http://www.sirialibano.com
7 Feb2014

E’ vero che la Palestina ha dimenticato la Palestina? Questa è la domanda posta da Elias Khoury in un suo recente articolo a proposito della tragedia del campo di Yarmuk, a Damasco, assediato dal regime siriano e teatro di scontri tra milizie lealiste e insorti.

Stimolato dalla domanda di Khoury, ho rigirato il quesito a Wasim Dahmash (foto),
palestinese, maestro di vita e lingue arabe. Di seguito la sua risposta e il testo del suo intervento a un recente convegno in occasione dei vent’anni dagli accordi di Oslo.

Ho letto l’articolo di Elias Khoury e l’ho trovato ottimo. Certamente non si può non concordare con la sua lettura di una tragedia in corso, ma che era largamente prevedibile e prevista.  Era chiaro da molti anni, e senza ombra di dubbio dalla mezzanotte del 12 luglio 1993 – il momento in cui Arafat firmò la famosa lettera indirizzata al generale Rabin in cui “rinunciava al terrorismo” e “riconosceva lo Stato d’Israele”-, che il gruppo dirigente di OLP-Fatah si sarebbe trasformato in qualcos’altro – sarebbe nata l’ANP con gli accordi di Oslo – e avrebbe trasformato i guerriglieri in una polizia collaborazionista. Dai collaborazionisti bisogna aspettarsi il peggio.


Yarmuk, una tragedia annunciata
di Wasim Dahmash

In questo convegno il mio compito è quello di esporre i fatti che   hanno   preceduto   Oslo,   ossia   ciò   che   è  accaduto prima dell’accordo firmato dall’OLP e dal governo israeliano nel 1993. Ripercorrerò quindi rapidamente la specificità del contesto che ha portato l’OLP a firmare quegli accordi. Ovviamente si è trattato di una scelta politica decisa da qualcuno, che può essere anche un organismo collettivo, come risultato di un percorso e di un’elaborazione dettata da motivazioni e da interessi di ordine pratico. Sono molte le ragioni che hanno portato a una data elaborazione politica e comportato la posizione sfociata nella decisione di arrivare a quella firma.

Per capirne il processo, che è durato a lungo, è utile risalire alla nascita dell’organizzazione che ha firmato quegli accordi, l’OLP,che non è una creazione palestinese, è stata voluta invece dalla Lega degli Stati Arabi e in modo particolare dal governo di Nasser. È stato il governo egiziano a proporre con forza un’organizzazione politica dei palestinesi. La ragione per cui l’abbia voluta risiede nel fatto che in quegli   anni   Sessanta,   tutto   il   mondo   arabo   era  in   rivolta,   si registravano proteste tra le quali una rivoluzione nello Yemen e, soprattutto, i profughi palestinesi cercavano di organizzarsi in modo nuovo.   Gli   Stati   che   ospitavano   i   profughi   palestinesi   erano preoccupati di quello che stava avvenendo.

Gli anni del ventennio che va dagli anni Quaranta, quando si realizza la pulizia etnica dei palestinesi e la conseguente affermazione dello Stato di Israele, fino alla creazione dell’OLP nel 1964, sono caratterizzati da un fenomeno che gli israeliani hanno definito degli ‘infiltrati’. L’inverno del 1948-’49 era stato molto rigido in quella regione,   soprattutto   sulle   montagne   libanesi   e   su   quelle   della Transgiordania dove si era rifugiata la gran parte dei profughi tra i quali  molti  cercavano  di  tornare  nelle  proprie  case.  Ma  già  al momento della sua fondazione lo Stato israeliano aveva previsto la linea di demarcazione,  che poi sarebbe diventata provvisoriamente ‘definitiva’, dove erano state create colonie, insediamenti e posti di guardia.

Coloro che cercavano di tornare magari anche solo per prendere oggetti, coperte o pentole o qualsiasi altra cosa, in generale erano uccisi nel corso del tentativo di attraversare le linee, ma alcuni, i cosiddetti ‘infiltrati’, seppure raramente, riuscivano a passare. Alla risposta sempre violenta degli israeliani, con il tempo gli ‘infiltrati’ rispondevano organizzandosi e attraversando le linee con le armi.

