link al testo della petizione in italiano


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27 luglio 2014

L’appello di padre Paolo è il nostro appello per lui

A un anno dal sequestro di padre Paolo Dall’Oglio, gesuita romano scomparso nel nord della Siria, abbiamo deciso di chiedere a tutti di auspicarne il rilascio rilanciando la sua petizione a Papa Francesco. Nella certezza che questa lettera contenga la riprova di tutto l’amore di padre Paolo per gli arabi cristiani e per le tutte le altre comunità con cui gli arabi cristiani da secoli convivono. Crediamo anche che con questa lettera si esprima al meglio la visione di padre Paolo di fronte all’enorme tragedia che, già prima del suo sequestro, si stava abbattendo su tutto il Medio Oriente. La catastrofe siriana è oggi accompagnata dall’attualità di altre tragedie che sconvolgono il Medio Oriente, da Gaza fino a Baghdad, che non si possono più leggere disgiuntamente.

Padre Paolo aveva visto l’ingiustizia con i suoi occhi in Siria. E in questo appello voleva ammonire tutti di fronte al pericolo reale che la strategia della violenza degli Asad avrebbe prodotto una reazione di violenza diretta, a catena. Padre Paolo sapeva che se la violenza degli Asad non fosse stata condannata e fermata in tempo, saremmo arrivati proprio dove siamo oggi.

Padre Paolo è stato sequestrato a Raqqa. Primo capoluogo di regione siriano a esser stato liberato dalla presenza del regime. Ma il regime si era ritirato deliberatamente, non era stato sconfitto militarmente. Raqqa è comunque diventata  famosa per i promettenti risultati di autogestione locale. Ragazzi e ragazze, osservanti e non, ripulivano le strade e i muri, colorandoli. La popolazione manifestava in strada, chiedendo pubblicamente ai miliziani di andare al fronte e liberare la città dalla presenza delle armi.

Ritirandosi, il regime sapeva bene che avrebbe lasciato Raqqa alla mercé di qaedisti e jihadisti. Il regime conosceva meglio di altri il tumore dello Stato islamico. E anche padre Paolo sapeva quali fossero le minacce. Per questo si è recato a Raqqa prima che diventasse la capitale dei qaedisti. Prima che le donne, che prima coloravano i muri, fossero costrette a vestire di nero. Padre Paolo è andato a Raqqa da solo e nessuno ha sostenuto assieme a lui quelle donne, ora travestite da prefiche che piangono sotto le croci di “martiri” crocifissi dallo Stato islamico.

Padre Paolo non sapeva che di lì a breve lo avrebbero sequestrato. Ma ha avvertito l’urgenza di scrivere questo appello. Perché era certo che rimanere indifferente allo smantellamento di fatto degli Stati mediorientali avrebbe cancellato l’idea di cittadinanza, avvicinando  anche l’estinzione delle comunità cristiane della regione. Un’estinzione inseparabile dalla marea umana di profughi, rifugiati, fuggiaschi disperati, per lo più musulmani sunniti, che oggi cercano di mettersi in salvo, lasciando l’area siro-irachena.

Quando padre Paolo è stato rapito la decomposizione del Medio Oriente non era ancor ben chiara a molti. Eppure lui aveva già compreso che la trappola dell’odio confessionale e la conseguente cacciata delle comunità siriane dalla pianura strategica dell’Oronte avrebbe comportato altre traumatiche pulizie confessionali.

Il mercenario del jihad, Abu Bakr al Baghdadi, si è quindi prestato al disegno di delegittimare la rivoluzione siriana dall’interno. Con la sua opera ispirata dal regime di Damasco, l’autoproclamato “Califfo Ibrahim” ha di fatto legittimato la pretesa di Bashar al Asad di essere “il baluardo contro il terrorismo”.

Poi è cominciato l’esodo biblico che, tra pochi, padre Paolo aveva denunciato. Lui già allora si dimostrava consapevole che quel disegno sarebbe inevitabilmente giunto alla sostituzione degli Stati con “aree omogenee”: una catena di bantustan. In questo Medio Oriente non ci sarebbe stato più posto per la cittadinanza e per la complessità sociale. E quindi neanche per gli arabi cristiani.

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