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May 6 2014

Il futuro, islamista e illiberale, della democrazia in Medio Oriente
di Shadi Hamid

In tutta la regione, lotte di potere mascherano un divario più profondo sul significato del moderno stato-nazione.

Dopo le rivolte della primavera araba nel 2011, infuria un dibattito tra egiziani e tunisini sulla natura stessa della loro società. Quanto, dell’islamizzazione, è stata imposta e fabbricata, e quanto di essa era una rappresentazione autentica della società? Alcuni credono che, senza il giogo opprimente della dittatura, gli arabi sarebbero finalmente in grado di esprimere i loro veri sentimenti senza paura di persecuzioni.

Il conseguente dibattito sul ruolo della religione nella vita pubblica ha messo gli analisti occidentali e i politici locali nella scomoda posizione di dover dare la priorità ai valori che hanno cari, rispetto ad altri. Nell'esperienza occidentale, la democrazia e il liberalismo di solito andavano mano nella mano, al punto che la democrazia nell’uso popolare è diventata una scorciatoia per la democrazia liberale. Il liberalismo ha preceduto la democrazia, permettendo a quest'ultima di fiorire. Mentre i politologi Richard Rose e Doh Chull Shin sottolineano che: "I paesi della prima ondata di democrazia, come la Gran Bretagna e la Svezia, divennero inizialmente Stati moderni, che istituiscono lo Stato di diritto, le istituzioni della società civile, e la responsabilità orizzontale dei parlamenti aristocratici. La democratizzazione seguita in Gran Bretagna mentre il governo divenne responsabile per i membri del parlamento eletti da un elettorato che via via si è ampliato fino a raggiungere il suffragio universale."Al contrario, scrivono, "le democrazie della terza ondata di democratizzazione hanno cominciato a rovescio."

Ottenere la democrazia cominciando dalla fine, ha portato alla nascita di democrazie illiberali, una creazione decisamente moderna ben documentata nel libro di Fareed Zakaria, The Future of Freedom. Zakaria cerca di separare il liberalismo e della democrazia, sostenendo che la democratizzazione è, infatti, direttamente collegata all’illiberalismo. D'altra parte, il liberalismo costituzionale, come egli lo definisce, è un sistema politico segnato, non solo da elezioni libere e giuste, ma anche dallo Stato del diritto, la separazione dei poteri e la tutela delle libertà fondamentali; di parola, di riunione, di religione, e di proprietà. "Questo insieme di libertà" prosegue, "non hanno nulla di intrinsecamente connesso alla democrazia"

Michael Signer usa un argomento simile nel suo libro, per tracciare l'ascesa dei  demagoghi, che accumulano popolarità e potere attraverso le urne. Come Zakaria, Signer riconosce le tensioni intrinseche tra liberalismo e democrazia, notando che le prime generazioni di americani sono particolarmente in sintonia con queste minacce. Scrive, per esempio, su Elbridge Gerry, un rappresentante del Massachusetts il quale dichiarò che: "permettere agli americani comuni di votare per il presidente era follia" Argomentando su tali esempi, Signer sostiene che: "al suo livello più semplice, la democrazia è un sistema politico che garantisce il potere, basandolo su gruppi di persone grandi quanto si desidera" E che questi gruppi forse non sono una buona cosa per il liberalismo costituzionale, che è più orientato verso il fine della democrazia piuttosto che verso i suoi mezzi.

L'emergere della democrazia illiberale nel mondo in via di sviluppo ha visto i leader, democraticamente eletti con mandati popolari, violare le libertà fondamentali. Le elezioni erano ancora in gran parte libere ed eque, e i partiti di opposizione erano irritabili, ma vitali. Ma, i partiti di governo, che vedevano i loro avversari come nemici piuttosto che concorrenti, hanno usato il loro controllo del processo democratico per manipolare il sistema a proprio vantaggio. Cercando di limitare la libertà dei media e di confezionare le burocrazie statali più conformi ai lealisti. In alcuni casi, come nel Venezuela sotto Hugo Chávez, il culto della personalità è diventato centrale per il consolidamento della democrazia illiberale. A volte confinava con l’auto-parodia, prendendo la forma di cartelloni autostradali che annunciavano che  Chávez è il popolo.

La democrazia illiberale è salita alla ribalta in parte perché la premurosa sequenza proposta dall'Europa occidentale con il liberalismo prima della democrazia non è più sostenibile, e non lo è da qualche tempo. Sapendo che la democrazia, o qualcosa di simile ad essa, è a portata di mano, i cittadini non hanno alcun interesse nell’attesa di qualcosa di indefinito per cui i loro leader dicono di non essere ancora pronti. La democrazia è diventata una incontrastata, buona normativa, che gli argomenti di Zakaria sembrano porre decisamente in disaccordo con i tempi. Zakaria sostiene, per esempio, che "l'assenza di elezioni libere ed eque deve essere vista come un difetto, non come la definizione della tirannia .... E' importante che i governi siano giudicati da parametri di valutazione relativi al liberalismo costituzionale" È interessante notare; egli sottolinea pensando a paesi come Singapore, Malesia, Giordania e Marocco, come modelli. "Nonostante la scelta politica limitata che offrono, forniscono un ambiente migliore per la vita, la libertà e la felicità dei cittadini di quanto non facciano ... le democrazie illiberali di Venezuela, Russia, o Ghana."

