Originale: afterimageonline

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21 agosto 2014


Considerare esseri umani i giovani del Centro America

di David Bacon

Traduzione di Maria Chiara Starace

Oggi le facce e i corpi tatuati dei membri delle bande del Salvador sono messe in mostra per i lettori dei giornali e delle riviste statunitensi ed europee in modo molto simile a quello in cui le immagini dei popoli indigeni tatuati della Nuova Guinea erano usate per solleticare i lettori del National Geographic all’alba della fotografia, più di un secolo fa.
I giovani salvadoregni sono rappresentati dietro le sbarre o con delle armi, proprio come le persone etichettate come “selvaggi” una volta si mettevano in posa con le lance. Questa è la disumanizzazione degli indigeni. Anche il linguaggio che accompagna le immagini ha lo stesso sapore dell’esotico, del pericoloso, e dello “altro”-qualcosa per spaventare gli spettatori tranquilli della classe media con quello che sembra uno sguardo nell’interno di un mondo alieno e violento.
Gli abitanti della Nuova Guinea venivano rappresentati come cannibali assetati di sangue. Oggi il National Geographic presenta il documentario televisivo del 2011 Salvadoran Gang Violence [Violenza delle bande salvadoregne] sostenendo che “El Salvador è una delle nazioni più violente sulla terra con 10 volte la percentuale di crimini rispetto agli Stati Uniti, e tutto ciò grazie alla bande di importazione.”
In Centro America c’è violenza, in gran parte conseguenza della disuguaglianza sociale e della povertà. Però la violenza a El Salvador, in Guatemala, Nicaragua e Honduras, è spuntata dappertutto a causa della politica degli Stati Uniti di appoggio alle guerre contro i movimenti popolari che vogliono cambiamenti sociali. L’enorme dislocazione sociale e la violenza sono oggi eredità di quelle guerre, non soltanto in America Centrale, ma anche negli Stati Uniti.
Quella violenza è l’argomento del libro di Donna De Cesare /Unsettled/Desasosiego [Inquieti/Inquietudine]. La De Cesare ha trascorso 20 anni facendo fotografie di giovani salvadoregni, le quali documentano l’impatto della violenza nella loro vita. Il suo lavoro è tanto lungi dallo stereotipo dei media di quanto si possa immaginare. Chiaramente ama la gente del Salvador le cui vita ha intersecato la sua, e il suo coinvolgimento con questa e il suo impegno verso di questa si estende per molti anni. La sua preoccupazione è di mostrare l’umanità di quella che è ora una comunità salvadoregna con due nazionalità che cerca di affrontare le conseguenza della guerra e dell’emigrazione.
Il suo libro Unsettled/Desasosiego: Children in a World of Gangs [Inquieti/Inquietudine: Bambini in un mondo di bande], contiene 105 immagini in bianco e nero riprodotte benissimo, ed è diviso in tre parti. Le prima rappresenta immagini che la De Cesare le ha scattato durante la guerriglia degli anni ’80. Le seconda parte documenta le vite di giovani profughi quando facevano parte della vita delle gang di Los Angeles. La terza ritorna a El Salvador per esaminare i risultati della massiccia deportazione di giovani in un paese che a malapena conoscevano quando lo avevano lasciato da bambini.
Le immagini di guerra della De Cesare non sono scene di battaglia, ma scene che mostrano l’impatto che ha la guerra ha sulla gente comune. In una, un gruppo fugge lungo una strada del San Salvador, agitando camicie e bandiere, presumibilmente verso aerei governativi che volano sopra di loro mentre stanno bombardando il loro quartiere durante un’offensiva della guerriglia. In un’altra, un bambino piange per il terrore di un elicottero che non si vede. Un ritratto crudo mostra un bambino che guarda fisso nella macchina fotografica intanto che tiene in mano un frammento di bomba di mortaio. I soggetti della De Cesare non sono simboli anonimi, ma persone che reagiscono individualmente con rabbia, terrore o determinazione.
I giovani rappresentati nel libro non sono soltanto vittime di violenza. Un uomo ha in mano un fucile tenuto insieme con del nastro adesivo e ovviamente le sue simpatie vanno alla guerriglia. Questa immagine non critica semplicemente il modo in cui la guerra trascina i giovani, ma mostra questo soggetto giovane che si schiera in un conflitto di cui conosce i rischi. In un altro ritratto, “Gustavo” è seduto in un accampamento in una foresta, essendosi unito al Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martí, dopo che l’esercito aveva ammazzato i suoi genitori.
