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1 Feb 2014

Padre Paolo, Un prete nella rivoluzione siriana
di Simone Sibilio

Dal centro di Damasco prendevi un service in direzione nord, verso il deserto. Raggiungevi la città di Nebek, nell’area del Qalamun. Da lì con un taxi proseguivi il cammino verso est sulla lunga strada dell’Arqub, attraversando un paesaggio brullo e arso, fino a raggiungere la via del monastero, alle pendici del Monte Libano, che ti spingeva nel cuore della Storia.

Ti inerpicavi sulle pareti rocciose, sotto i raggi cocenti del primo sole estivo, e più la scalata sembrava faticosa, più il monastero, imponente e dai tetti frastagliati, pareva venirti incontro per abbracciarti. Deyr Mar Musa al-Habashi, il Monastero di San Mosè l’Abissino ti dava il suo benvenuto, nel sorriso accogliente della vivace comunità di volontari e visitatori da ogni dove, e nella energica stretta di mano di colui che l’ha rifondato: Paolo dall’Oglio, il prete gesuita da tutti amato e chiamato affettuosamente “Abuna” (Padre).

Nel 1982 Padre Paolo in quel monastero abbandonato e da lui fatto restaurare con l’aiuto di volontari (dal 1984 al 1991) fonda la comunità al-Khalil (“l’amico di Dio”, uno degli epiteti del patriarca Abramo, venerato in tutte e tre le religioni monoteistiche), dando avvio ad un esperimento di dialogo e convivenza inter-religiosa di grande successo presso le diverse comunità confessionali presenti in Siria e al di fuori, coinvolte a condividere la missione. Inserendosi nell’ancora timido dibattito ecumenico sull’opportunità del dialogo islamico-cristiano, l’attività di Padre Paolo aveva il pregio di trasformare una proposta teorica e simbolica, incapace di fare breccia nei cuori delle persone comuni, in una situazione pragmatica, una realtà applicata, che per valori trasmessi e produzione di significati deviava sensibilmente dai binari dell’ortodossia, attirando su di sé i sospetti se non l’ostilità delle istituzioni del Clero cristiano. La sua missione divenne presto un solido riferimento per una moltitudine eterogenea di credenti d’ogni fede abituati a coesistere sotto una stessa bandiera nazionale, ma “meno abituati” a conoscere e a comprendere il credo e le pratiche di fede dell’altro.

Cristiani ortodossi, di rito siriaco, cattolici, musulmani, ma anche atei o visitatori occasionali condividevano lo spazio di una geografia spirituale irriducibile alle divisioni e alle barriere insite nei dogmi e nelle ideologie esclusiviste, partecipando ad uno stesso rito liturgico, suggestivo e performativo, che avrebbe avvicinato al Dio di tutti, anche il più distaccato dei non-credenti.

Padre Paolo, arabista e studioso di Islam oltre che ‘islamofilo’, come amava definirsi lui, aveva raccontato l’esperienza di Deyr Mar Musa già in La sete di Ismaele. Siria, diario monastico islamo-cristiano (Gabrielli Editore, 2011) e in Innamorato dell’Islam, credente in Gesù. Dell’islamofilia,(Jaka Book, 2011). Nell’ultima opera, Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana (Emi, 2013), tradotta dal francese e realizzata in collaborazione con la giornalista Églantine Gabaix-Hialé, il gesuita ci riporta indietro nel tempo alle sue diverse esperienze in Medio Oriente, che fanno da premessa all’avvio di quella decisiva avventura. Ci racconta la genesi e la crescita di quella missione, il suo profondo significato spirituale, sociale e civile, fino alla sua improvvisa interruzione in seguito allo scoppio della rivolta siriana e alle successive intimazioni di Bashar al-Asad che espelle nel 2011 Dall’Oglio dal paese per le sue manifeste posizioni anti-regime.

Ma Collera e luce è anche un libro di denuncia contro i mali che attanagliano il paese, contro la manipolazione della verità e l’atroce repressione di un regime costantemente definito “mafioso”, la minaccia di una irreversibile islamizzazione del paese, provocata dall’esterno, la stagnante inerzia e la slealtà delle grandi potenze mondiali interessate al propri tornaconto e nondimeno, l’ipocrisia della Chiesa. Allo stesso tempo è un’appassionata dichiarazione d’amore e dolore per la Siria, un accorato invito alla resistenza civile, un appello di speranza per la sua rinascita che possa diventare esempio per tutti i paesi musulmani e poi, allargando lo sguardo, un manifesto di sostegno a tutti i popoli arabi in lotta per la dignità, la libertà e la giustizia.