Con il fenomeno dell’islamismo, le forze di potere ci costringono a ripensare il rapporto tra liberalismo e democrazia. La Democrazia illiberale sotto il dominio islamico è diversa dalle varietà venezuelane o russe per una serie di motivi. In questi ultimi casi, la democrazia illiberale non è intrinsecamente legata alle rispettive ideologie di Hugo Chávez o di Vladimir Putin. Il loro illiberalismo è in gran parte il sottoprodotto di un nudo desiderio più fondamentale per consolidare il potere. Nel caso degli islamisti, tuttavia, il loro illiberalismo è un prodotto della loro islamismo, in particolare nel campo sociale. Per gli islamisti, la democrazia illiberale non è un fatto spiacevole della vita, ma qualcosa in cui credere e aspirare. Anche se possono lottare per definire cosa esattamente essa comporta, i partiti islamisti hanno un progetto ideologico e distintinto intellettualmente. Questo è il motivo per cui sono islamisti.

***

Sotto l’autocrazia, i leader possono isolarsi più facilmente dalla volontà popolare. Gli islamisti, nella misura in cui vengono tollerati, sono così occupati con la mera sopravvivenza che le richieste ideologiche vengono rinviate e spinte di lato. Esortano alla pazienza, dicendo agli esuberanti seguaci di aspettare, che l'applicazione della sharia non è semplicemente possibile ora. La democrazia, sia per l'opposizione laica che per quella islamista, diventa l'imperativo generale, perché, senza di essa, nient'altro può davvero accadere. La repressione li riunisce, dando loro un nemico comune e un obiettivo condiviso rovesciare il dittatore.

Dopo che le rivoluzioni riescono, islamisti, liberali e di sinistra scoprono che hanno meno motivi per lavorare insieme. Nella migliore delle ipotesi, diventano avversari, ma accettano di risolvere le loro differenze all'interno del processo democratico. Altre volte, diventano implacabili nemici in una battaglia a somma zero, che può scendere nella violenza politica e nell'intervento militare. Ad ogni modo, entrambi le fazioni vengono consumate da una lotta per il bottino della rivoluzione, tra cui, soprattutto, il controllo dello stato e delle sue risorse. A volte, poi, si tratta della potenza. Ma alla base della lotta per il potere c’è una divisione ideologica più fondamentale sul senso stesso del moderno stato-nazione. Prima delle rivolte, la maggior parte degli arabi non avevano davvero avuto questo dibattito. Le élite intellettuali e politiche che lo hanno fatto, lo hanno fatto in astratto. Nessuno di loro stava per andare al potere; è stato un dibattito per i loro figli o per i loro nipoti. Ma con le rivoluzioni arabe, le questioni essenziali di identità e di ideologia, di Dio e della religione, della concezione del bene, hanno improvvisamente ritrovato il senso dell’urgenza.

In breve, la democratizzazione non ha necessariamente un effetto moderatore sui partiti islamici, né attenua l'importanza dell'ideologia. Non ci sono risposte facili e, ad un certo punto, si può benissimo addivenire ad una questione di fede. Che cosa succederebbe se tunisini, egiziani, libici, yemeniti, o siriani decidessero, attraverso mezzi democratici, che vogliono essere illiberali? È forse un diritto protetto? Da parte sua, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è chiara in materia. Una nota di fondo della dichiarazione discute la linea rossa: "Il diritto alla cultura è limitato nel punto in cui si viola un altro diritto umano. Nessun diritto può essere usato a scapito o per la distruzione di un altro, in conformità del diritto internazionale." Per i politici occidentali e per i liberali arabi allo stesso modo, l'idea che ci dovrebbero essere principi sovra-costituzionali vincolanti per tutti i cittadini sembra evidente. La democrazia liberale dipende dal riconoscimento dei diritti inalienabili. Ma se gli islamisti non si considerano parte di questo consenso, e sono in molti, allora la questione di base diventa più semplicemente una visione del mondo che collide. Questo divario era evidente nei dibattiti controversi sulle prime costituzioni in Egitto e Tunisia. Prima costituzione post-rivoluzione in Egitto, approvata con un referendum nel dicembre del 2012, sembrava violare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, o almeno non è riuscita ad offrire protezioni sufficienti ai diritti in numerosi casi, tra cui la parità di genere, la libertà di espressione e la libertà di coscienza e di religione.

