http://it.ibtimes.com
06.03.2014

Indipendenza e lotta al jihadismo: le posizioni curde nel conflitto siriano
di Luca Lampugnani

Nonostante la situazione ucraina abbia monopolizzato l'attenzione di funzionari, osservatori e media di tutto il mondo, Kiev non è certo l'unica 'vittima' del braccio di ferro tra Russia e Stati Uniti. L'eterna rivalità tra i due Paesi si è fatta in più d'un occasione il combustibile per alimentare varie tensioni scoppiate nel corso degli anni, situazioni critiche spesso sfociate in guerre sanguinose ed estenuanti. Esempio lampante e recente di questa realtà è la Siria. A Damasco, infatti, si è assistito ad uno scontro 'freddo' tra il Cremlino e la Casa Bianca che si potrebbe considerare il punto di partenza di quanto sta avvenendo in questi giorni in Ucraina e in Crimea. Ma se ad oggi i venti di guerra diplomatica (e non) che soffiano su tutto l'ex satellite sovietico sono considerati il fronte cui guardare con maggior preoccupazione, lo scenario siriano è tutt'altro che disteso o anche solo minimamente migliorato. Il bilancio dei morti cresce giorno dopo giorno, e il presidente Bashar al-Assad continua a difendere con forza la sua posizione di leadership aiutato (anche) dalle divisioni interne tra i ribelli siriani, realtà frammentaria le cui varie anime sono in conflitto tra loro. E tra forze del regime, gruppi di terroristi legati ad Al Qaeda e non, fondamentalisti islamici e militanti stranieri, attori principali della crisi, troppo spesso lasciati all'oscuro delle cronache, sono i curdi siriani.

Per capire l'importanza e il ruolo che questa minoranza - la più vasta di tutte quelle presenti in Siria, all'incirca 2 milioni di persone che si attestano tra il 9 e il 10% di tutta la popolazione - gioca nella crisi, è necessario inserirla nel suo contesto storico facendo un passo indietro di una cinquantina d'anni. A partire dal decennio dei '60 fino ad oggi - passando per una breve distensione tra '80 e '90, poi ancora nel 2011 -, il rapporto tra Damasco e i curdi è sempre stato travagliato e cangiante. Con l'ascesa del partito Baath, caratterizzato da una forte ideologia nazionalista araba, i curdi subirono una serie di repressioni volte a scongiurare la 'rottura' dell'identità territoriale siriana - venne negata loro la cittadinanza, mentre fu messa al bando la loro cultura vietando scuole curde, l'uso della lingua, di nomi e tradizioni -, minacciata secondo Damasco dalla concentrazione della minoranza in alcune aree specifiche del Paese, principalmente nelle province a nord e nord-est. Le tensioni tra il regime baathista e i curdi, stemperate dall'alleanza siglata tra il 1980 e il 1990 tra Damasco e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), formazione impegnata in un braccio di ferro continuo con la Turchia, raggiunsero l'apice nel 2000 con l'irrompere sulla scena politica di Bashar al Assad, succeduto al padre Afiz che per trent'anni aveva governato autoritariamente il Paese. L'attuale presidente, infatti, anziché seguire la rotta già tracciata dal padre, decise di far veleggiare la Siria verso un riavvicinamento ad Ankara. Questo, ovviamente, portò a nuove repressioni e ad un clima 'caldissimo' tra Damasco e i curdi, tensioni che tra arresti e conflitti sanguinosi culminarono nel 2004 con la morte ad Al Qamishli (città nella provincia di al-Hasake, a grande concentrazione curda) di una trentina di manifestanti.

La situazione continuò su questa falsariga almeno fino al 2011, quando con lo scoppiare della rivoluzione siriana, poi degenerata in guerra tra bande dove a goderne è solo il regime, Assad cambiò decisamente registro. In primo luogo mise mano ad un decreto che diede modo a 360 mila curdi di ottenere la cittadinanza siriana - questa riforma, come altre, fu una delle prime risposte ai venti che cominciavano a soffiare impetuosi sul Paese -, cosa che il regime baathista aveva sempre categoricamente rifiutato e che fece andare su tutte le furie la Turchia, uno dei pochi Paesi pronti a sostenere un intervento armato in Siria dopo l'attacco chimico dell'agosto 2013. Ad ogni modo la minoranza etnica fu parte integrante delle opposizioni al regime di Damasco, con manifestazioni e proteste che per mesi e mesi interessarono quelle città del Paese a forte maggioranza curda. Così, in un estremo atto di pacificazione - più che altro mossa interessata: se anche i curdi siriani si fossero schierati senza se e senza ma con i 'ribelli', le cose per Assad sarebbero potute andare diversamente -, tutte le forze regolari del regime si ritirarono dalle loro posizioni nelle regioni a nord e nord-est del Paese. In questo modo, concedendo di fatto una sorta di autonomia territoriale ai curdi, il regime sperava di ottenere un doppio risultato: concentrare le proprie forze in altri e ben più caldi focolai della Siria, ad esempio Aleppo, e disinnescare la potenziale bomba della minoranza curda. Obiettivo, quanto meno quest'ultimo, raggiunto in pieno. Se ancora oggi infatti si verificano tensioni quando l'esercito sconfina e torna in territorio ormai curdo, è pur vero che la minoranza ha sempre rifiutato (almeno in parte) di aderire con fermezza alle opposizioni, fatta eccezione per quelle operazioni militari volte a difendere i quartieri curdi di Aleppo e Damasco. Insomma, grazie all'autonomia ottenuta nella già citata provincia di al-Hasake, ma anche in quella di Raqqa e Aleppo (aree, va specificato, che non sono contigue), i curdi siriani sono riuscita ad ottenere una sorta di Stato nello Stato, la loro Rojava - tradotto: Kurdistan Occidentale.