Oltre due milioni di persone, per lo più giovani, sono fuggiti da El Salvador durante la guerra, e il grosso di questi si è diretto a Los Angeles. La maggior parte ha attraversato il confine tra Stati Uniti e Messico senza avere il visto, in molti casi percorrendo a piedi tutta la strada dal Centro America. Non sono stati bene accetti. La massa di profughi ha reso ovvii i costi reali di una politica omicida che arma l’esercito del Salvador e appoggia gli squadroni della morte governativi nel nome della lotta al comunismo.
A Los Angeles, i salvadoregni hanno trovato lavoro agli angoli delle strade, e come domestici nelle case – le occupazioni più sporche e meno sicure. I loro figli vagavano per le strade di quartieri poveri, come Ramparts, dove la polizia regolarmente li allineava lungo un muro nello stesso modo in cui lo facevano la polizia e l’ esercito e che le famiglie ricordavano quando erano in Salvador.
In una delle fotografie più significative, nella seconda parte del libro della De Cesare, “Agenti dell’immigrazione per l’unità militare che ha il compito di occuparsi delle bande violente, prendono di mira per l’espulsione i giovani immigranti che sospettano possano essere coinvolti nelle bande”, tre adolescenti, con le spalle alla macchina fotografica, si inginocchiano davanti a un muro. Un agente dell’immigrazione ha la mano sul calcio del suo fucile automatico. Un giovane ha le mani sulla testa. Quelle di un altro sono legate con le manette dietro la schiena. Se la didascalia della foto non dicesse che era stata fatta nella zona ovest di Los Angeles nel 1994, si potrebbe pensare che fosse una foto di Ilopango (Salvador) scattata nel 1984, durante la guerra.
La De Cesare non esita a mostrare la violenza e le droghe che sono diventate parte della vita dei giovani a Los Angeles. Ma non li demonizza e ne cerca invece l’umanità. In un ritratto indimenticabile, preso dal basso, riprende Carlos Gonzalez che ha in mano una fotografia di sua madre, uccisa dalle bande in Salvador.
In un altro ritratto la De Cesare guarda dall’alto Ivonne una giovane donna che è distesa su un letto con accanto il suo bambino, mentre legge una lettera del fidanzato, appena espulso a El Salvador. La grafia sulla pagina è convenzionale, simile a quella dei graffiti sui muri delle città (la fotografia successiva mostra graffiti nello stile di quelli di Los Angeles, dato che iniziano a ricomparire a El Salvador). L’immagine trasmette la solitudine e il dolore della separazione che è alla base dell’esperienza degli emigranti salvadoregni.
Questa sezione si conclude con un’immagine dei salvadoregni che protestano in difesa dei loro dritti di immigrati. Hanno costruito una replica di una mitragliatrice, non per esaltare la violenza delle bande ma come “promemoria” della violenza di stato dalla quale fuggivano i salvadoregni venendo negli Stati Uniti.
Infine la De Cesare documenta le conseguenze dell’espulsione su vasta scala dei giovani salvadoregni, iniziata all’inizio degli anni ’90 e che continua ancora oggi. Questo non soltanto ha fatto in modo di dividere ulteriormente le famiglie, ma alcuni dei giovani espulsi allora riproducono la cultura delle bande di Los Angeles a El Salvador. Oggi le immagini sui media dei giovani uomini tatuati nelle carceri salvadoregne, tirano fuori dal contesto questa cultura. I giovani espulsi sono stati trattati come criminali al loro arrivo a El Salvador dai governi di destra ostili ai giovani e ai poveri. La loro polizia Mano Dura si è sviluppata con l’aiuto dell’attuazione di leggi statunitensi, esportando la politiche di Los Angeles contro le bande.
Le immagini della De Cesare mostrano dei giovani presi nella violenza delle bande. E di nuovo le immagini si rifiutano di demonizzarli. La De Cesare non crede che la violenza sia in qualche modo insita nella cultura salvadoregna oppure conseguenza di immaginari difetti razziali e personali. Invece le sue immagini documentano la realtà di comunità spezzate da questa migrazione forzata a doppio senso.
