Originale: Le Monde Diplomatique
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29 marzo 2014

Tunisia: cambiamento, ma senza cambiamento
di Serge Halimi
Traduzione di Maria Chiara Starace

Le rivolte arabe in Egitto, Siria e Libia, non  hanno avuto un esito felice e questo  lascia la Tunisia come l’unica fonte di possibile ottimismo nella regione. Nessuna delle aspirazioni sociali che hanno  suscitato la sua  insurrezione del dicembre 2010 è stata  soddisfatta,   però, dopo una lunga crisi politica, e l’uccisione di due membri di sinistra del parlamento in sei mesi (1), la Tunisia ha una nuova costituzione, approvata da 200 dei suoi 126 parlamentari, e un governo tecnocratico di unità nazionale. Le tensioni sono diminuite  e c’è una relativa calma.

Gli oppositori del movimento islamista Ennahda temevano che si sarebbe radicato nell’apparato statale, riportandolo alla dittatura. L’Ennahda ha abbandonato la sua posizione così pacificamente come era venuta, essendo stata gentilmente invitata a “ritirarsi” dal Fondo Monetario Internazionale, dall’Algeria, dai paesi occidentali (compresa la Francia) dalla potente confederazione dei sindacati, dai capitani di industria, dalla sinistra rivoluzionaria, dal centro-destra, dalla Lega per i  Diritti Umani….

Presumibilmente l’Ennahda ha ceduto alle pressioni sapendo che il suo “curriculum” era misero  e che l’ambiente internazionale era sfavorevole agli islamisti (cacciato militarmente dalla presidenza dell’Egitto, screditato in Turchia). L’articolo 148 della costituzione  stipula che prima della fine del 2014 deve aver luogo una nuova elezione in Tunisia. La rivoluzione è esclusa dai programmi, ma il paese può forse iniziare di nuovo a pensare che una qualche dose di felicità sia raggiungibile nel mondo arabo dove essa scarseggia.

Aver portato gli islamisti nella “congregazione”  politica è stata una scommessa che ha avuto un buon risultato? Certamente per coloro che sostenevano che l’essere arrivati al potere non sarebbe stato irreversibile. E certo anche per i loro nemici che hanno presagito che una volta arrivati al potere avrebbero rivelato la loro ossessione per l’identità e la religione,  e le limitazioni della loro politica economica e sociale. “Con [gli islamisti] siamo prima di Adam Smith e di David Ricardo,” mi ha detto Hamma Hammami, portavoce del Fronte Popolare di sinistra. “L’economia politica dei Fratelli Musulmani è un’economia basata sul reddito, si occupa di  commercio parallelo. Non si occupa della produzione o della creazione di ricchezza, dell’agricoltura, dell’industria o delle infrastrutture; e non si occupa di riorganizzare l’istruzione a scopi strategici, sia economici, scientifici o tecnologici.”

Il punto debole è l’economia

E’ chiaro che un “modello di sviluppo” (prendo a prestito un termine del programma politico elettorale dell’Ennahda del 2011) richiede qualcosa di più di slogan vuoti – “creare nuovi mercati per i nostri bene e i nostri servizi”, “semplificare le procedure”, “diversificare gli investimenti per progetti più utili” – e di devoti appelli  per “far rivivere i nostri valori luminosi derivati dall’eredità culturale e di civiltà della società tunisina e della sua identità araba e islamica, che onorano lo sforzo e il bel lavoro, incoraggiano l’innovazione e l’iniziativa e ricompensano le persone creative e rafforzano la cooperazione, la solidarietà e l’appoggio reciproco” (2).

Houcine Jaziri, membro dei due recenti gabinetti islamisti, ha riconosciuto questo: “Il punto debole dell’ Ennahda è l’economia. Siamo stati presi di più dalle questioni morali. Abbiamo troppi politici nei nostri ranghi e non abbastanza economisti. Altri hanno lavorato su questi problemi molto più di noi….Siamo stati fortunati ad aver dovuto pensare a queste cose quando siamo diventati parte del governo.”

Giustamente. Ma negli scorsi tre anni, l’attenzione della maggior parte dei partiti tunisini, non soltanto del movimento Ennahda, era puntata altrove. “I burrascosi periodi politici che abbiamo attraversato”, ha detto l’economista Nidhal Ben Cheikh, “sono stati rilevanti per la discussione di argomenti che sono relativamente taboo in Tunisia: religione, fede, il sacro, la sessualità, l’omosessualità. Il ruolo delle donne.  I fondamenti della nostra economia politica, tuttavia, non sono stati mai discussi, tanto meno messi in dubbio. Di conseguenza i governatorati [le provincie] dove la rivoluzione – la rivolta politica e sociale – si è affermata: Kef, Kasserine, Siliana, Tataouine e Kebili, soffrono ancora di un’orribile mancanza di attività economica locale” (3).