Anche ciò che può sembrare, in retrospettiva, come il minore dei cavilli, oltre alla particolare formulazione delle clausole della sharia, per esempio, riflette le divisioni fondamentali sui limiti e gli scopi dello stato-nazione. Per i liberali, alcuni diritti e libertà sono, per definizione, non negoziabili. Essi prevedono lo Stato come arbitro neutrale. Nel frattempo, anche quelli islamici che hanno poco interesse a legiferare sulla moralità vedono lo Stato come promotore di un certo insieme di valori religiosi e morali, attraverso il soft power della macchina statale, del sistema educativo e dei media. Per loro, questi valori conservatori non sono ideologicamente guidati, ma rappresentano un consenso popolare evidente intorno al ruolo della religione nella vita pubblica. La volontà del popolo, soprattutto quando coincide con la volontà di Dio, ha la precedenza su tutte le norme dei presunti diritti umani internazionali.

Per quanto riguarda la retorica e la pratica dei gruppi islamici moderati dal 1970 attraverso le rivolte del 2011, non sono diventati liberali (qui, come sempre, è bene sottolineare la distinzione tra l'essere "liberale" o "democratico"). C'è stato un tempo in cui il concetto di post islamismo ha guadagnato popolarità nei circoli accademici. L’Islamismo turco che aveva cessato di essere islamista, in ogni senso reale, ha mostrato la strada per un nuovo futuro coraggioso in cui gli islamisti si accorderebbero per lavorare nell'ambito della democrazia laica. Tuttavia, tali speranze, se applicate ai Fratelli Musulmani e ai gruppi affini, sono fuori luogo.

Allo stesso tempo, sarebbe un errore considerare gli islamisti come radicali piegati sull'introduzione di un nuovo ordine sociale fondamentalista. Perfino le posizioni più controverse della Fratellanza, come la sua opposizione alle donne e ai cristiani di diventare capo di stato, ben si allinea alla tradizione conservatrice della regione. L'ironia delle vittorie islamiste nei sondaggi è che non annunciano una rottura con il passato; ma confermano qualcosa che è già lì ed è esistito per qualche tempo. L' obiettivo degli islamisti è l'islamizzazione della società, nel pensiero e nella pratica, e nelle norme a cui le persone fanno riferimento. In alcuni paesi, come l'Egitto, il grado di islamizzazione a livello sociale era impressionante ben prima che gli islamisti salissero al potere; in altri paesi, gli islamisti stavano creando qualcosa quasi dal nulla. Nella post-rivoluzione tunisina, il livello di islamizzazione era notevole, considerando quanta strada gli islamisti dovevano coprire in un così breve periodo di tempo. In Tunisia, Ennahda era stata efficacemente debellata nei primi anni del 1990. Dopo di che, il gruppo non ha più avuto alcuna presenza organizzata nel Paese, con i suoi leader in carcere o in esilio.

Dopo la scomparsa dell’uomo forte Zine al Abidine Ben Ali nel gennaio 2011, il carattere mutevole della società era immediatamente evidente, con un numero crescente di tunisini che si vestivano, parlavano e vivevano in maniera diversa. I predicatori delle moschee, non abituati a grandi folle, riferivano di lunghe file di devoti convenuti per la preghiera. Era quasi come se la rimozione di un dittatore avesse permesso alla società di tornare ad un equilibrio più naturale. Certo, il ritorno dei membri e dei leader di Ennahda in Tunisia ha aiutato a stimolare questi cambiamenti, ma il rapido ritorno del partito alla ribalta, riflette un apparentemente diffuso desiderio di riconnettersi con le radici islamiche del paese. Pochi mesi dopo che Rachid Ghannouchi e altri leader vengono restituiti, trionfanti, a Tunisi nei primi mesi del 2011, hanno vinto le prime elezioni del paese, con una frana di consensi pari al 37 per cento del voto popolare e al 41 per cento dei seggi. Quello che era il secondo partito più grande, il partito secolare del Congresso per la Repubblica laica, ha ottenuto solo l’8,7 per cento dei voti e il 13 per cento dei seggi.

La Tunisia, con la sua classe media di considerevoli dimensioni, un elevato livello di alfabetizzazione  e uno dei migliori sistemi scolastici della regione, è stato pensato per essere meno ospitale allo spettro della politica religiosa. Il successo di Ennahda non poteva semplicemente essere spiegato con l'organizzazione superiore, in quanto il partito, praticamente non aveva strutture organizzative preesistenti. Per essere sicuri, i membri di Ennahda si sono dimostrati molto più efficaci in campagna elettorale rispetto alle loro controparti secolari. Hanno argomentato sulla legittimità dei loro anni in carcere sotto il regime precedente. Ma hanno anche disegnato una islamizzazione latente negli atteggiamenti e una predisposizione popolare verso la mescolanza di religione e politica.