È nato così un movimento che, anche se non incideva sugli equilibri  militari  e  strategici  della  regione,  si  organizzava come movimento di guerriglia, in crescita col tempo. Per questo motivo gli Stati, o meglio i governi degli Stati, che ospitavano i profughi, cominciarono a preoccuparsi del fenomeno perché li avrebbe portati a scontrarsi con Israele, scontro che li avrebbe visti ancora una volta sconfitti: oggi si sa bene quali fossero le forze in campo. Quando nel novembre del 1947 le formazioni militari sioniste iniziarono la pulizia etnica della Palestina, disponevano di 120 mila uomini armati, ben addestrati, forniti di mezzi moderni, delle postazioni militari e dei forti che gli inglesi avevano costruito e che a partire dall’estate del 1947 avevano cominciato a consegnare alle forze sioniste all’interno di quel territorio dove poi sarebbe sorto lo Stato di Israele.

Al contrario gli eserciti dei governi arabi erano appena usciti dal colonialismo e l’esercito più importante, quello transgiordano, era controllato direttamente da comandanti e da ufficiali britannici. Su tutto questo sono stati compiuti innumerevoli studi. I governi arabi erano consapevoli perciò che sul campo avrebbero perso qualsiasi guerra: una consapevolezza che c’è tuttora, dato che Israele vincerebbe in qualunque scontro militare. Questa è una delle ragioni, una delle principali ragioni, e non è solo il mio parere, che ha portato alla creazione dell’OLP.

Formalmente l’OLP nasce con un congresso popolare, nel quale  alcune  eminenti  personalità  palestinesi  si  riuniscono  in  un cinema a Gerusalemme, proclamano la nascita dell’Organizzazione, definiscono la loro riunione ‘Consiglio Nazionale Palestinese’ e approvano una carta, la famosa ‘Carta dell’OLP’, che è stata per un lungo  periodo  la  carta  fondamentale  di  quello  che  poi  sarebbe diventato il movimento di liberazione palestinese. L’articolo più importante della Carta stabilisce che l’obbiettivo della lotta palestinese è la liberazione della Palestina.

Questo punto, che spesso s’interpreta come “distruzione di Israele”, parla di liberazione. Ma, di quale liberazione si tratta? Liberare il territorio, lo spazio fisico, e non solo alcune persone. Il congresso di fondazione dell’OLP si è tenuto a Gerusalemme nel 1964, ben prima del 1967, prima pertanto dell’occupazione della Cisgiordania, Gaza, Sinai, il Golan eccetera: il territorio di cui parla la Carta e che s’intendeva liberare era lo spazio fisico dove i profughi sarebbero ritornati ed era anche lo spazio dove si era insediato lo Stato di Israele. Questo è un punto che va chiarito. L’altra questione è che nella Carta si pensa al futuro dopo una liberazione  che  ha  come  obiettivo  la  convivenza  pacifica.  Spesso questo s’interpreta come auspicio per la costituzione di uno stato laico e democratico, anche se il termine ‘laico’ non c’è nella carta dell’atto costitutivo dell’OLP, dove invece esiste un’espressione che fa riferimento a uno “Stato democratico dove possono convivere musulmani, cristiani ed ebrei”. Con precisione maggiore è questa l’idea di riferimento.

La convivenza tra le diverse componenti religiose, auspicata dalla Carta, anche se non voluta o scritta dai movimenti di guerriglia che poi prenderanno il controllo dell’OLP, orienterà il loro operato, almeno  fino  a  un  certo  punto.  Nel  frattempo  il  movimento  di guerriglia si era organizzato ed era nata Fatah, allora l’organizzazione più importante, che  dopo la guerra  del 1967, quindi dopo l’occupazione dei territori, conoscerà un momento di grande crescita. Dopo il ’67 nascevano numerosi altri gruppi di guerriglia, il più importante dei quali era il ‘Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina’   che   si   era   formato   all’interno   del   Movimento   dei Nazionalisti Arabi sotto la guida del palestinese George Habash, che aveva diramazioni in tutto il mondo arabo. La crescita del movimento di guerriglia avveniva su due binari paralleli, o meglio era diviso in due tronconi: quello di Fatah con la sua visione nazionalista, e quello che  viene  definito  con  un  termine forse non  del  tutto  preciso  ma chiaro: ‘sinistra palestinese’. I due tronconi, d’accordo su molti punti, su alcuni divergevano.

