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ott 14th, 2014

L’affaire Kobane pesa su Edogan. Il cui immobilismo gli costerà il trono di rais
di Dario Rivolta
Già deputato, è analista geopolitico

Verso la fine della seconda guerra mondiale l’esercito tedesco ripiegava su tre dei suoi fronti aperti. A ovest e a sud furono le truppe alleate ad obbligarli a retrocedere, a est l’Unione Sovietica. I soldati dell’armata rossa erano avanzati in Polonia e arrivarono fino alle porte di Varsavia fermandosi sulle rive della Vistola. Al di là del fiume, ove giaceva la capitale, la resistenza polacca non comunista era insorta e stava combattendo duramente contro la feroce repressione dei tedeschi. Soltanto quando fu chiaro che l’esercito del Reich aveva massacrato i combattenti locali, le truppe sovietiche attraversarono il fiume e conquistarono finalmente la città.
I carri armati turchi schierati sulle colline subito fuori Kobane stanno seguendo esattamente la stessa tattica: non intervengono, restano a guardare avanzando giustificazioni di vario genere e lasciano che i curdi che stanno difendendo la città, poco a poco, vengano sterminati.
Tra le motivazioni ufficiali primeggia quella secondo cui un loro intervento militare nella lotta contro i jihadisti potrebbe avvenire solamente se tutte le forze alleate intraprendessero, contemporaneamente, la battaglia per scacciare definitivamente Bashar al-Assad. Altre ragioni, non dichiarate ma verosimili, riguardano la paura che un’esposizione diretta contro il sedicente Stato Islamico possa portare attentati terroristici sul proprio territorio.
Entrambe queste motivazioni però non bastano a giustificare il perché, oltre a non intervenire direttamente, l’esercito turco impedisca, anche con la forza, ai volontari curdi di Turchia di raggiungere i loro fratelli d’oltre confine per aiutarli nella difesa della città.
Alle precedenti va quindi aggiunta almeno un’altra ragione per spiegare l’inazione turca, e cioè che una vittoria dei curdi a Kobane e il respingimento dei jihadisti dalla zona aumenterebbero le probabilità che in Siria, e proprio a ridosso della frontiera con la Turchia, nasca una nuova regione amministrata solamente da curdi. Appare ovvio ad Ankara che se una seconda regione autonoma curda si aggiungesse a quella già esistente nel nord dell’Iraq, le spinte separatiste interne alla stessa Turchia possano ricever nuova linfa. E’ per evitare anche questo rischio che, davanti agli occhi increduli del mondo che li osserva, i turchi restano a guardare mentre i terroristi islamici conquistano, poco a poco, settori sempre più ampi della città, condannando a morte gli ultimi suoi strenui difensori.
Di questo fatto sono ben consapevoli quei curdi che contestano Erdogan proprio per il mancato aiuto a Kobane; questa consapevolezza è confermata dalla dichiarazione di Ocalan, che ha minacciato Erdogan della fine di ogni possibile dialogo di pace qualora Kobane dovesse cadere.
Erdogan aveva contato moltissimo su un possibile accordo con i turchi di etnia curda ai fini del referendum costituzionale che dovrebbe garantire al presidente poteri molto più ampi degli attuali. I curdi in Turchia sono circa 20 milioni e rappresentano perciò un quarto della popolazione del Paese. Il loro consenso nel voto è quindi molto importante, se non indispensabile, e, per ottenerlo, il rais di Ankara aveva promesso (ma solo parzialmente mantenuto) il riconoscimento ufficiale alla loro identità . L’”affaire” Kobane diventa quindi un ostacolo molto grave per la sua strategia e potrebbe mettere a rischio anche la desiderata approvazione del prossimo referendum costituzionale.
Non sarebbe questo né l’unico né l’ultimo smacco per la politica turca degli ultimi anni. Se volessimo infatti allargare lo sguardo, le contraddizioni in cui versa Ankara sono divenute una somma continua di errori e di fallimenti, a partire dalla dichiarata volontà di “buoni rapporti con tutti i vicini” per arrivare alle relazioni irrimediabilmente rovinate con Egitto ed Israele e alla ormai negativa considerazione di cui la Turchia gode presso le popolazione arabe.
L’unico successo riportato, per ora, è in politica interna ove, anche grazie alla complicità di un’Europa che aveva creduto alla sua buona fede, ha potuto ridimensionare potere di magistratura ed esercito, schiacciando, contemporaneamente, il fondamentale concetto di laicità dello Stato e riportando l’islam turco ai tempi di pre-Ataturk.
In politica, comunque, l’ultima parola non è mai detta e le variabili sono sempre troppo numerose ma, se si rilegge oggi il libro dell’attuale primo ministro Davotoglu nel quale sognava una Turchia neo-ottomana, ciò che ne resta è ben poca cosa e la diffidenza degli alleati nei suoi confronti sta diventando sempre maggiore.

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