New Eastern Outlook
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12/11/2014

Disintegrazione saudita e nuovo asse iraniano
di Catherine Shakdam 
Traduzione di Alessandro Lattanzio

Se molti ridicolizzano i commenti di Ali Reza Zakani sulla caduta imminente dell’Arabia Saudita e ciò che ha descritto come “disgregazione della tribù al-Saud” lo scorso settembre, bollando il suo vantare i successi politici dell’Iran nella regione come esagerato e infondato, altri sosterrebbero che l’analista politico di primo piano iraniano in realtà abbia fatto centro. Guardando ai recenti sviluppi in Medio Oriente nel solo mese scorso, ascesa degli huthi in Yemen, rivoluzione in Bahrayn, condanna a morte dello sceicco Nimr al-Nimr, avanzata del SIIL in Iraq e Siria, è chiaro che ampie fratture politiche, sociali e religiose sono apparse in Medio Oriente, e tutto punta ad incrementare l’erosione dell’impero degli al-Saud. Mentre l’Arabia Saudita ha dominato il mondo arabo e in una certa misura il mondo islamico da quando caddero gli ottomani, aiutata e sottomessa dall’impero inglese e dagli Stati Uniti per la sua disponibilità ad essere flessibile alla volontà occidentale, l’esclusivismo politico e l’ostracismo religioso degli al-Saud hanno creato una situazione in cui il regno è divenuto il peggiore nemico di se stesso.

I petrodollari degli al-Saud

In risalto egemonico per la sola immensa ricchezza, i petrodollari dell’Arabia Saudita sono tutto ciò che sostengono l’intrinseca architettura istituzionale, politica e religiosa del regno. Mentre i miliardi di dollari hanno permesso dell’Arabia Saudita degli al-Saud di dirigere e controllare nazioni, governi e politiche, appoggiandoli e ritirandoli, creando e distruggendo politici ed idee mentre perseguivano la loro visione del Medio Oriente; il regno s’è asservito alle capacità di finanziare le proprie alleanze. Si dà il caso che l’Arabia Saudita potrebbe presto affrontare una drammatica crisi economica. Come notato da Nick Butler sul Globalist, l’Arabia Saudita sembra aver perso il controllo del mercato petrolifero, in un momento in cui i prezzi hanno subito un calo senza precedenti per la crisi borsistica. “I sauditi potrebbero non poter contrastare la caduta dei prezzi“, ha scritto Butler aggiungendo che le prospettive politiche ed economiche negative dell’OPEC renderebbero qualsiasi politica di restrizione della produzione globale impossibile, sottoponendo così l’Arabia Saudita a una grande pressione. “E’ difficile pensare a qualsiasi Stato dell’OPEC, tranne forse il Quwayt, capace di accettare una notevole riduzione di produzione ed entrate. I sauditi vanno per conto proprio“. Vittime dei propri errori di calcolo politico ed economico, gli al-Saud avrebbero effettivamente appiccato l’incendio che molto presto potrebbe minacciargli la casa sbriciolando le monarchie del Golfo. Avendo l’Arabia Saudita dimostrato di poter sostenere finanziariamente i suoi Stati fantoccio e le guerre per procura nella regione, gli al-Saud hanno aperto più fronti, senza saperli risolvere finora, in Yemen, Siria, Iraq, Egitto, Libia, Bahrayn ed è probabile che saranno messi alle strette da quelle potenze che avanzano tra gli attriti e i vuoti che hanno inavvertitamente creato. Inconfondibilmente Turchia e Iran hanno visto accrescere la loro importanza dal 2011, potenziati dalle difficoltà politiche dell’Arabia Saudita.