Subito dopo le rivoluzioni, gli islamisti in Egitto e Tunisia sono stati attenti a ritrarre se stessi come attori responsabili. Questa relativa sobrietà è in costante tensione con le loro ambizioni dichiarate e non dichiarate, per le loro rispettive società. I Fratelli musulmani in Egitto, in particolare, hanno parlato di un progetto globale di civiltà. Mentre questa vaga aspirazione, incarnata nel cosiddetto progetto rinascimentale della Fratellanza, si è avvalsa di componenti tecnocratiche di riforma, ha anche cercato qualcosa di più di trasformazionale. Questa parte è stata meno definita, in parte perché la Fratellanza non gli aveva dedicato il pensiero che meritava. O forse, per loro, era così evidente che non aveva bisogno di essere dettagliato in un programma. Nel quadro della democrazia, speravano di offrire un’alternativa spirituale e filosofica al liberalismo occidentale. Per gli islamisti così come per i loro avversari liberali, c’era una domanda che era intensamente personale, come le società sarebbero state ordinate. Ogni progetto morale poteva contare sull’intromettersi nella condotta privata e nelle libertà personali, sulle stesse scelte che i cittadini fanno, o non fanno, su base giornaliera.

Nella loro veste originale, i Fratelli musulmani e altri movimenti islamisti credevano ad un approccio base - vertice, che inizia con l'individuo. L'individuo virtuoso avrebbe sposato una moglie virtuosa e, insieme, avrebbero crescuto una famiglia virtuosa. Le famiglie, a loro volta, avrebbero trasformato la cultura e la società. Una volta che la società fosse stata trasformata, i dirigenti e i politici avrebbero seguito. Nessuno era abbastanza sicuro di quello che questo sembrava, in pratica non era mai stato fatto prima.

Nel lungo periodo, la lotta per ed entro l'Islam politico non è solo importante per comprendere l'evoluzione delle società arabe; è importante per quello che ci può raccontare e di quanto, le credenze e l'ideologia siano mediate e alterate dal processo politico. Alla fine della storia, Francis Fukuyama ha scritto, "lo Stato che emerge ... è liberale in quanto riconosce e protegge, attraverso un sistema di diritto universale, il diritto dell'uomo e la sua libertà, e democratico nella misura in cui esiste solo con il consenso dei governati." ma quello con cui Fukuyama non è riuscito a confrontarsi è se uno Stato possa pretendere il consenso senza riconoscere il diritto. La domanda qui è se il processo democratico, nel lungo periodo, smussi le pretese ideologiche dei gruppi islamici, costringendoli a spostarsi al centro, rientrando nei confini del consenso democratico liberale.

Nel periodo moderno, gli stati basati sulla religione sono rari. I pochi che esistono o sono esistiti, non hanno buoni dati storici. Afghanistan, Iran e Arabia Saudita sono gli esempi più ovvi, ma sono di limitato valore nel dare un senso all’islamismo dopo la primavera araba. Nessuno di loro era democratico. Anche se ha goduto vari gradi di sostegno popolare, non vi era, nelle parole di Fukuyama, un reale consenso dei governati. Al contrario, i partiti islamisti oggi sono interessati a modellare stati religiosamente orientati attraverso mezzi democratici e il loro mantenimento attraverso mezzi democratici. Hanno assunto questa idea a livelli di quasi auto-parodia in Egitto, dove le elezioni sono diventate una sorta di stampella. Ogni volta che la Fratellanza ha affrontato una crisi, il suo istinto immediato è stato quello di chiedere le elezioni, pensando che la legittimità elettorale avrebbe stabilizzare l'Egitto e consolidato il suo dominio. Non lo ha fatto.

Per tutto il 20° secolo, le ideologie alternative, come il socialismo, il comunismo e la Democrazia Cristiana, hanno tentato di assicurarsi il potere attraverso le urne. Ma questi erano movimenti con limitazioni intrinseche. I gruppi islamisti, in particolare quelli insulari e segreti come la Fratellanza, sono divisivi per altri motivi, ma non lottano con le stesse limitazioni. La stragrande maggioranza degli arabi non ha una contrapposizione ideologica a priori con l'islamismo come tale. La maggior parte, dopo tutto, sostiene un ruolo importante per l'Islam e per la legge islamica nella vita politica. D'altra parte, le circoscrizioni naturali di socialisti e democristiani, lavoratori e conservatori sociali, rispettivamente, erano intrinsecamente limitate. Per vincere le elezioni, questi movimenti dovevano de-enfatizzare l'ideologia muovendosi verso il centro, dove stava, presumibilmente, l'elettore medio. Questo è il modo in cui la democratizzazione produce la moderazione ideologica, cosa che spinge molti analisti a ritenere che lo stesso processo potrebbe domare i partiti islamisti.

