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17/02/2014

La Libia rischia la bancarotta e una nuova guerra civile
di Bernard E. Selwan El Khoury e Roger Bou Chahine
Rispettivamente, vicedirettore e direttore dell'Osservatorio geopolitico mediorientale

Il paese è preda di milizie armate che sfidano le deboli istituzioni statali. Tripoli non riesce a controllare le risorse economiche. Il tentato golpe del 14 febbraio e la strana vicenda del rapimento del figlio del ministro della Difesa. Cresce la minaccia jihadista.

A oltre 2 anni dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi, la Libia è entrata in una fase che diversi osservatori definiscono come di vera e propria guerra civile. Il paese è preda delle milizie e formazioni armate che ancora non si sono sottomesse alle deboli istituzioni militari e di sicurezza statali, mentre il governo centrale di Tripoli ha serie difficoltà nel controllare il vasto territorio libico.

A ciò si aggiunge la crisi petrolifera - e quindi economica - legata alla sospensione, dallo scorso luglio, delle esportazioni di petrolio in buona parte dei porti della Cirenaica, controllati da Ibrahim al-Jadran, già capo della Guardia degli impianti petroliferi e oggi leader del movimento separatista denominato “Ufficio esecutivo di Barqa”, il nome arabo della Cirenaica.

Si tratta di una crisi che rischia di esporre il paese a una vera e propria bancarotta, come riferito al quotidiano panarabo Asharq al-Awsat da un funzionario del ministero delle Finanze libico, che ha preferito mantenere l’anonimato. “Se la situazione dovesse rimanere com’è oggi, con il governo che non è in grado di versare i salari, lo Stato potrebbe dichiarare la bancarotta entro il prossimo mese di maggio”, ha affermato la fonte.

Per comprendere in modo chiaro le dinamiche interne a questa crisi, bisogna analizzare un fatto accaduto alcune settimane fa, passato inosservato sulla stampa internazionale e su quella italiana. Il 13 gennaio scorso, l’agenzia di stampa nazionale libica, Lana, ha diffuso la notizia del rilascio di Muhammad al-Thani, l’unico figlio, maschio, del ministro della Difesa Abdallah al-Thani, rapito 4 mesi fa a Tripoli. La sua liberazione ha di certo sollevato il ministro da tutte le pressioni e le minacce che ha dovuto subire nell’arco degli ultimi mesi.

Questo rapimento, che ha coinvolto uno degli esponenti di spicco dello Stato libico (candidato da alcuni come prossimo primo ministro, dopo Ali Zeidan), rivela il motivo per cui il paese è oggi sull’orlo di una guerra civile: la lotta per il potere e il controllo delle risorse nazionali. Una lotta intestina dalla quale si evince come i nemici del governo libico siedano al suo interno: lo scontro per il controllo del potere economico è fra quanti gestiscono il petrolio e quanti appongono le firme per deliberare ogni spesa.

Il ministro della Difesa, percepito in Occidente come un “uomo d’azione”, ha dovuto contenere i suoi amici per salvare l'unico figlio. Si parla di una trattativa che, dietro pagamento di un riscatto, ha portato al rilascio immediato del giovane e posto fine al dilemma. Fonti locali, che hanno preferito mantenere l’anonimato, hanno riferito all’Ogmo (Osservatorio geopolitico medio-orientale) che questa vicenda è legata a una lotta interna al ministero della Difesa libico. Un’ipotesi grave che trova conferma in diverse dichiarazioni rese da responsabili e funzionari libici nel corso degli ultimi mesi, e che spiega i motivi del recente scoppio di una vera e propria guerra nel sud del paese.

A margine di questa situazione, il partito islamista libico Giustizia e costruzione, espressione politica della Fratellanza musulmana, ha minacciato il ritiro dei suoi 5 ministri al Governo nell’ennesimo tentativo di far cadere l’esecutivo. “Zeidan ha fallito nel portare avanti il suo dovere, che consiste nel garantire sicurezza e stabilità al paese”, ha dichiarato Nizar Kawan, membro di Giustizia e costruzione.

All’ombra degli scontri politici, che vedono contrapposti liberali e islamisti, miliziani e militari, rivoluzionari e reduci del vecchio regime, s’insinua il grande conflitto che sta dilaniando lo Stato libico: quello tra parlamento e governo dimostrato, solo per citare due episodi, dal sequestro lampo di Zeidan, alcuni mesi fa, e dal rilascio recente del figlio del ministro della Difesa.

