fonte: http://www.tunisia-in-red.org
http://comune-info.net
8 ottobre 2014

Mondo arabo e disordine mondiale
di Santiago Alba Rico
Traduzione di Giovanna Barile

Sarebbe ora di manifestare contro i bombardamenti statunitensi e a favore di quanti in Siria e in Iraq chiedono democrazia, dignità e giustizia sociale. Spiazzati dall’irruzione sulla scena dello Stato Islamico, non lo fanno gli inossidabili sostenitori dell’antimperialismo di maniera, ieri fautori di Gheddafi e oggi di Damasco, Teheran e Mosca. Mentre i vecchi e i nuovi fan della Nato, delle bombe e dell’islamofobia sono in realtà i padrini degli Jihadisti che dicono di voler combattere. Soltanto tre anni fa, i popoli del mondo arabo si erano sollevati contro le guerre sante, le dittature e l’egemonia imperiale statunitense, rivelandone la decadenza. Oggi gli zombie del passato sono tornati a nutrirsi dei vivi per governare di nuovo: la Libia è solo un campo di battaglia regionale tra l’alleanza Egitto-Arabia Saudita e i Fratelli Musulmani, sostenuti da Turchia e Qatar. Europa ed Usa hanno difficoltà perfino a prender posizione. Washington ha rifiutato di sostenere i siriani in lotta contro il regime perché voleva indebolirlo senza farlo cadere. I risultati sono lo Stato islamico e l’Apocalisse della regione

Il numero di settembre della prestigiosa rivista francese Esprit affronta, con un’analisi approfondita, quello che viene significativamente definito “il nuovo disordine mondiale”. Si potranno condividere o meno gli approcci specifici relativi ad alcuni conflitti regionali, ma è difficile smentire i due presupposti che, a giudizio dei collaboratori della pubblicazione, spiegano questo “disordine”, rappresentato con più evidenza dalla situazione in Ucraina e da quella in Medio Oriente.

Questi due presupposti sono: 1) la repentina decadenza dell’egemonia statunitense (e, naturalmente, europea), durata solo una generazione (1989 – 2003), che non sarebbe sopravvissuta all’avventurismo criminale di Bush in Iraq, e 2) l’incapacità delle cosiddette potenze emergenti, gravitanti intorno al gruppo BRICS (1), di offrire alternative sia sul piano –diciamo così- della civilizzazione, sia su quello puramente pragmatico della risoluzione globale dei conflitti.

La globalizzazione economica –le cui “crisi”, devastanti per le popolazioni, hanno comunque costretto gli Stati capitalisti a negoziare e trovare accordi- non è stata accompagnata da una parallela globalizzazione politica capace di evitare o minimizzare i conflitti, nemmeno nel modo “ingiusto” proprio del defunto sistema dei blocchi del secolo scorso.

Tra la decadenza statunitense e la mancanza di alternative, nessun avvenimento ha accelerato e reso palesi entrambi i fenomeni meglio delle fallite rivoluzioni arabe e della nascita, dal grembo del loro fallimento, dello Stato Islamico, una “organizzazione militare” e non solamente “terrorista” –per citare le recenti dichiarazioni di un responsabile del Pentagono- che non gode del riconoscimento né del sostegno di alcuno Stato, che fondamentalmente si autofinanzia e che è diventata forte proprio lì dove l’assenza dello Stato (risultato di invasioni straniere o dittature criminali) accelera la germinazione di sanguinosi impulsi di prossimità comunitaria.

In ogni caso, l’accettazione di questi due presupposti, a mio parere molto aderenti alla realtà, elimina da qualunque analisi geopolitica sensata sia le tesi di quanti, a destra, continuano a giustificare ed incoraggiare il ruolo “umanitario” e “stabilizzatore” degli USA contro tutti gli “Stati canaglia”, sia di quanti, a sinistra, leggono ogni situazione come il risultato di un piano degli USA e, di fronte a questo piano sempre vincente, attribuiscono alla Russia, alla Cina o all’Iran (o alla Siria di Bachir  Assad!) un ruolo potenzialmente più disinteressato o salvifico.
Come ho detto, le rivoluzioni arabe iniziate in Tunisia nel 2011 hanno rivelato e accelerato la decadenza imperiale degli USA e niente lo prova meglio dei casi della Libia e dell’Iraq-Siria.