La  guerra  del  ’67,  conclusa  con  la  netta  sconfitta  degli eserciti arabi, portava alla crescita di quello che sarà il movimento di resistenza  palestinese,  un  movimento  popolare  con  radici  in  quel fenomeno degli ‘infiltrati’ di cui si è detto e che era ben distante dalla politica degli Stati arabi. La crescita del movimento di resistenza dimostrava che la società civile palestinese, o meglio i profughi e le loro comunità, agivano al di fuori delle politiche dei governi arabi. L’OLP entrava così in crisi, il suo presidente, Ahmad Shuqayri, un avvocato palestinese di grande esperienza, che tra l’altro era stato rappresentante dell’Arabia Saudita alle Nazioni Unite, si dimetteva e al suo posto veniva eletto, in realtà nominato, un militare, Yahya Hammuda. Anche questa fase passa velocemente perché l’anno successivo sono i movimenti di guerriglia a prendere il controllo dell’OLP. Controllo che avviene attraverso il Consiglio Nazionale Palestinese dato che la Carta dell’Organizzazione aveva previsto che nascesse un Consiglio Nazionale (CNP) con delegati che avrebbero dovuto decidere la linea politica.

Arafat, che era la persona più in vista di Fatah, a sua volta il movimento più numeroso e popolare, nel 1969 è eletto presidente dell’OLP. A partire dal 1969 l’OLP e i movimenti di guerriglia coincidono, ossia l’OLP, come formazione politica è controllata dai movimenti di guerriglia ed è formata essenzialmente da due gruppi: Fatah da una parte e il Fronte Popolare di George Habash dall’altra. Tra  il  1967  e  fino  al  1970  si  assiste  all’enorme  crescita  del movimento, ma già in quest’anno comincia il tracollo. Il movimento della  guerriglia  infatti  è  sconfitto  in  Giordania  durante  il  famoso ‘settembre nero’ e i suoi capi, da sconfitti, vanno a rifugiarsi in Libano dove esisteva un’altra base territoriale e dove c’era una comunità di profughi  palestinesi  che  numericamente  era  seconda  solo  a  quella della Transgiordania.

Nel 1973 scoppia la guerra tra gli Stati arabi e Israele, è la terza guerra arabo-israeliana. Dopo la guerra, sembrava che fosse possibile una soluzione politica della crisi, o così avevano creduto il movimento di guerriglia e l’OLP. Arafat è accolto all’ONU e nel dicembre del 1973, dopo la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si riunisce la conferenza di pace di Ginevra. Nonostante che l’OLP fosse stata esclusa da quella conferenza, cominciava all’interno dei movimenti della guerriglia la discussione sulla possibilità di  una composizione  politica.

Protagonisti   del dibattito sono in particolare i due movimenti di cui si diceva, i due tronconi  portanti  con  una  base  popolare,  mentre  gli  altri  erano costituiti da piccoli gruppi, spesso creati dai governi arabi, in realtà inesistenti, come lo sono tutt’ora. Comincia quindi la discussione sulla possibilità di una soluzione negoziale: ecco perché si accetta di discutere anche la Carta dell’OLP, soprattutto sul punto riguardante l’obbiettivo della lotta palestinese. La discussione andrà avanti per molti anni, ma a partire da quel momento l’OLP cerca di allargare i suoi  contatti  internazionali,  apre  uffici  in  varie  parti  del  mondo, contatta partiti, sindacati e governi, cercando così di tessere una rete di relazioni che la mettesse in grado di valutare la possibilità di una soluzione negoziale.

Il fatto importante avviene nell’aprile del 1974, alla sesta sessione del Consiglio Nazionale Palestinese, l’organo, tra virgolette, legislativo dell’OLP. In quella sessione, su suggerimento del ‘Fronte Democratico per la liberazione della Palestina’, gruppo guidato da Nayef Hawatmeh, che si era scisso dal Fronte Popolare, s’inserisce una delibera per cui l’OLP decide che l’obbiettivo della lotta sarebbe stata la costituzione di uno Stato palestinese su qualsiasi parte del territorio che si fosse potuto liberare.

Questo passaggio, che sul momento era passato, come dire, quasi inosservato, è importante, perché, mentre la carta diceva che gli obbiettivi erano la liberazione della Palestina e la realizzazione del diritto all’autodeterminazione, da allora in poi resterà vuota retorica ricorrente nei discorsi dei capi dell’OLP: quando parleranno di fatti e di   decisioni   politiche   diranno   un’altra   cosa,   parleranno   della possibilità della creazione di uno Stato palestinese su una parte del territorio.  Ma  di  quale  territorio  stiamo  parlando?  Dei  territori occupati nel 1967, cioè di Cisgiordania e Gaza. E infatti la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza stabilisce che Israele deve evacuare questi  territori  e glissa  sul  resto.  Da  quel  momento  in  poi l’OLP parlerà di “costituzione dello Stato”, non parlerà più di liberazione.

