The Spectator
18 gennaio 2014
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30 gennaio 2014

Padre Paolo, scomodo protagonista di pace in Siria
di Mary Wakefield
Traduzione di Prisca Destro

Alla vigilia della seconda conferenza di pace per la Siria, mentre ci prepariamo alle valanghe di aria fritta in arrivo da Ginevra, ho stilato una lista delle persone coinvolte nella guerra civile che vogliono realmente la pace e di quelle che non ci pensano nemmeno.

È facile individuare chi è contrario alla pace. C’è Bashar al Asad, ovviamente. Hillary se ne è resa conto durante la prima conferenza. Forse ha ragione lei quando sostiene che Asad non dovrebbe fare parte di un eventuale governo di transizione, ma se perde tutto il potere, lui e il suo clan alawita sono finiti. Dunque a cosa gli servirebbe la pace? I ribelli dell’alleanza del Fronte islamico sono l’ultima passione di Washington; sono gli alleati di alcuni estremisti ‘moderati’ che, secondo qualche ottimista della East Coast, dovremmo sostenere, eppure non si può dire che vogliano la pace: odiano l’America e continuano a concentrarsi sulla guerra e sulla sharia.

Poi ci sono i cattivi veri, i ribelli in lotta per una causa globale: al Nusra (affiliata ad al Qaida) e, peggio, i combattenti stranieri dell’Isis, che mirano a creare uno stato islamico tra il nord-est della Siria e l’Iraq occidentale. Qualche settimana fa hanno preso Falluja, perciò stanno davvero facendo progressi. Per l’Isis la pace sarebbe satanica, un affronto al jihad. Il loro ultimo comunicato, che mi sembra andare dritto al cuore della loro filosofia, recita: “Il nostro esercito è pieno di leoni affamati che bevono sangue e mangiano ossa, per i quali niente è più saporito del sangue dei Sahwa [gli altri ribelli]”. Beccati questo, Ginevra!

E dunque, c’è qualcuno in campo che abbia un vago interesse a calmare la situazione? Ci sono i ribelli ufficiali, l’Esercito siriano libero. Sono sulla lista dei favorevoli alla pace, anche se i migliori tra di loro sono disperati e i peggiori sempre più tendenti alle decapitazioni. E poi ci ho messo anche un prete cattolico, Padre Paolo Dall’Oglio.

Forse è assurdo scegliere un uomo solo, ma in Siria le buone notizie si prendono là dove sono, e Padre Paolo potrebbe essere più unico che raro. Se c’è qualcuno che ha la minima possibilità di mettere insieme i ribelli giusti in una Siria post-Asad, quel qualcuno potrebbe proprio essere lui.

Padre Paolo è un gesuita italiano sulla sessantina che si è innamorato della Siria da adolescente e vi è tornato – ha  raccontato – con una vocazione: promuovere la pace tra musulmani e cristiani. È in Siria da trent’anni ormai, a discutere della natura di Dio con sunniti, cristiani, sciiti e alawiti, e a insegnare che i cristiani non dovrebbero semplicemente tollerare i musulmani, ma amarli. Di lui si parla con rispetto in tutto il Paese. Lo chiamano ‘Abuna Paolo’, e durante un mio viaggio in Siria, otto anni fa, persone per il resto piuttosto taciturne sorridevano al solo sentire il suo nome.

Allo scoppio della guerra, molti cristiani sono fuggiti. Una scelta sensata, in effetti, perché essendo spesso considerati alleati di Asad, sarebbero stati vulnerabili qualora egli avesse perso il suo potere assoluto. Padre Paolo non si è mosso. È un sacerdote ma è anche un uomo scaltro, e ha usato la sua conoscenza delle varie confessioni per mediare tra i gruppi in lotta. Ha marciato con l’Esercito siriano libero, ha negoziato il rilascio di prigionieri, ha fatto pressioni a favore dei curdi. Ovunque ci fossero problemi seri, Paolo finiva con l’essere lì, sicuro di poter parlare anche con i rabbiosi jihadisti. Forse qualcuno ricorda le notizie di cristiani cacciati da una città chiamata Qusayr. Bene, c’era Padre Paolo nella mischia, a negoziare con entrambe le parti e a pregare e digiunare per la pace.