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Dove è permesso di procedere, la democratizzazione riorienterebbe la vita politica nelle società arabe. Ma come? In un paese come la Tunisia, il centro della politica araba si è spostato a destra. In Egitto, si è spostato a destra prima di ritirarsi di fronte all’opposizione ai Fratelli musulmani e agli islamisti più in generale.

Alcuni islamisti liberali hanno affermato che la religione non dovrebbe più essere un tema divisivo. Durante la sua campagna per la presidenza degli insorti, l’ex leader della Fratellanza Abdel Moneim Abul Futouh, ha spiegato in questo modo su di  un canale televisivo salafita: "Oggi essere liberali o di sinistra, è solo un nome politico, ma la maggior parte di loro comprendono e rispettano i valori islamici. Sostengono la sharia e non sono contro di essa". Nel tentativo creativo di ridefinizione, Abul Futouh ha notato che tutti i musulmani sono, per definizione, salafiti, nel senso che sono fedeli al Salaf, le primi, più pie generazioni di musulmani. Sembrava dire: Siamo tutti, in effetti, islamisti, quindi perché configgere su questo dato di fatto?

Abul Futouh, per tutto il suo presunto liberalismo, credeva che il popolo egiziano, e forse tutte le popolazioni a maggioranza musulmana, hanno una naturale inclinazione verso l'Islam. Qui, le tensioni tra liberalismo e maggioritario diventano più evidenti. Quando, nel 2006, chiesi ad Abul Futouh quello che gli islamisti avrebbero fatto se il parlamento avesse approvato una legge non islamica, egli respinse quella preoccupazione: "Il Parlamento non concede diritti ai gay perché questo va contro la cultura dominante della società, e se i membri del parlamento lo facessero, perderebbero le prossime elezioni" mi disse. "Che tu sia un comunista, socialista, o qualsiasi altra cosa, non si può andare contro la cultura prevalente. C'è già un rispetto inrinseco per la sharia".

Nel corso dei miei colloqui in Egitto, Giordania e Tunisia, sia prima che dopo la Primavera araba, questo particolare sentimento è stato ripetuto talmente tante volte che ha cominciato a suonare come un cliché: libertà e islamizzazione non si oppongono, ma piuttosto vanno di pari passo. Come Salem Falahat, l'ex sovrintendente generale dei Fratelli Musulmani in Giordania, una volta mi disse: "Se ha la possibilità di pensare e scegliere, il popolo arabo e musulmano, sceglierà l’Islam. Ogni volta che la libertà si espande tra loro, scelgono l'Islam." In altre parole, l'Islam non ha bisogno di essere applicato. Il popolo, nella misura in cui ne sente il bisogno, saprebbe rispettarlo e applicarlo, attraverso la natura vincolante del processo democratico.

Questo concetto ha un lungo pedigree nel pensiero islamico: Il Profeta Maometto è segnalato per aver detto: "La mia umma (comunità) non sarà d'accordo su un errore". A seconda di dove esattamente ci si trovi nello spettro politico, questo tipo di fede nella saggezza delle folle o è rassicurante e un pò banale o lievemente spaventosa. Accenna ad un nuovo consenso conservatore o ad un politica di esclusione che lasciano poco spazio per il dissenso liberale.


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May 6 2014

The Islamist and Illiberal, Future of Democracy in the Middle East
By Shadi Hamid

Across the region, power struggles mask a more fundamental divide over the meaning of the modern nation-state.

After the 2011 Arab Spring uprisings, a debate raged among Egyptians and Tunisians over the very nature of their societies. How much of the ongoing “Islamization” was imposed and manufactured, and how much of it was an “authentic” representation of society? Without the stifling yoke of dictatorship, some reasoned, Arabs would finally be able to express their true sentiments without fear of persecution.

The ensuing—and increasingly charged—debate over the role of religion in public life put Western analysts and policymakers in the uncomfortable position of having to prioritize some values they hold dear over others. In the Western experience, democracy and liberalism usually went hand in hand, to the extent that “democracy” in popular usage became shorthand for liberal democracy. Liberalism preceded democracy, allowing the latter to flourish. As the political scientists Richard Rose and Doh Chull Shin point out, “Countries in the first wave [of democracy], such as Britain and Sweden, initially became modern states, establishing the rule of law, institutions of civil society, and horizontal accountability to aristocratic parliaments. Democratization followed in Britain as the government became accountable to members of parliament elected by a franchise that gradually broadened until universal suffrage was achieved.” In contrast, they write, “third-wave democracies have begun democratization backwards.”

Getting democracy backwards has led to the rise of “illiberal democracies,” a distinctly modern creation that Fareed Zakaria documents in his book The Future of Freedom. Zakaria seeks to disentangle liberalism and democracy, arguing that democratization is, in fact, “directly related” to illiberalism. On the other hand, “constitutional liberalism,” as he terms it, is a political system “marked not only by free and fair elections but also by the rule of law, a separation of powers, and the protection of basic liberties of speech, assembly, religion, and property.” “This bundle of freedoms,” he goes on, “has nothing intrinsically to do with democracy.”

