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08 ottobre 2014

15 morti per le proteste kurde anti-Isis
di Marina Zenobio

In tutto il paese manifestazioni anti-Isis represse nel sangue dalla polizia turca. Coprifuoco nelle enclavi kurde del paese. Connivenze turche con l’Isis.

Mentre i kurdi dell’enclave di Kobane (in territorio siriano al confine con la Turchia) tentano di resistere con ben poche speranze all’avanza dell’Isis, diverse città turche si sono trasformate in campi di battaglia sui quale sono rimasti i corpi di 15 kurdi, questi non uccisi dall’Isis ma dalla forze antisommossa di Erdogan, il presidente turco. Il senso di impotenza, la disperazione, la rabbia tra la popolazione kurda in Turchia è esplosa ieri sera per chiedere un maggior coinvolgimento turco contro l’offensiva dell’Isis, di appoggiare con uomini, armi e munizioni la resistenza kurda di Kobane. Invece la armi sono state usate contro di loro.

Otto persone sono morte nella città orientale di Diyarbakir, le altre tra Mardin, Batman e altri centri vicino al confine con la Siria. Ora le cinque province sud-orientali della Turchia, a maggioranza kurda, sono sotto coprifuoco. Ma il Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan che da 30 anni si batte per l’indipendenza in Turchia) ha chiamato la comunità curda a tornare in piazza, mentre i suoi combattenti, a Kobane, resistono disperatamente. Da qui si fa luce sulle ritrosie di Erdogan a fornire appoggio diretto alla resistenza kurda contro l’Isis.

Ieri anche in molte città europee i kurdi hanno protestato, a Bruxelles un gruppo è riuscito a fare irruzione nella sede del Parlamento europeo. Ma l’imputato principale, per i kurdi, resta Erdogan, accusato di aver abbandonato Kobane e di aspettarne la caduta definitiva nelle mani dell’Isis.

Erdogan ha sostenuto “Il terrorismo non sarà fermato con attacchi aerei” dichiarandosi anche disponibile ad una offensiva terrestre contro l’Isis in Siria, ma non da solo. La Turchia si è messa quindi in attesa della coalizione internazionale, che fa capo agli Usa, per fare incursione in territorio siriano, ed ha già girato alla Nato la richiesta di un piano di difesa della Turchia in caso di attacco jihadista.

La caduta di Kobane, per la sua posizione strategica, sarebbe il pretesto per il raggiungimento dell’obiettivo di Ankara, che poi è anche quello degli Usa: entrare in Siria per far cadere il presidente Assad, non per distruggere l’Isis. Per questo ieri Erdogan è tornato a parlare di no-fly zone sul cielo siriano, necessaria ad impedire all’aviazione di Damasco di alzarsi in volo, e di una zona cuscinetto in cui addestrare le opposizioni ad Assad.

D’altronde la Turchia, come l’Arabia Saudita, è tra quei paesi dell’area accusati di avere permesso, se non sostenuto, la crescita dell’Isis e il passaggio di armi e miliziani. Proprio sulle connivenze di Ankara con il gruppo jihadista, ieri la Gran Bretagna ha chiesto chiarimenti ad Erdogan sulla notizia di 180 miliziani dell’Isis curati in ospedali turchi e poi liberati in cambio di 49 ostaggi catturati a Mosul lo scorso giugno.

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