Qualche giorno fa l’eurodeputato del movimento « Podemos », Pablo Iglesias, ha portato una ventata d’aria fresca al Parlamento di Bruxelles con la sua coraggiosa e possente  denuncia che ha ricordato, giustamente,  che dal 2000 fino al 2011 Gheddafi è stato il “nostro figlio di puttana” nella regione (contratti petroliferi, politica migratoria e vendita di armi) e che se fu poi approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU la Risoluzione 1973 che ha aperto la strada ai bombardamenti della NATO, non fu certo per proteggere una popolazione fino a quel momento abbandonata al proprio destino. Bisognerebbe però aggiungere che la partecipazione degli USA in quella avventura fu piuttosto fredda e reticente, mentre il ruolo più attivo fu assunto dalla Francia, la quale trovava interesse nella vicenda, oltre che per pragmatismo petrolifero, anche per ragioni politiche nazionali legate senza dubbio al finanziamento della campagna elettorale dell’ex Presidente Sarkozy.

C’è anche da ricordare che la Russia e la Cina, così come l’UE e gli USA, avevano dei contratti petroliferi con Gheddafi e non si opposero alla risoluzione 1973: la loro astensione, quando avrebbero potuto usare il veto, era un modo di autorizzare l’intervento, smarcandosi prudentemente dai suoi esiti incerti. Dunque nessuno difese Gheddafi, ma nessuno difese neanche il popolo che si era ribellato contro di lui (né quello che si presumeva appoggiasse il dittatore). Il precipitoso intervento della NATO, spalleggiata dalla Francia, aveva come obiettivo –a parte l’eliminazione fisica di Gheddafi- quello di evitare che fossero proprio i ribelli a rovesciare la dittatura, come spiega il grande storico antimperialista Vijay Prashad. Il piano occidentale consisteva, di fatto, nel garantire continuità al regime attraverso un Consiglio Nazionale Libico, composto soprattutto da disertori “liberali”, che mantenesse in piedi gli accordi energetici e migratori con l’UE.

Questo piano è fallito, non solo perché la Libia ha visto ridurre la propria produzione di petrolio del 90% circa, ma anche perché la cosiddetta “somalizzazione” del Paese lascia poco margine d’intervento agli USA (nonché all’UE). Oggi quasi più nessuno si occupa della Libia, ma quando qualcuno lo fa è per liquidare sommariamente il “caos” imperante come il risultato di un conflitto tra “liberali” e “islamisti”. La realtà è molto più variegata e forse più inquietante.

Come sappiamo, oggi in Libia esistono due governi. Uno con sede a Toubrouk, a 1.600 km dalla capitale, guidato da Abdala Athani, il quale attribuisce la propria legittimità politica alle elezioni dello scorso giugno, ma che in realtà si appoggia all’oscuro colonnello Haftar: lo stesso che nel maggio scorso guidò un colpo di stato –sul modello di Sissi in Egitto- contro i Fratelli Musulmani. Haftar, disertore dell’esercito di Gheddafi negli anni ’70, si è poi formato negli Stati Uniti, ma la sua retorica “nazionalista” e “anti-islamista” ha attratto anche alcuni sostenitori del vecchio regime. Questo governo cosiddetto “liberale” è appoggiato dall’Arabia Saudita, dall’Egitto e dagli Emirati Arabi (i quali, secondo quanto denunciato dall’amministrazione Obama, ad agosto hanno bombardato il territorio libico).

Il governo insediato a Tripoli, chiamato “islamista”, presieduto da Omar Al Hasi, nasce in realtà dall’operazione “L’alba della Libia” che, in nome della “rivoluzione”, ha scatenato contro Hafar le milizie di Misurata, le più potenti tra tutte quelle che si combattono nel Paese. Questa operazione ha tatticamente sostenuto a Bengasi gli islamisti radicali di Ansar Al- Sharia, prendendone poi le distanze per formare un governo che, per ragioni commerciali e storiche, è palesemente capeggiato dai Fratelli Musulmani e dal loro partito Giustizia e Costruzione, il cui leader, Mohamed Sawan, è originario di Misurata. Terza città del Paese, Misurata può contare non solo sul prestigio dei suoi “martiri”, ma anche sulla propria attività commerciale, centrata sul porto, e sui legami economici e politici che intrattiene con il Qatar e la Turchia, Paesi che appoggiano il Congresso Generale Nazionale di Tripoli (vedere, a questo proposito, questo link)

La Libia è dunque diventata un altro campo di battaglia nella guerra regionale tra l’alleanza Arabia Saudita/Egitto ed i Fratelli Musulmani (sostenuti dalla Turchia e dal Qatar). Gli USA –e l’UE- sono andati sempre a rimorchio sul territorio e hanno difficoltà anche a prendere posizione. Si può dire che il concretissimo caos libico, con i suoi rapporti di forza interni, è la prova evidente che coloro che hanno bombardato e ucciso Gheddafi, lungi dall’essere padroni della situazione, sono rimasti per il momento abbastanza fuori dal gioco.

