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14/10/2014

L’Isis avanza perché nessuno vuole fermarlo
di Silvia Favasuli

I jihadisti stanno facendo il gioco dei Paesi vicini, che assistono immobili

Tra Siria e Iraq l’Isis conquista terreno. Ma mentre i media enfatizzano settimana dopo settimana la minaccia di miliziani che decapitano giornalisti occidentali, la sensazione è che in molti, soprattutto tra gli Stati arabi confinanti con i territori occupati da Isis, restino fermi a guardare i raid aerei della coalizione internazionale che cadono inefficaci.

Il 13 ottobre, dopo 15 giorni di offensiva, l’esercito iracheno si è ritirato dalla città di Hit, nel governatorato di Al Anbar, a ovest di Baghdad, lasciando che i miliziani ottenessero il pieno controllo di un’area che si trova a soli 150 chilometri dalla capitale irachena. Il governo di Baghdad ha giustificato la mossa dicendo di aver preferito perdere Hit pur di dislocare i suoi uomini a protezione della base aerea di Asada, più a nord, l’ultima rimasta ancora in mani irachene nella parte occidentale del Paese. Secondo il giornalista di Al Jazeera Imran Khan, di base a Baghdad, la presa di Hit mette ora in pericolo la città di Amiri, villaggio chiave da cui passano i rifornimenti destinati a Baghdad e a tutto il Sud del Paese. Una volta che Isis ne avrà il controllo, anche la capitale e il Sud saranno in suo potere.

Intanto, dalle poche centinaia di metri che separano l’ultima città turca da quella curdo-siriana di Kobane, la Turchia guarda immobile l’avanzata dell’Is lungo la sua frontiera con la Siria, passaggio strategico per il traffico illegale di petrolio, armi e uomini dello Stato Islamico. Più di un terzo di Kobane è già nelle mani degli jihadisti. Ma al Presidente Erdogan, più che respingere il pericolo Isis interessa tenere a bada le spinte secessioniste dei curdi turchi. Ha inviato l’esercito al confine e chiuso i varchi, per evitare che troppi profughi curdi di Siria entrassero nel suo Paese mettendo a rischio gli equilibri interni. E per tenere a bada la minoranza dei curdi di Turchia che vorrebbero varcare la frontiera e andare in aiuto di quelli siriani. 

Eppure un solo esercito nazionale di uno qualsiasi di quegli Stati confinanti basterebbe a fermare 35mila uomini (tanti sono secondo gli analisti i membri di Isis).

La risposta, celata dietro tanta enfasi mediatica, è che Isis sta facendo il gioco (sporco) di gran parte degli Stati locali. Israele, Turchia, Iran e potenze del Golfo, con l’Arabia Saudita in prima linea.

«Chi l’ha detto che nessuno sta facendo nulla?», provoca Claudio Neri, direttore dell’Istituto di Studi Strategici Macchiavelli. «Anche non agire è una strategia».

Perché la vera questione in gioco, in Iraq e in Siria, non è la guerriglia dei miliziani dell’Isis. Ma la necessità di stabilire un nuovo sistema di potere in Medio Oriente. E Isis può servire a raggiungerlo.

Perché i Paesi confinanti non agiscono

Il caos portato dagli jihadisti, fatto anche di ostaggi decapitati e video enfatici su You Tube, serve a sconquassare il vecchio ordine regionale, ma anche – paradossalmente - a mantenerlo.

«Per trent’anni gli Stati Uniti hanno creato e mantenuto un preciso ordine regionale, basato sull’alleanza strategica ed esplicita con l’Arabia Saudita. Un legame che ha comportato un vantaggio del mondo sunnita (L’Arabia saudita lo è) a sfavore di quello sciita (di cui l’Iran è il principale rappresentante)», spiega Neri.

Ma dopo la guerra in Iraq del 2003 e con la Presidenza Obama, gli Usa hanno deciso di non giocare più il ruolo di protettore dell’Arabia Saudita e degli Stati sunniti. E non vogliono più parare i problemi locali.

La cosa, però, non sta bene ai Paesi che finora hanno tratto vantaggio dalla presenza Usa. All’Arabia Saudita, naturalmente, che teme l’ascesa del nemico sciita Iraniano. E nemmeno a Israele, che ha negli Stati Uniti il suo principale protettore.

E cosa centra Isis?

«Centra, perché se la regione cade nel caos, come ora, gli Stati Uniti saranno costretti a intervenire». Soprattutto con un presidente come Barack Obama che, afferma Neri, «ha un approccio alle crisi di tipo reattivo», e decide di intervenire per reagire a eventi mediaticamente forti. «E come accade sempre con questo tipo di approccio, risponde in modo eccessivo, anche se ufficialmente dichiara di voler agire solo quando viene messa in pericolo la sicurezza nazionale».

Lo stesso ragionamento vale per la Russia, alleato chiave di Assad, e per la Cina. Mosca e Pechino hanno tutto l’interesse a vedere Washington invischiata in Medio Oriente, perché eviterà di dare fastidio su altri fronti.

Il ruolo dell’Iran

L’Iran è l’unico attore regionale che, fuori dalla coalizione internazionale anti-Isis, sta dando aiuto militare effettivo anche se non ufficiale all’Iraq, armando le truppe spontanee di sciiti iracheni che scendono in campo contro Is. Ma anche l’Iran sta giocando la sua partita. Lo Stato Islamico è una chance anche per Theran, il Paese sciita che dopo l’allontanamento degli Usa dall’area ha iniziato a farsi largo come vera potenza, forte anche dei suoi enormi giacimenti energetici. «A livelli di diplomazia segreta l’Iran si è messo a disposizione degli Stati Uniti per combattere contro Isis, ma in cambio pretende il riconoscimento da parte della comunità internazionale di potenza legittima della regione. Una cosa che Washington non può fare, perché significa cambiare alleato, e da Riad passare a Teheran».

Se a molti analisti lo slittamento degli Stati Uniti verso la parte sciita del mondo arabo appare ormai scontata (e che fa negli accordi sul nucleare iraniano un punto chiave), secondo Claudio Neri non si succederà mai con Obama. Perché la sua amministrazione è davvero priva di una strategia di lungo termine e punta solo ad andarsene dal Medio Oriente.

Fino a quando allora resteranno tutti ad aspettare mentre Isis avanza, fa vittime, impone la sharia e cancella in un solo colpo i diritti di minoranze, donne e bambini?

«Il caos in Iraq continuerà per mesi e forse anche per anni. A meno che non ci sia una svolta sul terreno. Come la presa di Baghdad da parte dei miliziani. O una violenta strage che costringerà gli Stati Uniti e l’Occidente a impegnarsi ancora di più. Reagendo meccanicamente a una nuova provocazione», afferma Neri. E intanto gli arabi resteranno ancora, strategicamente, a guardare.


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