Il capo dell’attuale coalizione anti-islamista Beji Caid Essebsi, è stato anche nel governo del dopo Ben Ali. Invece che trarre vantaggio dalla sua popolarità e dall’entusiasmo dei primi pochi mesi (mentre si parlava tanto della Rivoluzione dei Gelsomini), per eliminare le politiche neoliberali del suo predecessore, si è circondato dei ministri tradizionali che conservavano il vecchio modello economico, per il diletto del Fondo Monetario Internazionale (4). Di conseguenza, Caid Essebsi riconosce che “in alcune regioni che sono state emarginate per lungo tempo perché l’attenzione si è concentrata molto di più sulle aree costiere, non c’è stato alcun miglioramento.”

Fin dal 2011 non c’è stata alcuna deviazione da questo corso: integrare la Tunisia nella divisione internazionale del lavoro, offrendo agli investitori stranieri dei lavoratori esperti, e miseri livelli salariali. Questo modello può soltanto perpetuare le enormi disuguaglianze nella regione. Non offre uno sviluppo che dia la priorità ai bisogni del paese, spinto dagli investimenti statali e sostenuto dalla domanda locale che non è alimentata dal debito. E quindi è probabile che l’economia sommersa e il contrabbando crescano (riducendo le ricevute fiscali), che lo stato riduca i prezzi,      e che le cellule jihadiste sfruttino la situazione. “Gli Stati Uniti, grandi difensori del neoliberalismo, hanno permesso la nazionalizzazione delle loro banche [durante le crisi del 2008],  ma la Tunisia nel suo periodo rivoluzionario ha escluso le misure rivoluzionarie,” ha detto mestamente Ben Cheick.

Incontrare Rachid Ghannouchi, il capo dell’Ennahda, e Caib Essebsi, il fondatore e presidente di Nidaa Tounes  (Appello della Tunisia), evidenzia l’assenza di una coraggiosa strategia nella politica tunisina contemporanea. Alla superficie, questi reduci che dominano il panorama politico non hanno nulla in comune. Il quartier generale di Ghannouci è pieno di foto di lui con i leader e gli intellettuali islamisti.

(Tariq Ramadan, l’ex presidente egiziano Mohammed Morsi, il Primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan) e l’emiro del Qatar. Il tema nell’ufficio di Caid Essebsi è Habib Bourguiba (5) – un suo busto, un grande manifesto sul muro e una foto incorniciata sulla scrivania di Essebsi. Secondo Ghannouchi (che Bourguiba voleva condannare a morte), Bourguiba – il “combattente supremo” e fondatore della moderna Tunisia – è l’uomo che si è impegnato nella “guerra contro l’Islam e la “Arabicità” (6).

‘La Tunisia non si è mai sottratta al suo debito’

Le differenze tra i due uomini sono di gran lunga meno pronunciate riguardo ai grossi problemi economici. Sulla restituzione del debito estero  provocato da  Ben Ali e in parte sottratto dai membri della sua cricca, Caid Essebsi mi ha detto: “La gente parla del debito che però non è catastrofico, dato che è inferiore al 50%. Altri paesi, come la Francia, hanno una proporzione dell’85%” (7). Ha aggiunto rapidamente che “un paese che ha rispetto di se stesso paga i suoi debiti, chiunque sia al potere. Fino dall’indipendenza, la Tunisia non si è mai sottratta al suo debito.” Questo è ciò che  mi ha detto Ghannouci il giorno prima: “La Tunisia ha una documentazione di lunga data di solvenza dei  suoi debiti. Ci atterremo ad essa.”

Servire il suo debito è un onere pesante per questo paese povero: è la terza voce più grande nel bilancio della Tunisia (4,2 miliardi di dinari  tunisini, cioè 2,66 miliardi di dollari nel 2013). La seconda voce più grande di 5,5 miliardi di dinari (3,48 miliardi di dollari nel 2013) è la Cassa generale di Compensazione (Caisse Général de Compensation  – CGC), uno schema di sussidio per il cibo e l’energia. A tutti piacerebbe ridurlo, ma nessuno sa come, e riguardo a questo c’è poco da scegliere tra gli Islamisti e i loro oppositori. La loro prudenza è comprensibile: è un argomento incendiario.