Un gruppo di giovani bazzicano un alloggio temporaneo a El Salvador, un appartamento lasciato da una famiglia che si è trasferita a Los Angeles. I membri di una banda di LA si ritrovano a San Salvador. Un giovane mostra un tatuaggio sulla schiena che rievoca la morte di suo fratello, un abitudine comune negli Stati Uniti. Altre immagini rappresentano giovani uomini senza camicia, tatuati, di fianco a giovani donne sorridenti che sembrano naturali e non in posa, violente o con una sessualità evidenziata. Un’immagine mostra un giovane uomo che tiene in braccio un neonato e che pensa, secondo le parole della didascalia, a come trovare un lavoro, una casa, un futuro.
Questa non è una visione ottimista delle bande. Un giovanotto giace morto nel suo stesso sangue su un marciapiede. Un’altra immagine mostra, nello sfondo, un uomo che tiene le mani sulla testa,
forse in attesa di essere giustiziato, dato che una mano regge una pistola dietro la schiena di una figura in primo piano. In parallelo con l’immagine di Los Angeles, un poliziotto guatemalteco tiene due uomini con le camicie sulla testa, addosso a un muro.
Alla fine il libro include tre immagini che indicano un altro possibile futuro per questi giovani: un rituale famigliare che festeggia un’eredità indigena; giovani donne che scrivono le loro idee per ridurre la violenza, e un insegnante che aiuta uno studente ad apprendere abilità informatiche in un centro comunitario.
La De Cesare non cerca di presentare una visione complessiva degli tutti gli aspetti della vita comunitaria salvadoregna, in ciascuna nazione. Offre al lettore una visione umanistica di un aspetto della vita salvadoregna: come i giovani sono stati influenzati dalla guerra, dalla violenza e dalle espulsioni.
Ma è inquietante che il libro finisca proprio prima che il partito Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale venisse eletto al governo del Salvador nel 2009 (rieletto quest’anno). Il testo della De Cesare cita lo psicologo sociale gesuita Ignacio Martín-Baró che ritiene che affrontare l’impatto della violenza diffusa richiede non soltanto il sollievo della sofferenza individuale, ma la creazione di una società giusta. Se mai c’è una nazione che ha combattuto per una visione del genere, El Salvador certamente lo ha fatto.
Oggi coloro che hanno lottato per questa visione hanno un certo potere di realizzarla. E sono per lo più giovani, come quelli che si vedono nelle fotografie della De Cesare. C’è ora un’alternativa alla vita con le bande e alla povertà, molto simile a quella a cui forse pensava Gustavo quando era seduto nella foresta? Se la gente viene espulsa dagli Stati Uniti con cifre da record, possiamo vedere le facce dei giovani nei quartieri di Los Angeles che ora fanno sit-in di disobbedienza civile, davanti agli autobus che portano i loro amici verso l’espulsione?
Ci sono immagini della vita di lavoro di giovani salvadoregni nel primo libro: ragazzini che raccolgono il caffè sul vulcano Usulután, e un’altra di Dora Alicia Alarcon che ha organizzato un sindacato per i venditori ambulanti di Los Angeles. Indicano che una maggiore documentazione potrebbe approfondire la comprensione del modo in cui questa comunità non soltanto è sopravvissuta, ma è diventata una delle maggiori fonti di attivismo nel campo del lavoro a Los Angeles.
Il libro rende piena giustizia alle immagini e facendo un grosso passo avanti per i libri fotografici, ha un testo completamente bilingue (inglese e spagnolo) cosicché è accessibile alla comunità che la Di Cesare documenta. Tuttavia mette tutte le didascalie delle foto raggruppate in fondo al libro e questo priva le immagini di un contesto importante, e fa perdere il significato politico di alcune di loro. Senza didascalie, un ragazzo con un fucile tenuto insieme con il nastro adesivo, è quasi soltanto un altro bambino con un’arma. Inoltre, alcune immagini occupano due pagine, e questo permette foto più grandi, ma lo spazio bianco formato dai margini interni delle due pagine, rende difficile vedere ogni immagine nella sua interezza.
Unsettled/Desasosiego è una conquista straordinaria e mostra la profondità di comprensione e di documentazione rese possibili da anni di lavoro e di impegno di una brillante fotografa.



David Bacon è un documentarista e scrittore ampiamente pubblicato in California, il cui libro più recente è The Right to Stay Home [Il diritto di restare in patria] (Beacon Press, 2013).



Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org


Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/seiing-central-american-youth-as-human.beings


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