Come emerge da un’inchiesta pubblicata lo scorso 25 gennaio dall’agenzia di stampa turca Anadolu, diversi esperti libici mettono in guardia dal rischio di una nuova guerra civile dopo gli scontri armati che hanno devastato le regioni occidentali e meridionali della Libia, inducendo il governo a chiedere il sostegno delle milizie locali nei combattimenti contro i gruppi legati al vecchio regime e a dichiarare lo stato d’allerta in tutto il paese.

L’ex giudice Muammad al-Mansuri ha affermato che il conflitto fra il governo e il parlamento ha trovato nello spauracchio del “ritorno dei seguaci di Gheddafi” un pretesto per estendere di un altro anno il mandato del parlamento ed evitare che il governo venga sfiduciato. “Fino a questo momento, né la situazione di sicurezza a Bengasi né l'interruzione della produzione dei giacimenti petroliferi hanno spinto le autorità a dichiarare uno stato d’allerta nel paese. Il fatto che lo abbiano fatto oggi dimostra che le parti avverse sfruttano la situazione interna, strumentalizzando le tensioni e i vari scontri come armi politiche”, ha dichiarato al-Mansuri, delineando uno scenario critico che il neonato Stato libico potrà tentare di sanare soltanto avviando un vero dialogo nazionale, una riconciliazione accettata da tutte le anime del paese e l’integrazione delle milizie nelle Forze armate.

Attualmente non si ravvisano inversioni di tendenza in grado di dare una risposta ai problemi di sicurezza e all'instabilità politica, ormai cronica. Al contrario, lo scadere del mandato dell’Assemblea nazionale generale, lo scorso 7 febbraio, ha evidenziato l’incapacità del paese di procedere con l’indispensabile fase di normalizzazione degli istituti democratici. Mentre il premier si destreggia nel tentativo di realizzare un rimpasto di governo, molti deputati, in aperto contrasto con larghi settori dell’opinione pubblica, si rifiutano di abbandonare l’incarico; altri, indipendentemente dalle direttive di partito e in segno di protesta, hanno invece rassegnato le proprie dimissioni.

Il 14 febbraio, in un clima di reciproca diffidenza e di forti tensioni, ha preso forma il tentativo di un colpo di Stato a opera dell’ex capo di Stato maggiore, generale Khalifa Haftar, il quale si ritiene avesse il sostegno di circa 10 mila ribelli. Nelle concitate ore successive si è registrata la condanna pressoché unanime da parte dell’intero arco politico, con il portavoce del parlamento, Humaydan, che ha dato per imminente l’arresto dello stesso Haftar.

La necessità di un cambiamento profondo è ormai percepita a ogni livello, per rispondere innanzitutto alla domanda crescente di sicurezza e stabilità. Non si tratta solo di recuperare i porti petroliferi in Cirenaica o di fermare la lunga serie di attentati, omicidi e aggressioni che da mesi insanguinano Bengasi, Derna e Tripoli: anche il sud della Libia è ormai nel caos più profondo a causa del riemergere di gruppi armati fedeli al deposto regime che hanno seminato morte e distruzione nell’area di Sebha.

Inoltre, bisogna considerare la minaccia crescente rappresentata da formazioni jihadiste o dichiaratamente qaediste. Soprattutto quest’ultima emergenza preoccupa i paesi vicini, fra cui il Niger, che in più di un’occasione ha invocato un intervento militare internazionale guidato da Francia e Stati Uniti. Al riguardo, ha suscitato enorme clamore (e conseguenti polemiche) un reportage del quotidiano francese Le Figaro, secondo cui membri dell’unità d’élite statunitense Delta Force opererebbero da tempo nel sud libico contro al Qaeda. Una notizia prontamente smentita tanto da Parigi che da Tripoli.

In tale contesto, assume particolare rilevanza il voto per il “Comitato dei sessanta” cui stanno partecipando in queste ore anche i libici residenti all’estero. Tale comitato avrà il compito non facile di redigere una nuova Costituzione, ma soprattutto di trasmettere un segnale di stabilità politica e - da una prospettiva storica - di coerenza con i principi ispiratori della rivoluzione del 17 febbraio.

Per approfondire: La battaglia per la legittimità: la Libia a 3 anni dalla rivoluzione

 

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