La CGC è stata istituita nel 1970. Da allora l’aumento dei prezzi mondiali del petrolio e del grano hanno spinto il suo costo a livelli esorbitanti. Il Fondo Monetario Internazionale ha ripetutamente chiesto che venisse ridotta, in attesa della sua abolizione; però i partiti politici della Tunisia temono l’inflazione e la rivoluzione se

assecondano questa richiesta.  La CGC non è un successo di politica sociale; Ben Cheick ha fatto notare che il suo scopo principale era di rendere politicamente sostenibile una strategia neoliberale per incoraggiare l’industria fornendo lavoro a basso costo. Per attirare gli investitori, la Tunisia ha accettato che lo stato finanzi una parte del costo della vita dei lavoratori. Quindi, per oltre 40 anni, i lavoratori delle industrie tessili, meccaniche ed elettriche non hanno ricevuto un salario decente, ma sono stati in grado di comprare farina e benzina  sono parzialmente pagate con i fondi pubblici.   Come è stato possibile per tutti gli altri. La pasta e il couscous nei ristoranti e negli alberghi per turisti, sono pagate con i fondi pubblici,  come anche le bollette del carburante per i veicoli libici che “tracannano” benzina, e l’energia (spesso importata) usata dagli stabilimenti di cemento spagnoli e portoghesi. Ghannouci ha riconosciuto che è “un grande onere per il nostro bilancio,” e ha detto: “Abbiamo bisogno di trovare una soluzione ragionevole, non a causa della pressione da parte delle istituzioni internazionali, ma perché la spesa non può essere sostenuta a questo livello.” Caid Essebsi è stato d’accordo: “ Sarebbe meglio rivedere il bilancio per favorire altre priorità.”

Ma come possono essere reindirizzati i costi della CGC verso investimenti produttivi in regioni dell’interno senza danneggiare immediatamente i Tunisini più indigenti che lo stato non ha altro modo di aiutare?  Quando viene sollevato questo argomento –facendo pressioni – da boss, sindacalisti, Islamisti e dal Nidaa Tounes, sembrano soddisfatti  di aspettare e vedere. Criticano gli abusi senza proporre soluzioni. Quando si domanda loro se un futuro governo dovrebbe abolire  la CGC, Wided Bouchamaoui, la presidente dell’Utica  (il Sindacato tunisino per l’industria, il commercio e l’artigianato, l’organizzazione dei datori di lavoro), ha detto: “Mai! Ci sarebbero tumulti in tutto il paese. Nessuna forza politica oserebbe farlo.” Ha aggiunto: “Non è quello che stiamo chiedendo.”

‘La maggior parte della gente non ha una macchina’

Due terzi della CGC servono per la benzina. Ma, dice Houcine Abassi, presidente dell’UGTT (Sindacato generale tunisino del lavoro), la maggior parte della gente non ha una macchina, sia che abbiano un lavoro oppure no. Quindi non beneficiano dei sussidi per l’energia. E quando le persone della classe media hanno un veicolo…pagano lo stesso per la loro benzina [1,57 dinari– (2,66 dollari) al litro] di chi ha quattro o cinque automobili di lusso in una sola famiglia.” Ipotizzando che il problema abbia origine proprio dal sovvenzionare le limousine dei miliardari, come si    per risolverlo?  “Quella,” mi ha detto Abassi, è responsabilità del governo. Abbiamo dei suggerimenti, ma siamo un sindacato, non lo stato, che ha risorse, esperti  consulenze. Tocca a loro cercare una strategia.”

Il Fronte Popolare ha un piano economico dettagliato che include il reclutamento di ex impiegati statali per il ministero della finanza  per combattere le truffe e il contrabbando, una tassa del 5% sui profitti netti delle compagnie petrolifere, la sospensione dei pagamenti che servono il debito estero in attesa di accertamento, una revisione delle tasse a favore di chi ha guadagni inferiori, e una fine del segreto bancario. Però, quando si arriva a parlare del CGC, il loro piano è meno coraggioso.

Hammami mi ha detto: “Ognuno sa che il fondo di compensazione è intoccabile.” Il governo sta con discrezione cominciando a fare considerevoli riduzioni   specialmente sui costi del carburante, e ognuno guarda dall’altra parte, verso le elezioni imminenti.

A livello politico i confronti sono stati sospesi dopo la formazione del nuovo governo, ma la battaglia è andata avanti con altri mezzi. Il consenso attuale dipende da un fragile equilibrio di potere. Future alleanze incerte cercano di anticipare i risultati dell’elezione. Ghannouci usa questa incertezza e l’instabilità della regione per convincere la sua base popolare spesso scettica che lo appoggia del buon senso della sua strategia di conciliazione. Giudicando il paese “troppo fragile” per un confronto tra governo e opposizione, vuole che l’elezione produca “se possibile, una coalizione con ciascuno”, o, mancando questa, “con il maggior numero possibile di partiti”. Non soltanto una semplice maggioranza, ma [una coalizione che comprende] la società civile, i sindacati, e le organizzazioni dei capi. Ennahda farebbe parte di ogni governo.”