Questo passaggio acquisterà il senso non solo della rinuncia al territorio e al diritto al ritorno, significherà anche il venir meno del principio all’autodeterminazione, del principio della liberazione inteso come diritto all’autodeterminazione non soltanto nazionale, che secondo me è un fatto marginale, ma soprattutto rinuncia al diritto, sia a  quello  comunitario,  sia  a  quello  individuale,  cioè  rinuncia  al concetto in base al quale il diritto deve essere la guida di ogni nazione, di ogni azione politica oltre che di ogni azione militare, ossia il diritto inteso come ‘legalità’. Certo, si continuerà a parlare e si ripeteranno per qualche tempo ancora parole d’ordine del tipo “diritto al ritorno dei profughi”, poi si smetterà di parlare anche di questo. Il cambiamento della politica dell’OLP insomma non avviene con Oslo, avviene nel 1974, dopo la guerra del 1973, come conseguenza, forse, di ciò che è seguito alla sconfitta.

Bisogna anche ritornare a un fatto in apparenza marginale in questo contesto: tutti noi ci ricordiamo della crisi petrolifera, ma, in cosa  è  consistita  questa  crisi?  L’Arabia  Saudita,  che  poi  creerà l’OPEC, insieme ad altri stati produttori di petrolio decide di fermare l’estrazione finché la guerra fosse stata in corso: si trattava di premere sulle grandi potenze, sui paesi ricchi e su quelli industriali per costringerli a prendere posizione, per avviare e accelerare il processo negoziale.  Per  altro  verso  però  la  decisione  dell’Arabia  Saudita spostava l’equilibrio medio-orientale a favore dei paesi produttori di petrolio – e delle multinazionali del petrolio che controllano quei paesi – i quali avranno da allora in poi un maggior peso nelle decisioni e nell’elaborazione delle posizioni.

Un altro fatto da ricordare è che, quando su iniziativa della Lega araba è stata costituita l’OLP, i governi arabi decidono di finanziare  l’Organizzazione  palestinese,  oltre  che  attraverso  altri canali, anche con il versamento nelle casse dell’OLP del 5% delle tasse dei lavoratori palestinesi nei paesi arabi, ovvero gli operai dei pozzi petroliferi in Arabia Saudita o i medici in Egitto, dovevano versare il 5% del loro reddito all’OLP.

Si mette in piedi, quindi, un afflusso di denaro che, dopo la cacciata dell’OLP dalla Giordania nel 1970, aumenterà perché si sommerà alla continua donazione saudita e degli altri paesi del Golfo. Ciò ha permesso all’OLP in Libano di costituire una sorta di Stato nello Stato, di erogare servizi che lo Stato libanese non era in grado di fornire, un sistema educativo o sanitario per esempio, di cui godevano non solo i palestinesi, ma anche i libanesi, soprattutto nel sud del Libano, quelli delle aree più povere.

Ma c’è dell’altro: gli interessi economici tra l’OLP e i paesi produttori di petrolio, non erano solo di dipendenza, a volte erano anche  di  collaborazione  economica  e  finanziaria,  un  passaggio davvero interessante. Quando nel 1982, dopo l’invasione israeliana del Libano,  la  dirigenza  dell’OLP  e  i  guerriglieri  ormai  concentrati soltanto in Libano sono costretti a lasciare il territorio, questo potere finanziario diventa determinante perché l’OLP, nel perdere la base territoriale, perde anche la base popolare. La dirigenza dell’OLP è confinata a Tunisi, i guerriglieri sono confinati in campi nel deserto libico e algerino, in pieno Sahara. Da questo momento l’OLP e Fatah cominciano a diventare una cosa sola, ma, perché avviene questo? Perché è chiaro che chi controlla le finanze controlla anche l’Organizzazione, ed è la dirigenza di Fatah, un ristretto numero di persone, ad averle in mano entrambe. Anche questo è un aspetto che va preso in considerazione.