La stessa cosa succede in Siria ed in Iraq, salvo che lì il gioco –un gioco che non controllano più- li costringe ad intervenire di nuovo militarmente. Il calcolato basso profilo dell’appoggio statunitense alla rivoluzione siriana contro Assad, anche dopo l’uso di armi chimiche a Ghouta (casus belli ideale per scatenare un intervento che non è stato mai voluto), contrasta con la prontezza con la quale l’amministrazione Obama approva oggi l’invio di armi ai curdi ed ai ribelli, prima ignorati, che combattono anche contro lo Stato Islamico. E naturalmente contrasta anche con la diligenza dei nuovi bombardamenti sull’Iraq, concordati con tutte le potenze dell’area, compresa la  Siria e l’Iran (con l’eccezione della recalcitrante Turchia).

Gli USA non hanno appoggiato i siriani che protestavano contro la dittatura,perché cercavano di indebolire il regime di Damasco senza farlo cadere; il risultato è lo Stato Islamico e l’apocalisse su scala regionale. La loro complicità nel “grande complotto” contro le rivoluzioni arabe non solo oggi li costringe a negoziare con i nemici da una posizione meno favorevole, ma anche a coinvolgersi militarmente in un’avventura che accelererà la loro perdita di protagonismo e di influenza nella regione.

Se in Siria il responsabile diretto della penetrazione dello Stato Islamico è Bachir Assad (e Obama ne è il responsabile indiretto), gli Stati Uniti sono senz’altro i responsabili diretti di quello che succede in Iraq: centinaia di migliaia di morti, distruzione dello Stato e delle infrastrutture di base, guerra settaria, l’ingresso nel Paese di Al Qaeda prima e dell’Isis poi. Quanto al responsabile indiretto, questi è l’Iran. Ma Obama non risolverà nulla bombardando le postazioni jihadiste, anzi: come ho scritto altre volte, la mancanza di democrazia (che nessuno vuole in quella regione), gli interventi imperialisti e le dittature alimentano e offrono legittimità ai movimenti islamisti radicali.

Imperialismi, dittature e guerre sante sono le forze del passato contro le quali tre anni fa si sono sollevati i popoli di quella regione. Il mondo arabo torna ad essere governato da forze che in realtà sono morte: ovvero, da zombie che si sostengono tra di loro nutrendosi dei vivi e che, per quanto siano morti, potrebbero continuare a governare per anni e secoli in tutta l’area, a meno che non trionfi quella rivoluzione dei popoli abbandonata da tutti, destra e sinistra, nel 2011.
Nel frattempo, non sarebbe male uscire in piazza e manifestare in favore dei siriani e degli iracheni che chiedono democrazia, dignità e giustizia sociale e, allo stesso tempo, contro i bombardamenti statunitensi. Si ha l’impressione che, di fronte allo Stato Islamico, la belligeranza antimperialista di quelli che ieri appoggiavano Gheddafi e oggi sostengono Damasco, Teheran e Mosca si sia notevolmente raffreddata. Quanti invece alimentano l’islamofobia e lo scontro di culture e invocano più bombe, più NATO e più guerra antiterrorista, sono in realtà i padrini degli jihadisti che dicono di voler combattere.

 Note

(1) Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica
Nel novembre 2010 il Fondo Monetario Internazionale ha incluso i Paesi BRIC tra i dieci paesi con il diritto di voto più elevato. A seguito della mancata ripartizione delle quote, giacente presso il Congresso degli Stati Uniti, una cui redistribuzione era stata avanzata dai paesi del BRICS, questi ultimi hanno dato vita a una propria strutturazione finanziaria autonoma (New Development Bank), alternativa al FMI durante il loro 6º summit a Fortaleza, in Brasile, il 15 luglio 2014.

L’articolo originale  è stato pubblicato il 21 settembre su http://www.cuartopoder.es/tribuna/el-mundo-arabe-y-el-nuevo-desorden-mundial/6293

Fonte: Tunisia in Red, un sito di informazione, analisi e riflessione nato dall’iniziativa di un gruppo di tunisini e di stranieri residenti in Tunisia e molto utile per interpretare in modo critico quel che avviene in medio oriente e, in particolare, una situazione complessa come quella della Tunisia del dopo Ben Alì. Un mezzo indispensabile per rompere il silenzio calato su un paese che non fa più notizia in modo spettacolare e quindi sembra non esistere nelle agende delle pochissime fonti che controllano l’informazione mondiale.

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