Michael Signer makes a similar argument in his book charting the rise of “demagogues,” who accumulate popularity and power through the ballot box. Like Zakaria, Signer acknowledges the inherent tensions between liberalism and democracy, noting that early generations of Americans were particularly attuned to these threats. He writes, for instance, about Elbridge Gerry, a representative from Massachusetts who declared that “allowing ordinary Americans to vote for the president was madness.” Drawing on such examples, Signer argues that “at its simplest level, democracy is a political system that grants power based on what large groups of people want.” And what these large groups want may not be good for constitutional liberalism, which is more about the ends of democracy rather than the means.

The emergence of illiberal democracy in the developing world saw democratically elected leaders using popular mandates to infringe upon basic liberties. Elections were still largely free and fair, and opposition parties were fractious but viable. But ruling parties, seeing their opponents more as enemies than competitors, sought to restrict media freedoms and pack state bureaucracies with loyalists. They used their control of the democratic process to rig the system to their advantage. In some cases, as in Venezuela under Hugo Chávez, a cult of personality became central to the consolidation of illiberal democracy. Sometimes it bordered on self-parody, taking the form of highway billboards announcing that “Chávez is the people.”

Illiberal democracy has risen to prominence in part because Western Europe’s careful sequencing of liberalism first and democracy later is no longer tenable—and hasn’t been for some time. Knowing that democracy, or something resembling it, is within reach, citizens have no interest in waiting indefinitely for something their leaders say they aren’t ready for. Democracy has become such an uncontested, normative good that the arguments of Zakaria seem decidedly out of step with the times. Zakaria argues, for instance, that “the absence of free and fair elections should be viewed as one flaw, not the definition of tyranny…. It is important that governments be judged by yardsticks related to constitutional liberalism.” Interestingly, he points to countries like Singapore, Malaysia, Jordan, and Morocco as models. “Despite the limited political choice they offer,” he writes, “[they] provide a better environment for life, liberty, and happiness of citizens than do … the illiberal democracies of Venezuela, Russia, or Ghana.”

The phenomenon of Islamists seeking, or being in, power forces us to rethink the relationship between liberalism and democracy. Illiberal democracy under Islamist rule is different from the Venezuelan or Russian varieties for a number of reasons. In the latter cases, illiberal democracy is not intrinsically linked to the respective ideologies of Hugo Chávez or Vladimir Putin. Their illiberalism is largely a byproduct of a more basic, naked desire to consolidate power. In the case of Islamists, however, their illiberalism is a product of their Islamism, particularly in the social arena. For Islamists, illiberal democracy is not an unfortunate fact of life but something to believe in and aspire to. Although they may struggle to define what exactly it entails, Islamist parties have a distinctive intellectual and ideological “project.” This is why they are Islamist.

* * *

Under autocracy, leaders can more easily insulate themselves from the popular will. Islamists, to the extent they are tolerated, are so busy with mere survival that ideological demands are pushed to the side and postponed. They counsel patience, telling over-exuberant followers to wait, that the application of sharia is simply not possible now. Democracy, for both the secular and Islamist opposition, becomes the overarching imperative, because, without it, nothing else can really happen. Repression brings them together, giving them a shared enemy and a shared goal—toppling the dictator.

After their revolutions succeed, Islamists, liberals, and leftists find that they have less reason to work together. At best, they become bitter adversaries but agree to resolve their differences within the democratic process. Other times, they become implacable enemies in a zero-sum battle, one that can descend into political violence and military intervention. Either way, both sides become consumed by a struggle for the spoils of revolution, including, most importantly, control of the state and its resources. Sometimes, then, it is about power. But underlying the battle for power is a more fundamental ideological divide over the very meaning of the modern nation-state. Before the uprisings, most Arabs hadn’t really had this conversation. The intellectual and political elites who did, did so in the abstract. None of them were going to be in power any time soon; it was a debate for their children or their grandchildren after them. But with the Arab revolutions, the essential questions of identity and ideology, of God and religion, of the conception of the good, assumed a newfound urgency.

In short, democratization does not necessarily have a moderating effect on Islamist parties, nor does it blunt the importance of ideology. There are no easy answers and, at some point, it may very well come down to a matter of faith. What if Tunisians, Egyptians, Libyans, Yemenis, or Syrians decide, through democratic means, that they want to be illiberal? Is that a protected right? For its part, the Universal Declaration of Human Rights (UDHR) is clear on the matter. A United Nations background note discusses the “red line”: “The right to culture is limited at the point at which it infringes on another human right. No right can be used at the expense or destruction of another, in accordance with international law.” For Western policymakers and Arab liberals alike, the notion that there should be supra-constitutional principles binding on all citizens seems self-evident. Liberal democracy depends upon the recognition of inalienable rights. But if Islamists do not consider themselves party to this consensus—and many do not—then the matter becomes a more basic one of colliding worldviews. This divide was evident in the contentious debates over first constitutions in Egypt and Tunisia. Egypt’s first post-revolution constitution, passed by referendum in December 2012, seemed to violate the UDHR or at least failed to offer sufficient rights protections in numerous instances, including on gender equality, freedom of expression, and freedom of conscience and religion.