L’OLP, così isolata, tenta altre strade, per esempio nel 1983, un anno dopo la sconfitta del 1982, dopo l’invasione israeliana del Libano, Arafat si reca al Cairo e incontra Mubarak: è la prima volta, perché dopo Camp David, dopo gli accordi di pace tra Egitto e Israele, l’Egitto era stato espulso dalla Lega Araba ed erano stati interrotti i rapporti diplomatici, almeno formalmente, tra l’Egitto e gli altri Stati arabi. Arafat rompe questa linea e quindi apre al dialogo. Poi tenterà altre strade, per esempio nel 1984, all’ottava sessione del CNP, questa volta ad Amman, lancia l’ipotesi di uno Stato giordano-palestinese costituito da due regioni, una transgiordana e una cisgiordana. È ormai evidente che l’OLP, perdendo la sua ultima base territoriale, aveva perso la capacità di dirigere la lotta di liberazione  palestinese. È stato quello il momento in cui il Fronte Popolare e il Fronte Democratico, che sono i due gruppi più consistenti della sinistra, di fatto rompono con Fatah.

Ma questo non vuol dire che nel frattempo nei territori occupati tutto fosse rimasto fermo, anzi, l’allontanamento dell’OLP, cioè del movimento della guerriglia, dai confini della Palestina storica, per i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza, ma anche per tutti i palestinesi,  ha  reso  evidente  l’importanza  di  dipendere  solo  da  se stessi e di dover fare qualcosa in prima persona: uno dei motivi che hanno portato a quel grande movimento popolare conosciuto come ‘intifada’. Un movimento che ha colto di sorpresa, perché inaspettato, sia il governo israeliano, che pensava di avere ormai il controllo totale della  popolazione  palestinese,  sia  l’OLP,  ormai  formata  dalla  sola Fatah e sia gli altri gruppi marginali.

Dopo pochi giorni dall’inizio dell’intifada, l’OLP cercherà di riprendere e di utilizzare anche questo movimento tanto da arrivare a dichiarare che la rivolta era stata programmata, mentre in realtà l’Organizzazione era stata totalmente colta di sorpresa, tant’è vero che per riaffermare la propria presenza nei territori  occupati e comunque la propria presenza politica, non seppe fare altro che tentare di compiere azioni spettacolari. Azioni evidentemente destinate al fallimento, ma non era il successo che contava, non era questo l’obbiettivo: quel che contava in quel momento era dimostrare la propria presenza. Ne è esempio la questione della ‘nave del ritorno’ che non è mai partita e non è mai arrivata da nessuna parte.

Di questa nave si è fatto un gran parlare, un gran parlare per telefono e per fax, tutti sapevano che sarebbe salpata una nave con a bordo numerose e qualificate personalità: doveva essere la ‘nave del ritorno’. Una nave fu effettivamente presa in affitto a Cipro dopo mesi di ricerche, solo che agenti del Mossad israeliano la fecero saltare in aria dopo un giorno con due inviati dell’OLP a bordo che furono uccisi. Questo è solo uno degli esempi, ma se ne possono raccontare molti altri perché tutti i giornali erano pieni di questi episodi: dei tentativi dell’OLP di riaffermare la propria presenza sia nell’ambiente palestinese che sulla scena internazionale.

Ma se l’intifada aveva colto di sorpresa l’OLP, il governo israeliano invece aveva capito subito cosa bisognava fare, quale fosse il punto di forza di questo movimento popolare: la sua non-violenza. Mentre la dirigenza palestinese continuava a non capire tentando azioni armate per dimostrare di esistere, la prima reazione del governo israeliano, oltre alla repressione violenta delle manifestazioni, fu quella di espellere immediatamente coloro che teorizzavano la non-violenza. Tra i primi c’era Mubarak Awad, un prete palestinese di Gerusalemme che aveva fondato il Centro di Studi sulla Non-Violenza, e non è un caso che i dodici primi espulsi appartenessero tutti a questo centro ed erano  i firmatari del  primo manifesto  dell’intifada.

La repressione delle dimostrazioni popolari fu feroce: Rabin, ministro della difesa, inventerà la ritorsione del ‘rompere le ossa’ ai palestinesi che lanciavano sassi. E in effetti i soldati israeliani presero alla lettera la raccomandazione ed esibendo il piacere con cui la realizzavano, con sadismo si misero a rompere le ossa ai bambini. L’intifada andò avanti solo per alcuni mesi, ma il movimento popolare resterà attivo nel corso degli anni cambiando fisionomia.