L’amore per la giustizia è un topos in questa sua confessione aperta. La collera e la luce sono le due forze che abitano lo stato d’animo di Padre Paolo, sono forze vive che accendono ed esprimono la tensione tra materia e spirito, immanenza e trascendenza. Sono entrambe forze che s’orientano ed orientano verso l’ideale universale della giustizia. La collera è una pulsione incontrollabile che proviene dal profondo e induce a dedicarsi completamente e ciecamente, a “consegnarsi” nell’accezione islamica del termine, ad una giusta causa, che può essere realizzata soltanto se investita di luce, che non è soltanto fede, ma è capacità di prospettiva, “una forza di visione” (p. 18).

Trascinato da questa tensione, Paolo Dall’Oglio ci racconta la sua Siria degli ultimi trent’anni, le dinamiche interne, i rapporti di forza internazionali, l’ascesa di Hafez al-Assad, il suo sistema repressivo e violento, la continuità naturale garantita dal figlio e la gestione del dossier del multi-confessionalismo fino alle recenti strumentalizzazioni del conflitto in chiave anti-alawita foraggiato da terroristi dell’islam radicale sunnita.

Nel ripercorrere la storia dei rapporti tra i diversi gruppi etnici e confessionali nella regione dello Sham, illustra con franchezza le collusioni tra il regime siriano degli Asad e la Chiesa di Damasco, che ha continuato a sostenere il regime anche dopo gli atroci massacri al fin di preservare lo status quo e la libertà della comunità cristiana di svilupparsi dal punto di vista religioso e cultuale. Ma Abuna riporta anche alcuni esempi eroici di cristiani che hanno preso parte sin dall’inizio alla rivolta anti-sistemica; hanno sostenuto i combattenti rivoluzionari con l’assistenza medica e umanitaria e partecipato alle manifestazioni di protesta, senza rifugiarsi nel loro guscio identitario, bensì aprendosi alle ragioni della collettività, mossi dalla “pietas cristiana”.

La sua aperta denuncia del sistema di tortura e di controllo pervasivo sulla società attraverso apparati di sicurezza e mukhabaràt (Servizi Segreti) è la denuncia collettiva di chi ha subìto per anni pratiche di violenza – raccolte da Padre Paolo in forma di testimonianza –, di chi ha interiorizzato inconsapevolmente la “sottomissione ad un’autorità incontestabile” (p. 44).

Legato alla ricerca di giustizia è anche uno dei punti del suo discorso più suscettibili e controversi, al centro delle veementi critiche, anche comprensibili, di una parte dell’opinione pubblica internazionale, ovvero quello dell’incitamento alla lotta armata per la resistenza contro il regime.

Padre Paolo non ha mai rinnegato il suo punto di vista sulla necessità di armare i ribelli per combattere il regime. In diverse occasioni pubbliche ha fatto appello alle potenze mondiali perché armassero l’Esercito Siriano Libero per autodifesa, suscitando la reazione dei movimenti pacifisti, no war, dei paladini della diplomazia internazionale o della grande massa di osservatori – tra cui chi scrive – che reputano gli interventi militari esterni un male assoluto e una violenza ingiustificabile, che nel salvaguardare gli interessi di chi li compie (e neanche sempre) producono nei paesi target ancora più odio e divisioni (vedi Iraq, Afghanistan solo per citare i casi più recenti).

Il gesuita ritorna su quel punto nodale, interrogandosi in profondità sul concetto di nonviolenza e sull’applicazione della resistenza nonviolenta allo scoppio della rivoluzione siriana. A tal proposito cita esempi di giovani rivoluzionari pacifisti arrestati, torturati, massacrati dall’esercito lealista, il quale ha strategicamente neutralizzato l’efficacia dell’azione nonviolenta, strumentalizzando da subito il dissenso come un’operazione del “terrorismo internazionale e del complotto islamista-sionista-imperialista contro il regime” (p. 76). Padre Paolo ammette con chiarezza: “se è vero che credo nell’azione nonviolenta, nella sua efficacia e nel suo valore morale, non credo invece nel diritto di giudicare l’opzione di autodifesa armata delle vittime di un regime ‘torturatore’ e liberticida come questo, in un’indifferenza mondiale totale”. (p. 70)

Il fallimento dell’azione nonviolenta nel corso dei primi moti di protesta va anche spiegato alla luce del contesto di isolamento regionale e mondiale in cui si è ritrovato il popolo siriano (p. 76). È a partire da qui che bisogna leggere la sua richiesta di armare i ribelli, accompagnata dal duro atto di accusa nei confronti della comunità internazionale, responsabile di “omissione di soccorso”, che a suo parere è un crimine contro l’umanità di cui dovrebbe occuparsi la Corte di giustizia internazionale (p. 81).

