Il Manifesto
Nena News
30 agosto 2014

Gli ex sponsor di ISIS ora hanno paura
di Chiara Cruciati Intervista a Mouin Rabbani, codirettore di Jadaliyya.

L’avanzata dello Stato Islamico minaccia tutto il mondo arabo, anche quegli Stati che hanno indirettamente sostenuto i gruppi radicali in Siria.

Roma, 30 agosto 2014, Nena News

L’Isis spaventa l’intero mondo arabo e quei regimi che in passato hanno permesso la fioritura dei gruppi islamisti sunniti nella regione ora tremano. Ne abbiamo parlato con l’analista palestinese Mouin Rabbani, codirettore del think tank Jadaliyya e membro dell’Institute for Palestine studies.

I paesi del Golfo sono accusati di aver finanziato e armato i gruppi jihadisti, permettendone l’avanzata in Iraq e Siria, per indebolire i governi sciiti di Siria e Iraq.

È difficile provare senza ombra di dubbio tale collegamento, ma certo è che il Golfo dal 2003 ha sia sostenuto l’invasione Usa dell’Iraq, fornendo basi militari e supporto logistico, sia ostacolato politicamente il nuovo regime sciita di Baghdad. Saddam Huissein è sempre stato una barriera all’influenza iraniana e con la sua caduta Teheran ha fatto di Baghdad un suo satellite. Nell’ultimo decennio gran parte dei miliziani dei gruppi radicali sono arrivati dal Golfo: seppure manchino prove del reclutamento di jihadisti da parte di Riyadh o Doha, sicuramente non sono stati fermati. Le petromonarchie non avevano interesse ad arginare il fenomeno. Più chiaro è il loro ruolo in Siria: ogni governo ha apertamente sostenuto alcuni gruppi di opposizione, quelli che erano in grado di controllare meglio o quelli che ritenevano più efficaci. Lo scopo era rendere le opposizioni ben organizzate e sempre più radicali.

Oggi cosa è cambiato?

Il Golfo è stato il primo sponsor di questi gruppi nel tentativo di far fruttare i propri interessi nella regione e indirizzare le energie estremiste fuori dai propri confini. Ora il timore è che possano tornare indietro. In Arabia Saudita succede già: una forte ondata di attacchi, portata avanti da miliziani islamisti tornati in patria. Quello che oggi preoccupa le petromonarchie è la trasformazione dell’Isis da gruppo minoritario a forza che controlla significativi territori in ben due paesi. A ciò si aggiunge la pressione Usa su Kuwait, Arabia Saudita, Qatar, Emirati, perché interrompano il sostegno ai gruppi islamisti.

La Turchia ha permesso il passaggio di armi e uomini in Siria per rifornire le opposizioni anti-Assad, ma oggi teme un capovolgimento di fronte dopo che l’Isis ha preso di mira anche i kurdi.

Ankara ha sostenuto attivamente i gruppi anti-Assad, armandoli e garantendo loro appoggio logistico, nella convinzione che in pochi mesi avrebbero fatto cadere il regime alawita. Non ha prestato attenzione a chi dava armi e denaro, nell’idea che il conflitto non sarebbe durato così a lungo da far crescere questi gruppi. L’idea era di usarli come piede di porco per scardinare il regime di Assad, assumere il ruolo di guida del Medio oriente, influenzare il prossimo governo siriano e quindi isolarli. Ma Assad si è mostrato molto più resiliente del previsto e anche la Turchia è costretta a rivedere la propria strategia. Ankara è un elemento chiave dell’equazione: il confine turco-siriano è uno dei principali fattori di rafforzamento degli islamisti e infatti in questi mesi l’attività dell’intelligence turca alla frontiera è molto aumentata.

Tra le fonti di guadagno dell’Isis c’è il contrabbando di greggio, alcuni rapporti dicono che tra gli acquirenti c’è Damasco. È possibile che la famiglia Assad, da decenni impegnata nella repressione dei movimenti islamisti, oggi faccia affari con loro?

Se lo fa è solo per coprire il gap dovuto all’embargo imposto dall’Occidente. Assad non ha sostenuto o avuto contatti con lo Stato Islamico, ma lo ha usato per dimostrare che aveva ragione. Quando il conflitto è scoppiato, Damasco lo ha definito una cospirazione regionale. Quando a farsi avanti sono stati gruppi radicali, il governo li ha mostrati come lo strumento di quella cospirazione terroristica regionale e li ha usati per far perdere sostegno popolare a tutte le opposizioni.

Veniamo a Gaza. L’attacco israeliano ha mostrato come Hamas sia isolato dal resto del mondo arabo, eccezion fatta per Qatar e Turchia. Su cosa si fonda questo asse Egitto-Arabia Saudita?

Dal 2006, quando Hamas vinse le elezioni, la questione palestinese è divenuta elemento di divisione del mondo arabo, teatro del conflitto regionale, un conflitto per procura tra chi appoggia una fazione e chi ne appoggia un’altra. A questo si aggiunge il sostegno politico e militare dell’Iran al movimento palestinese. Di nuovo a dettare alleanze e equilibri è lo scontro Arabia Saudita-Iran. Per quanto riguarda l’Egitto, dopo il golpe militare del 2013, il Cairo ha indicato nei gruppi stranieri i responsabili dei propri problemi, Hamas in primis perché membro dei Fratelli Musulmani. Questo ha creato negli anni una strana alleanza tra i regimi conservatori

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