Ma nonostante una certa distanza, o quanto meno freddezza, tanto dal regime quanto dalle opposizioni a Damasco più dure - in questo senso i curdi tentano di tenere i piedi in due scarpe, l'unico vero obiettivo è quello di ottenere un domani, quando la guerra sarà finita, una regione assolutamente indipendente -, il fronte curdo conosce profonde divisioni interne soprattutto a livello politico. Quest'ultimo, nella realtà curda, è caratterizzato da una moltitudine di partiti più o meno grossi e rilevanti, ma lo scontro può essere semplificato prendendo in esame il Partito dell'Unione Democratica (PYD) e il Consiglio Nazionale curdo (CNK), teoricamente firmatari di uno storico accordo che ha dato vita al Consiglio Supremo curdo (CSK), organo che sopperisce alla mancanza di un vero e proprio esecutivo che governi l'autonomia della Rojava. Accordo che rischia però di saltare viste le divergenze che incorrono tra i due partiti per quanto riguarda l'appoggio all'opposizione siriana: se il PYD è legato a posizioni più moderate come quelle dell'Organismo di Coordinamento Nazionale (NCB), il CNK ha aderito nell'agosto del 2013 alla Coalizione Nazionale Siriana. Inoltre, tensioni tra i due partiti si sono consumate anche attorno al controllo della Rojava stessa. Il PYD, infatti, ha cercato di monopolizzare il potere politico, reprimendo manifestazioni e compiendo atti di violenza (aiutato dal suo braccio armato YPG, le Unità di protezione popolare che contano numerose donne tra le loro fila) contro cittadini fedeli ad altri schieramenti politici curdo-siriani.

Proprio a causa di questo tentativo di mantenere una certa egemonia sui territori a maggioranza curda, la Coalizione Nazionale Siriana e le brigate jihadiste hanno spesso accusato il Partito dell'Unione Democratica di essere particolarmente vicino a Damasco, voci che ovviamente contribuiscono anche a peggiorare gli strappi all'interno della minoranza etnica. Infatti, se da una parte si può dire che la società civile curda è sufficientemente unita nel contrastare il fondamentalismo islamico di molti rami dell'opposizione al regime (spesso appoggiati dalla Turchia), dall'altra la Coalizione Nazionale ha ribadito più volte, anche durante i colloqui di pace di Ginevra II - per ora assolutamente falliti -, che l'unico vero rappresentate dei curdi è il CNK, cercando così di mettere alla porta il PYD. Del resto, mentre il braccio armato dell'Unione Democratica combatte contro tutto il fronte dei gruppi jihadisti, da al-Nusra allo Stato Islamico di Iraq e Siria, va sottolineato che le scelte politiche del PYD, seppur criticabili dal punto di vista della repressione interna, sono riuscite a mettere al primo posto l'autonomia e gli interessi curdi.

Piuttosto che combattere in altre zone del Paese abbracciando senza se e senza ma un'opposizione dura e pura ad Assad - che nel frattempo, essendo troppo impegnato a contrastare l'avanzata dei ribelli, non può rappresentare una minaccia per il processo di indipendenza curda -, infatti, l'Unione Democratica ha preferito sfruttare la ritirata dei soldati regolari siriani dai territori della Rojava proprio per costruire un'autonomia della stessa. Insomma, mentre a Ginevra II e in altre sedi internazionali di dialogo sia gli Stati Uniti che la Coalizione Nazionale hanno puntano il dito contro il PYD, quest'ultimo porta risultati sul campo riuscendo a mantenere il controllo e l'indipendenza delle zone sotto il suo potere. L'esclusione continua dell'Unione Democratica dai colloqui, inoltre, non fa altro che rafforzare la sua volontà di consolidare il proprio potere sulla Rojava, in modo da garantire che eventuali offerte diplomatiche future, che potrebbero arrivare nel post-conflitto, non comportino imposizioni alla minoranza curda.

Infatti, mentre le controparti siedono a Ginevra nel tentativo di trovare una (difficile, se non impossibile) risoluzione pacifica del conflitto siriano, la quale dovrebbe passare per un governo di transizione che traghetti il Paese fuori dalla crisi, il PYD e i suoi alleati stanno portando a risultati concreti in Siria, cercando di creare così un futuro della Rojava e della sua indipendenza.

top