Dunque altrettanto criminale è l’indifferenza delle potenze mondiali che hanno abbandonato il popolo siriano al suo tragico destino, e ipocrita è la posizione della Chiesa che rivendicando il diritto all’auto-determinazione dei popoli e nell’opporsi con forza all’uso delle armi da parte dei ribelli contribuisce a sancire il definitivo collasso della rivoluzione democratica a favore del regime e dei jihadisti che di armi dispongono, eccome (p. 84).

La visione di Padre Paolo potrebbe apparire discutibile, quantomeno sui generis per il ruolo che riveste. Ma chi ha conosciuto Abuna, chi lo ha visto operare per il dialogo interreligioso, capisce perfettamente lo spirito che lo ha animato e ancora lo anima, uno spirito scisso tra la collera e la luce, alla ricerca della giustizia negata al popolo che ama.

Paolo Dall’Oglio, per le sue idee scomode e coraggiose, si è visto rinnegato dalla Chiesa, tradito dalla comunità cristiana complice del regime e minacciato dai fondamentalisti islamici. Anche con questi ultimi ha provato a dialogare con tutti i mezzi possibili, predicando la riconciliazione e la pace per la futura Siria (pp. 109-126).

Padre Paolo ha opposto all’intolleranza religiosa il radicalismo del dialogo da costruire su basi nuove, nuovissime all’epoca del rifiuto, della negazione e del respingimento dell’altro, il presunto nemico. Dall’Oglio aveva fondato una comunità dedita all’esercizio dell’ospitalità e della mutua comprensione. Il senso del suo messaggio lo si coglie bene nelle parole di Yakub, amico cristiano che scrive a Padre Paolo dopo essere stato detenuto nelle carceri del regime:

“Sono uscito dalle tenebre delle carceri, del tradimento che ti pugnala alle spalle, dai luoghi della disumanità. Per andare verso la mia piena libertà che ho ricevuto come promessa nel sole dell’apertura, della tolleranza, della riconciliazione, come abbiamo sempre imparato da te (…). Nelle mie meditazioni personali, in mezzo a tutto il rumore di quelli che erano in prigione con me, durante il mese di Ramadan, e ricordandomi dei nostri dialoghi, ho voluto chiamare quel tempo di preghiera ‘meditazioni ignaziane nella luce del profeta Muhammad’” (p. 68).

Dopo l’espulsione Padre Paolo ha trovato rifugio nel Kurdistan iracheno a Sulaymaniya presso il nuovo Monastero fondato nel 2012 da Padre Jens, uno dei “reduci” di Deyr Mar Musa. Poi, ha deciso di ritornare in Siria, a Raqqa in missione segreta. Lì è stato rapito il 28 luglio dell’anno scorso, da alcuni miliziani dello Stato Islamico del Levante e dell’Iraq (“Daesh”, o “Isis” nell’acronimo inglese), anche se non ci sono state rivendicazioni ufficiali. Era partito alla volta dell’Eufrate per trattare la liberazione di alcuni ostaggi. Da quel giorno sono circolate tante voci sulla sua sorte, ma non si è avuto nessun riscontro certo.

Padre Paolo è stato rapito, oramai da più di sei mesi, e rischia di finire nell’oblio dei media, ma non cadrà nell’oblio la sua missione di pace, la sua opera, “rivoluzionaria” per l’estensione del suo significato e la complessità del contesto. Un’opera che trascende la sfera spirituale, un’azione simbolica e concreta la sua, che sfida le ipocrisie e il conservatorismo delle istituzioni ecclesiastiche, ma sfida pure gli ideologismi immobili e i discorsi convenzionali di chi sull’altra sponda del Mediterraneo utilizza paradigmi stantii e metri inadeguati per parlare di società e popoli, realtà e ambienti mai conosciuti e frequentati.

Il 2013 ci ha portato via Padre Paolo. Che il nuovo anno lo restituisca alla Siria e a tutti noi.

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