Even what may have seemed, in retrospect, like minor quibbles—over the particular wording of sharia clauses, for example—reflected fundamental divides over the boundaries, limits, and purpose of the nation-state. For liberals, certain rights and freedoms are, by definition, non-negotiable. They envision the state as a neutral arbiter. Meanwhile, even those Islamists who have little interest in legislating morality see the state as a promoter of a certain set of religious and moral values, through the soft power of the state machinery, the educational system, and the media. For them, these conservative values are not ideologically driven but represent a self-evident popular consensus around the role of religion in public life. The will of the people, particularly when it coincides with the will of God, takes precedence over any presumed international human-rights norms.

As much as Islamist groups moderated their rhetoric and practice from the 1970s through the 2011 uprisings, they did not become liberals (here, as ever, the distinction between being a “liberal” and a “democrat” is worth emphasizing). There was a time when the notion of “post-Islamism” gained popularity in academic circles. Turkish Islamism—which had ceased to be Islamist in any real sense—showed the way to a brave new future where Islamists would agree to work within the framework of secular democracy. However, such hopes, when applied to the Muslim Brotherhood and like-minded groups, were misplaced.

At the same time, it would be a mistake to view Islamists as radicals bent on introducing a fundamentally new social order. Even the Brotherhood’s most controversial positions—such as its opposition to women and Christians becoming head of state—fell well within the region’s conservative mainstream. The irony of Islamist victories at the polls is that they did not announce a break with the past; they confirmed something that was already there and had been for some time. The goal of Islamists is the Islamization of society, in thought and practice, and in the standards that people hold themselves to. In some countries, like Egypt, the extent of Islamization on the societal level was striking well before Islamists even came to power; in other countries, Islamists were creating something from nearly nothing. In post-revolution Tunisia, the level of Islamization was remarkable, considering how much ground Islamists had to cover in such a short period of time. In Tunisia, Ennahda had been effectively eradicated in the early 1990s. After that, the group had no organized presence in the country, with its leaders in prison or in exile.

After the demise of strongman Zine al-Abidine Ben Ali in January 2011, the changing character of society was immediately apparent, with a growing number of Tunisians dressing, speaking, and living differently. Mosque preachers, not accustomed to large crowds, reported rows of the devout lining up for prayer. It was almost as if the removal of a dictator allowed society to return to a more natural equilibrium. Certainly, the return of Ennahda members and leaders to Tunisia helped spur these changes, but the party’s quick return to prominence reflected a seemingly widespread desire to reconnect with the country’s Islamic roots. Just months after Rachid Ghannouchi and other leaders returned, triumphant, to Tunis in early 2011, they won by a landslide in the country’s first elections, with 37 percent of the popular vote and 41 percent of the seats. (The second largest party, the secular Congress for the Republic, won only 8.7 percent of the vote and 13 percent of the seats.)

Tunisia, with its sizable middle class, high level of literacy, and one of the region’s best educational systems, was thought to be less hospitable to the specter of religious politics. Ennahda’s success couldn’t simply be explained by superior organization, as the party could claim virtually no preexisting organizational structures. To be sure, Ennahda members proved far more effective at campaigning than their secular counterparts. They drew on the legitimacy of their decades in prison under the previous regime. But they also drew on a latent Islamization of attitudes and a popular predisposition toward the mixing of religion and politics.

Immediately after the revolutions, Islamists in Egypt and Tunisia were careful to portray themselves as responsible actors. This relative sobriety was in constant tension with their stated, and unstated, ambitions for their respective societies. Egypt’s Muslim Brotherhood, in particular, spoke of a comprehensive “civilizational” project. While this vague aspiration, embodied in the Brotherhood’s so-called Renaissance Project, had technocratic reform components, it also sought something more transformational. This part was less defined, in part because the Brotherhood had not given it the careful thought it deserved. Or perhaps, for them, it was so self-evident that it needn’t be detailed in a program. Within the framework of democracy, they hoped to offer a spiritual and philosophical alternative to Western liberalism. For Islamists as well as their liberal opponents, it was a question—one that was intensely personal—of how societies would be ordered. Any moral project could be counted on to intrude on private conduct and personal freedoms, on the very choices that citizens made, or didn’t make, on a daily basis.