Il tempo scade


Mentre le nazioni chiedono emancipazione politica, ed altre sono in dura lotta contro il radicalismo islamico, il Medio Oriente come lo conosciamo subisce una ristrutturazione massiccia e il ridisegno del potere. Come Zakani ha così eloquentemente indicato, “Tre capitali arabe sono oggi nelle mani dell’Iran aderendo alla rivoluzione islamica iraniana… e Sanaa è la quarta capitale araba sulla buona strada per l’adesione alla rivoluzione iraniana“. Mentre gli huthi nello Yemen, fazione organizzata guidata da Abdelmaliq al-Huthi, sostengono di non essere controllati da nessuno ma piuttosto di essere fieramente indipendenti, la fazione Zaydi, il più antico ramo dell’islam sciita, è innegabilmente appoggiata e indirizzata da Teheran, così come gli Hezbollah in Libano e più recentemente Baghdad. Ma a differenza dei sauditi, che governano come un monarca con i propri vassalli, la politica iraniana è la non interferenza, l’acume nel consigliare e non dirigere, nel sostenere e non dettare, rendendo la Repubblica islamica così attraente e il suo ombrello ideologico così ampio. Proprio mentre l’Arabia Saudita s’impone con la paura, usando martello e spada contro tutte quelle nazioni che considera sue proprietà, l’Iran si presenta da sua perfetta polarità alternativa. Ora che tanti si sono riuniti a denunciare l’egemonia e la tirannia dell’Arabia Saudita, l’edificio degli al-Saud inizia creparsi, e le sue fondamenta sono afflitte da pressioni politiche, economiche, sociali e religiose. Tutto ciò che ha fatto l’Arabia Saudita in modo formidabile, si sta lentamente disfacendo. La sua posizione di guida religiosa è offuscata dall’accusa di aver ideato il malvagio SIIL, la sua economia è sull’orlo del collasso, la sua società implode sotto la sferza del settarismo e dell’ingiustizia sociale, la sua posizione di super-potenza regionale è contestata da Iran e Turchia.

Il Grande Jihad dell’Iran

Dopo la filippica sulla dissoluzione imminente dell’Arabia Saudita, Zakani ha detto al Parlamento ciò che definisce fase del “Grande Jihad” dell’Iran, indicando l’intenzione dell’Iran di progettare ed esportare nella regione il proprio modello rivoluzionario islamico, avanzando ciò che ritiene essere emancipazione politica, sociale e religiosa entro i parametri della fede musulmana. Il Jihad non è da intendersi come sinonimo di guerra, ma piuttosto come campagna ideologica. È interessante notare che gli studiosi religiosi spesso sostengono che il vero Jihad, come indicato dalle Scritture, non abbia nulla a che fare con la guerra, ma piuttosto con “la conversione soft”. Zakani ha sottolineato che questa fase del grande Jihad “richiede una politica speciale e un approccio cauto perché può causare molte ripercussioni”, sottolineando che la decadente e decrepita Arabia Saudita è vittima della sua corsa al controllo e della cieca convinzione che il denaro infine s’impone. Acuto stratega, Zakani avverte che in realtà l’Iran “sostiene movimenti operanti nel quadro della rivoluzione iraniana, ponendo fine all’oppressione e aiutando gli oppressi del Medio Oriente”. In altre parole l’Iran agirà da leader delle nazioni e non da despota o dittatore politico. A differenza dell’Arabia Saudita, l’Iran vuole essere l’asse del cambiamento, promotore della transizione politica. Prima della rivoluzione islamica del 1979, il Medio Oriente era divisa tra due polarità dell’asse statunitense: la teocrazia assoluta dell’Arabia Saudita e la laica Turchia repubblicana. Apparve l’equazione manifestata dall’Islam politico sciita nel quadro del sistema repubblicano. Dopo tre decenni la Turchia è divenuta l’ombra secolare di se stessa e l’Arabia Saudita affronta un dissenso diretto. L’Iran, nonostante l’animosità estera e le sanzioni economiche, vede la propria attrazione regionale espandersi in modo esponenziale, il suo impeto alimentato dal sempre crescente vuoto lasciato da quelle potenze che si ritenevano troppo grandi per cadere. “Ora ci sono due poli, il primo è guidato da Stati Uniti ed alleati arabi e il secondo dall’Iran e dagli Stati che hanno aderito al progetto della rivoluzione iraniana“, ha sottolineato Zakani. Indipendentemente da come ci si ponga verso l’Iran o dai pregiudizi assunti verso la Repubblica islamica, il Medio Oriente di oggi è più persiano che mai.


Catherine Shakdam è direttrice associata del Centro Studi sul Medio Oriente di Beirut e analista politica specializzata in movimenti radicali, per la rivista online “New Eastern Outlook“.

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