mossi dal desiderio di vendetta, hanno bruciato vivo il giovane Mohammed Abu Khdeir. Per alcuni la sua morte è stata un'aberrazione, un atto senza precedenti commesso da militanti dell'estrema destra israeliana. "Cosa ci è successo?" si è chiesto un mio parente israeliano quella sera, sconvolto dal fatto che qualcuno con "valori ebraici" fosse stato capace di un simile atto.

Se da una parte alcuni eccessi possono essere interpretati come reazioni all'uccisione di Naftali, Gilad e Eyal, questa violenza non è esattamente una novità. Basta pensare al caso di Jamal Julani. Jamal era a piedi per Gerusalemme, in piazza Zion, quando un gruppo di giovani ebrei, uno dei quali di appena 13 anni, l'ha circondato e preso a calci alla testa. In quella sera di settembre del 2012 in piazza c'erano decine di persone, ma nessuno, nemmeno un poliziotto che ha assistito alla scena, ha deciso di intervenire. All'arrivo dell'ambulanza ci sono voluti dieci minuti di defibrillazione e massaggio cardiaco per ristabilire le condizioni del giovane. L'effetto delle percosse era stato tale che i medici credevano fosse già morto.

"Gli assassini di Abu Khdeir non sono 'ebrei estremisti'," recitava un editoriale di Hareetz. "Sono i discendenti e i fondatori di una cultura di odio e vendetta nutrita dai leader dello 'Stato Ebraico'."

Quella israeliana non è mai stata la società libera e aperta che il Paese cerca in tutti i modi di promuovere. Il razzismo non è nato con l'omicidio di Mohammed Abu Khdeir o il pestaggio di Jamal Julani. "La dottrina sionista ha sempre spinto la società in una direzione molto particolare," mi ha spiegato al telefono lo studioso Marcelo Svirsky. Ma le cose stanno peggiorando. "Al momento nelle varie città israeliane si registra un fenomeno che non avevo mai riscontrato nei 25 anni che ho passato in Israele."

Uno degli aspetti che più colpiscono di questo "fenomeno" è la giovane età di chi vi prende parte. Quelli che sostengono iniziative sui social media, che si rendono protagonisti di episodi di linciaggio o attaccano manifestazioni di sinistra armati di spranghe e catene sono principalmente giovani—molti dei quali sulla ventina, se non minorenni.

Qualche settimana fa l'attivista e giornalista David Sheen ha pubblicato uno Storify intitolato “Terrifying Tweets of Pre-Army Israeli Teens”, composto da tweet che contenevano il termine "Aravim" (termine ebraico per "arabo"). Il risultato è un trionfo di travasi di bile accompagnati dai grotteschi selfie di adolescenti.

Cosa sta succedendo? Per chi ha una certa familiarità con la politica israeliana, la risposta potrebbe essere ovvia. Nel mese appena passato gli episodi di razzismo che hanno visto coinvolti politici e figure religiose sono stati innumerevoli. È il caso di Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri che ha invitato gli israeliani a boicottare le attività di arabi contrari alle operazioni su Gaza. O di Ayelet Shaked, esponente politica della Casa Ebraica e membro della Knesset, che avrebbe inneggiato all'uccisione delle madri dei "serpenti" palestinesi. "Dovrebbero seguire l'esempio dei figli," ha detto

"Quelle parole non sono affatto estranee al dibattito israeliano," mi ha spiegato Sheen. "Nel tradurle ci si rende conto di quanto siano orribili, ma prese nel contesto israeliano non hanno nulla di scioccante."

Gli attacchi di "price tagging" nei confronti di chi si schiera contro i coloni sono cresciuti, il tutto senza che la polizia prendesse alcun provvedimento. Le ronde di organizzazioni estremiste come Lehava, che riceve finanziamenti pubblici, si sono diffuse in tutto il paese per impedire a ebrei e arabi di intrattenere relazioni amorose. Forse le vittime più colpite sono però i profughi sub-sahariani. Dalle decine di rabbini che hanno ordinato ai fedeli di non affittare case agli africani fino a politici come Eli Yishai, il ministro degli Interni ultra-ortodosso che nel 2012 aveva detto di volerli rinchiudere "per rendere la loro vita miserabile, almeno finché non potrò deportarli," tutti si sono schierati contro questa componente della società.

"Entrambi i governi Netanyahu sono responsabili di aver promosso il razzismo," ha aggiunto Svirsky. "Hanno messo in atto una lunga serie di norme contro l'eguaglianza e contro gli arabi, norme per ogni aspetto della vita. È per questo che nel dibattito politico è diventato assolutamente normale dar voce a punti di vista estremi. L'ossessione per uno stato ebraico ha trascinato la società israeliana in un abisso razzista."

