Asharq al-Awsat
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19/02/2014

Rivoluzione in Libia: tre anni dopo
di Ali Ibrahim
Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo

Una forte frammentazione regionalista è ciò che resta a tuttoggi del regime Gheddafi

Dieci anni fa, se qualcuno avesse dichiarato che i principali Paesi arabi si sarebbero frammentati in regioni, sarebbe apparso come quel genere di fantasie politiche o di teorie della cospirazione adatte alle discussioni da caffè, piuttosto che come un argomento meritevole di uno studio accademico. Tuttavia, la relativa calma apparente celava sotto la superficie una diversa realtà in fermento, che si è dimostrata estremamente fragile e incoerente.

Con l’ondata di trasformazione che ha investito diverse Repubbliche arabe nel 2011, il disordine è diventato più che una realtà. I rischi di questa realtà sono chiaramente emersi in Siria, ora divisa tra aree controllate dal governo e aree controllate dai ribelli; in Yemen, che cerca di contenere la tendenza regionalista attraverso una cornice federale; infine, nella Libia post-Gheddafi, dopo la caduta di quel regime illogico e bizzarro.

Si credeva che la Libia dovesse diventare un buon modello da seguire all’indomani della Primavera Araba, per due motivi: le risorse petrolifere del Paese e la sua popolazione relativamente ridotta. Due elementi, si diceva, che avrebbero contribuito rapidamente a superare gli ostacoli posti dalla transizione, garantendo un veloce sviluppo. La Libia è un caso prominente, poiché ciò che ha portato alla rivoluzione è stata la mancanza di libertà, piuttosto che un’economia moribonda o le misere condizioni di vita come nelle rivolte di altri Paesi arabi.

C’è da ammettere che le speranze di vedere instaurasi dei regimi moderni, pluralistici e più aperti erano più che altro basate su opinioni personali, piuttosto che su fatti concreti. Invece di produrre regimi politici simili, l’ondata di trasformazione ha creato un forte pluralismo regionale che ha ridisegnato la mappa tracciata dai vincitori della Prima Guerra Mondiale.

Eloquente in questo senso, è stato il titolo di un articolo del Financial Times nello scorso gennaio: “È ora che l’Occidente riconosca la Cirenaica?”. La provincia orientale della Libia è diventata quasi autonoma e capace di esportare in maniera indipendente circa 500.000 barili di petrolio al giorno. Tripoli, essenzialmente, ha perso il controllo di gran parte del Paese, inclusi alcuni impianti petroliferi strategici.

Questa nuova realtà non è un prodotto dei soli ultimi tre anni. Di fatto, essa è in larga misura figlia del regime Gheddafi, il quale non ha lasciato delle istituzioni statali forti e ha deliberatamente indebolito l’esercito.

I partici libici che oggi festeggiano il terzo anniversario della rivoluzione potrebbero cambiare questo caotico status quo se solo accettassero il fatto che un futuro migliore potrebbe essere assicurato attraverso un sistema politico inclusivo. Devono rendersi conto che nessun Paese può andare avanti nell’ombra del controllo militare, matrice di violenza e distruzione. Solo il governo dovrebbe avere il diritto di possedere delle armi e le istituzioni dello Stato dovrebbero riflettere i desideri e gli interessi del popolo, non quelli di chi imbraccia quelle armi terrorizzando la gente.

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