Ho incontrato Padre Paolo solo una volta, nel monastero nel deserto da lui restaurato, a nord di Damasco. È un tipo formidabile, carismatico e imponente, con una gran testa, perciò all’inizio me ne sono stata buona ad ascoltare. Mentre il buio scendeva sul deserto, giovani musulmani e cristiani si raccoglievano attorno a lui a discutere della natura di Cristo.

Il giorno dopo, sentendomi più baldanzosa, ho chiesto a Padre Paolo cosa fosse migliore secondo lui: l’Islam o il Cristianesimo. Ha sorriso e ha detto (lo dice il mio taccuino): “Non faccio confronti. Ho un grande rispetto per l’Islam, ma conosco solo la mia esperienza. Ho conosciuto Gesù Cristo, ho camminato con lui e ho scoperto la sua divinità”. Al momento sono rimasta sorpresa, perché mi aspettavo che da noto islamofilo dicesse che ogni cammino va bene, e invece è proprio la fede di Paolo quello che i siriani rispettano. In una terra unita dalla fede, solo il relativismo è davvero sospetto.

È stato nella primavera dello scorso anno che le cose hanno iniziato a prendere una pessima piega nel nord della Siria. Un’alleanza poco coesa di ribelli ha conquistato la città di Raqqa, sulla sponda settentrionale dell’Eufrate, ma mentre i sunniti siriani festeggiavano, gli islamisti stranieri hanno iniziato a dipingere di nero la città. In breve tempo le chiese sono state saccheggiate e la bandiera dell’Isis issata in cima. Poco dopo hanno fatto la loro comparsa improvvisati tribunali che applicavano la sharia e questi ‘leoni’ assetati di sangue dell’Isis hanno dato il via alla loro solita routine di esecuzioni, decapitazioni e torture.

Chi ha avuto il coraggio di affrontare Raqqa? Padre Paolo, ovviamente. Alla fine dell’estate è entrato clandestinamente in città con l’aiuto di combattenti curdi ed è andato a provare a parlare di pace con l’Isis. Non è in fondo – in fondo – folle così come sembra: ci sono molte motivazioni politiche in qualsiasi bagno di sangue confessionale e Paolo è andato a parlare al pezzo grosso locale per raggiungere i ricchi sauditi che (Iddio li benedica!) finanziano l’Isis in Siria e Iraq.

Questa volta a Paolo non è andata bene. L’ultimo filmato in cui compare è su Youtube, a una manifestazione a Raqqa: si vede la sua testa che spicca sulla folla, e lui che la incita, chiedendo la pace. Qualche giorno dopo è scomparso, rinchiuso in una prigione dell’Isis, e da allora: il silenzio. C’è chi sostiene che sia tenuto prigioniero vicino alla diga di Tabaqa, altri pensano che sia morto, ma io credo di no. È una pedina di scambio troppo importante e l’Isis sa quanto vale. Un altro grande gesuita, Papa Francesco, ha pregato per la salvezza di Paolo in occasione della festa di Sant’Ignazio di Loyola lo scorso anno, e per molti versi i due sono simili: Francesco ha scandalizzato il mondo lavando i piedi a un musulmano la scorsa Pasqua e Paolo condivide con il Papa l’amore per i poveri.

Anche se il Papa può salvare Paolo, non riuscirà a tenerlo fuori dalla Siria. Il prete piantagrane sarà irremovibile, e forse questo faccia a faccia con l’Isis è in un certo senso il culmine della sua vocazione. In ogni caso, quando la settimana prossima tutti in tv si dispereranno per l’Isis, ricordate che, nella cella di una prigione in qualche luogo nel deserto, ci sono forti possibilità che Padre Paolo stia portando avanti il suo personale processo di pace.

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