Forse le cose sarebbero leggermente diverse, se la norma proposta del 2013 dal partito sionista di sinistra Meretz circa l'introduzione di corsi sul razzismo nelle scuole fosse andata a buon fine. Il tutto era nato dal parlamentare arabo-israeliano Issawi Frej dopo che un parco giochi di Rishon Letzion aveva dichiarato di avere giorni separati per l'apertura delle sue strutture a scuole arabe ed ebraiche "al fine di evitare conflitti." La Knesset ha respinto la proposta.

Il timore di Issawi faceva eco a quello che altri avevano sostenuto per anni. Secondo un recente studio Friedrich-Ebert-Stiftung, metà dei liceali ebrei israeliani sostiene che gli arabi di Israele non dovrebbero godere degli stessi diritti degli ebrei. Di quanti identificatisi come praticanti, metà ha definito legittimo l'ormai familiare slogan "Morte agli arabi."

Nel 2010 un gruppo di docenti aveva inviato una petizione al Ministero dell'Istruzione esponendo questi timori. "Non possiamo rimanere in silenzio di fronte alla crescente presenza di episodi di razzismo tra le mura scolastiche," scrivevano. "In quanto educatori dobbiamo lanciare un allarme. Razzismo e crudeltà tra i giovani israeliani sono in aumento."

Secondo Sheen molti insegnanti israeliani, soprattutto di materie civiche, hanno paura anche solo ad affrontare il tema dei diritti umani. Quest'anno Adam Verete, il docente che ha definito "immorale" l'IDF, è stato portato in tribunale e licenziato in seguito alle lamentele di uno studente contrario alle sue idee "di estrema sinistra." 

Militarismo e nazionalismo sono parte integrante del sistema d'istruzione israeliano, e ricorrono tra libri di storia, cartine sui muri e vignette che ritraggono i palestinesi sul dorso di cammelli. Ma sotto l'occhio di Netanyahu, la situazione sembra degenerata. La prima iniziativa di spicco dell'ex ministro dell'Istruzione Gideon Sa’ar prevedeva l'introduzione di un programma destinato a suscitare ancora più entusiasmo per l'esercito.

"Prestare servizio nell'IDF non è solo un obbligo, ma un privilegio e un valore sociale," aveva dichiarato Sa'ar all'epoca. "La connessione tra il sistema educativo e l'esercito verrà rafforzata all'interno del programma da me creato." I fondi per l'educazione civica, un'area che per quanto limitata offriva un dibattito su Israele e i suoi valori democratici, sono stati tagliati a favore di un curriculum di studi a forte influenza dell'ebraismo ortodosso. Per accrescere il sostegno all'espansione delle colonie sono state introdotte gite a Hebron, mentre i riferimenti al punto di vista palestinese presenti nei libri di testo vengono via via epurati.

"Negli anni Novanta e primi Duemila ci sono stati dei tentativi di concentrarsi maggiormente sui fatti," mi ha spiegato Nurit Peled-Elhanan, docente di lingua alla Hebrew University di Gerusalemme. "Ci si è sforzati di adottare un approccio più accademico e scientifico, di parlare dei palestinesi, anche se l'ideologia di fondo era la stessa. Oggi siamo tornati a una storia semplificata e al mero indottrinamento. Stiamo tornando indietro."

Anche se Israele rimane un paese multiculturale, arabi ed ebrei vivono vite completamente separate. Nei confini del 1948 sono solo cinque le scuole non segregate in cui i bambini possono incontrarsi e conoscersi. Nei territori occupati, le barriere fisiche introdotte dopo la Seconda Intifada sembrano andare in direzione dell'eliminazione di qualsiasi possibile contatto.

"Prima avevano molte più opportunità di conoscersi," commenta Sheen. "Ora abbiamo un'intera generazione, quella espressa molto bene dai tweet, che non ha mai nemmeno conosciuto un palestinese."

Al di là delle barriere fisiche, quelle mentali sono talvolta ancora più forti. "Sono cresciuta senza conoscere un singolo palestinese," mi ha detto Peled-Elhanan. "Non avrei dovuto far altro che andare dall'altra parte della città, ma non ci ho mai pensato. Era l'educazione che ricevevamo—se davvero esistono, i palestinesi esistono sotto forma di ostacolo."

Israele sfrutta volentieri lo stato di "unica democrazia" del Medio Oriente per mascherare le critiche all'occupazione e al blocco. Di solito funziona. E soprattutto nella diaspora ebraica c'è un enorme divario tra come viene rappresentato Israele e cosa sta effettivamente succedendo. Ma al momento, in questo conflitto, la chimera potrebbe rivelarsi per ciò che è.

Per chi vive in Israele e non appoggia la guerra o il governo, esprimere un'opinione diventa sempre più difficile, e alcuni decidono di non provarci nemmeno. "Qualche giorno fa a Tel Aviv c'è stata una grossa protesta," mi ha detto Sheen. "Un manifestante reggeva un cartello che diceva 'Scappate finché potete'. Parlando con alcuni attivisti di lunga data, tutti mi hanno detto di avere un piano di fuga."

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