In their original guise, the Muslim Brotherhood and other Islamist movements believed in a bottom-up approach, beginning with the individual. The virtuous individual would marry a virtuous wife and, together, they would raise a virtuous family. Those families, in turn, would transform culture and society. Once society was transformed, the leaders and politicians would follow. No one was quite sure exactly what this looked like in practice—it had never actually been done before.

Taking the long view, the struggle for and within political Islam is not just important for understanding the evolution of Arab societies; it is important for what it can tell us about how beliefs and ideology are mediated and altered by the political process. At the end of history, Francis Fukuyama wrote, “the state that emerges … is liberal insofar as it recognizes and protects through a system of law man’s universal right to freedom, and democratic insofar as it exists only with the consent of the governed.” But what Fukuyama failed to grapple with is whether a state could claim the latter without enjoying the former. The question here is whether the democratic process, in the long run, will blunt the ideological pretensions of Islamist groups, forcing them to move to the center, back into the confines of the liberal democratic consensus.

In the modern period, religiously based states are rare. The few that do exist, or have existed, do not have a good track record. Afghanistan, Iran, and Saudi Arabia are the obvious examples, but they are of limited value in making sense of Islamism after the Arab Spring. None of them were democratic. Although they enjoyed various degrees of popular support, there was no, in Fukuyama’s words, real consent of the governed. In contrast, Islamist parties today are interested in fashioning religiously oriented states through democratic means and maintaining them through democratic means. They took this to levels of near self-parody in Egypt, where elections became a sort of crutch. Whenever the Brotherhood faced a crisis, its immediate instinct was to call for elections, thinking that electoral legitimacy would stabilize Egypt and solidify its rule. (It didn’t.)

Throughout the 20th century, alternative ideologies, such as socialism, communism, and Christian Democracy, all attempted to secure power through the ballot box. But these were movements with built-in limitations. Islamist groups, particularly insular and secretive ones like the Brotherhood, are divisive for other reasons, but they do not struggle with the same limitations. The vast majority of Arabs have no a priori ideological opposition to Islamism as such. Most, after all, support a prominent role for Islam and Islamic law in political life. On the other hand, the natural constituencies of socialists and Christian Democrats—workers and social conservatives, respectively—were inherently limited. To win elections, these movements needed to de-emphasize ideology and move to the center, where presumably the median voter would be found. This is how democratization produced ideological moderation, leading many analysts to assume that the same process might tame Islamist parties.

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Where it is allowed to proceed, democratization will reorient political life in Arab societies. But how? In a country like Tunisia, the center of Arab politics shifted to the right. In Egypt, it shifted to the right before retreating in the face of mounting opposition to the Muslim Brotherhood and Islamists more generally.

Some “liberal” Islamists have made the case that religion should no longer be such a divisive issue. During his insurgent campaign for president, former Brotherhood leader Abdel Moneim Abul Futouh explained it this way to a Salafi television channel: “Today those who call themselves liberals or leftists, this is just a political name, but most of them understand and respect Islamic values. They support the sharia and are no longer against it.” In a creative attempt at redefinition, Abul Futouh noted that all Muslims are, by definition, Salafi, in the sense that they are loyal to the Salaf, the earliest, most pious generations of Muslims. He seemed to be saying: We are all, in effect, Islamists, so why fight over it?

Abul Futouh, for all his purported liberalism, believed that the Egyptian people (and perhaps all Muslim-majority populations) had a natural inclination toward Islam. Here, the tensions between liberalism and majoritarianism became more evident. When I asked Abul Futouh in 2006 what Islamists would do if parliament passed an “un-Islamic” law, he dismissed the concern: “Parliament won’t grant rights to gays because that goes against the prevailing culture of society, and if [members of parliament] did that, they’d lose the next election,” he said. “Whether you are a communist, socialist, or whatever, you can’t go against the prevailing culture. There is already a built-in respect for sharia.”

Over the course of my interviews in Egypt, Jordan, and Tunisia—both before and after the Arab Spring—this particular sentiment was repeated so often that it began to sound like a cliche: freedom and Islamization were not opposed but rather went hand in hand. As Salem Falahat, the former general overseer of Jordan’s Muslim Brotherhood, once told me, “If they have the opportunity to think and choose, [the Arab and Muslim people] will choose Islam. Every time freedom expands among them, they choose Islam.” In other words, Islam didn’t need to be enforced. The people, to the extent they needed to, would enforce it themselves—through the binding nature of the democratic process.

This notion has a long pedigree in Islamic thought: The Prophet Muhammad is reported to have said, “My umma [community] will not agree on an error.” Depending on where exactly you stand on the political spectrum, this sort of belief in the wisdom of crowds is either reassuring and somewhat banal or mildly frightening. It either hints at a new conservative consensus or at an exclusionary politics that has little space for liberal dissent.


This post is adapted from Shadi Hamid’s new book, Temptations of Power: Islamists and Illiberal Democracy in a New Middle East, published by Oxford University Press.

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