Caid Essebsi  sembra essere in una posizione di forza. Il gruppo di cui è alla guida è vario – un misto di reti di simpatizzanti di Ben Ali e del  e di attivisti dei sindacati e progressisti (il Segretario Generale di Nidaa Tounes [il maggior partito dell’opposizione, n.d.t.)],  Taieb Baccouche, era stato segretario generale dell’UGTT, Sindacato generale tunisino dei lavoratori) – ma occupa il centro della scena. Il partito islamista sta cercando un’unione nazionale senza escludere nessuno; il Fronte Popolare vuole contrastare quello che Hammami chiama il “pericolo dispotico di Ennahda” ha continuando la sua azione congiunta con il Nidaa Tounes. Che cosa deciderà di fare il Nidaa Tounes? Mentre Caid Essesbi.

“Ci sono timori che Nidaa Tounse formerà un’Alleanza con l’Ennadha,” ha detto Abdelmoumen Belanes, vice segretario generale del Partito dei lavoratori, che fa parte del Fronte Popolare. “L’idea dell’Occidente è che ci sono due grandi forze e che la stabilità richieda che formino un’alleanza.” La paura che gli islamisti suscitano nella sinistra, non è diminuita. “Fin dalla sua creazione, la tattica dell’Ennadha è rimasta la stessa,” ha detto Hammami. “Dove incontra resistenza, si tira indietro. Lo scopo, però resta quello di islamizzare, di imporre la linea dei Fratelli Musulmani che è retrograda, dispotica e dittatoriale.” La strategia che Hammami difende, deriva da questa diagnosi: l’alleanza anti-islamista deve continuare e invocare la priorità della democrazia; si deve chiarire che ottenere questa priorità richiede urgenti misure sociali, e va affermato che tutte le forze “democratiche” sono ”d’accordo sulla necessità di mitigare le conseguenze della crisi  economica sulle masse.”

Però, ha domandato Michael Ayari, ricercatore nel gruppo Internazionale di crisi, che cosa ne pensa la base popolare? E gli attivisti? I membri  dell’Ennadha che hanno visto il loro partito abbandonare il potere senza aver perso un’elezione? E coloro che fanno parte del Nidaa Tounes che il cui presidente  ha escluso di governare con gli islamisti, per il piacere del Fondo Monetario Internazionale? E i membri del Fronte popolare che cui è stato chiesto di difendere la democrazia insieme ai boss e agli ex sostenitori di Ben Ali? I leader del partito sono occupati a creare alleanze, prevedendo l’assegnazione di posti di lavoro e tranquillizzando gli investitori. E l’equilibrio politico risulta, il che è ragionevole, perfino invidiabile, in una regione ancora agitata. Ma quanto può durare, se, tre anni dopo la “rivoluzione”, i problemi sociali  ed economici che ha prodotto restano non affrontati?

Note

(1) Vedi: Serge Halimi, Tunisia’s revolution annexed”,  [ La rivoluzione della Tunisia annessa], Le Monde diplomatique, English edition, March 2013.

(2) “Per la libertà, la giustizia e lo sviluppo in Tunisia”, il manifesto dell’Ennahda, Tunisi, settembre 2011.

(3) Secondo ben Cheikh, soltanto 6 compagnie medie o grandi, hanno sede a Siliana, mentre a Manouba, a 100 km. di distanza, ce ne sono 322.

(4) Per esempio, Dominique Strauss-Kahn quando era il capo del Fondo Monetario Internazionale, nel novembre 2008 ha detto: ”La politica economica  che si sta portando avanti [in Tunisia] è sana, e penso che sia un buon esempio per i paesi in via di sviluppo.

(5) Habib Bourguiba (1903-2000) è stato una figura centrale nel movimento di indipendenza della Tunisia, ed è stato il primo Primo Ministro del paese (1957-1987). (6) “Rachid Ghannuchi: islam, nationalismo et islamismo”: (Islam, nationalism and Islamism), intervista con François Burgat, Egypte/Monde arabe, no 10, Cairo, 1992, pp 109-22.

(7) Il debito nazionale della Tunisia è il 46% del PIL. La cifra francese corrispondente è il 93,4%.

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/tunisia-change-but-no-change

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