Nel frattempo avviene un fatto importante: la Prima Guerra del Golfo. Nel 1990 l’Iraq invade il Kuwait, gli USA attaccano l’Iraq, occupano militarmente i sei paesi del Golfo, e per rabbonire gli arabi dichiarano  di voler risolvere la questione  palestinese. Nel 1991 si arriva così alla conferenza di pace di Madrid. E per arrivare alla conferenza di Madrid ci fu un lungo braccio di ferro per indebolire ancora  di  più  le  posizioni  dell’OLP:  in  un  primo  tempo  non  si volevano ammettere negoziatori palestinesi, in un secondo tempo si sarebbero ammessi ma all’interno di una delegazione giordana, successivamente fu avanzata la pretesa che i negoziatori fossero scelti dagli israeliani, o meglio che avessero il benestare israeliano.

Tutto questo per dire che il processo negoziale si è svolto tra due parti delle quali una era vincente, e non solo militarmente, e l’altra era perdente. Il negoziato non poteva quindi che portare a un tipo di accordo che il diritto  ha definito  ‘leonino’: è sempre  il  leone che mangia  la  sua preda. E ancora, mentre il negoziato iniziava e subito si chiudeva a Madrid, se ne apriva un altro a Washington tra una delegazione palestinese e una israeliana: era il tentativo di frammentare il fronte nemico, ossia isolare la delegazione palestinese avviando trattative bilaterali. Comunque, nonostante che con la copertura degli Stati Uniti gli israeliani tentassero di tenere segreto il negoziato in modo da arrivare agli accordi attraverso ricatti e pressioni, i negoziatori palestinesi andati a Washington, guidati da un noto medico di Gaza, Haidar Abdul-Shafi, riferivano ai giornali, e quindi all’opinione pubblica,  i  contenuti  della  discussioni  in  corso.

E  questo  non  era ‘bene’ tanto che, ancora parallelamente, si apriva un canale segreto, quello famoso di Oslo, tra l’OLP, vale a dire alcuni dirigenti di Fatah,tre per esattezza, e il governo israeliano. Bisogna chiarire che i contatti tra il movimento di resistenza prima, l’OLP dopo, e il governo israeliano non sono mai cessati. Al contrario di ciò che si crede comunemente, i contatti ci sono sempre stati e la ragione risiede in fatti storici da ricordare. Nel 1949 erano stati  conclusi  gli  accordi  di  tregua  e  per  la  loro  applicazione  tali accordi prevedevano incontri, sotto la supervisione ufficiale delle Nazioni Unite, tra le forze militari contrapposte in armi, quindi tra israeliani e siriani, israeliani e giordani, israeliani e libanesi e così via. I primi incontri avevano un carattere formale perché si svolgevano sotto l’egida delle Nazioni Unite, quelli successivi persero questa caratteristica dato che iniziarono a intervenire altre istituzioni e apparati: per esempio, i servizi segreti dei paesi arabi che ben conoscevano i palestinesi e i loro primi gruppi di guerriglia.

Anche a livello politico continuano a esserci contatti importanti, il più famoso è quello stabilito da Uri Avnery, giornalista che allora era direttore di una rivista, Haolam Haze, del campo pacifista di Israele, del quale è nota la traversata della linea del fronte israeliano in Libano nel 1982, quando va a incontrare e a intervistare Arafat per il suo giornale. È ovvio però che se c’è un esercito che avanza e da solo un uomo attraversa le linee, devono esserci stati contatti e accordi precedenti che gli permettessero di passare e di arrivare a destinazione. Questo è solo uno dei tanti esempi che si possono ricordare, un altro è quello che si è svolto due anni prima, a Roma nel 1980, tra una delegazione dell’OLP e una composta da esponenti politici israeliani i quali poi riferirono al loro governo. Uri Avnery era uno dei partecipanti e in quell’occasione dichiarò che ogni incontro al quale lui avesse partecipato, ne avrebbe riferito personalmente i contenuti al capo del governo di Israele.

Attraverso   questi   contatti,  Arafat   in   particolare,   si   era convinto che Rabin fosse la persona giusta con cui trovare un accordo: perché era un militare – il potere reale in Israele era, ed è, in mano ai militari -, e perché godeva del prestigio necessario. Ma se la storia dei contatti è per molti aspetti significativa, molti altri fattori hanno spinto l’OLP,   o  il  gruppo   dirigente  guidato  da  Arafat,   ad   affrontare l’incognita di Oslo: quello più importante è stato lo scoppio dell’intifada. Il fenomeno stava portando in primo piano nuovi protagonisti,  giovani  che  emergevano  per  le  loro  capacità organizzative e come capi di una rivolta popolare. Come ho già detto, se per un verso l’intifada ha colto di sorpresa la dirigenza palestinese, per altro verso ha segnato l’inizio di un processo di consapevolezza politica della popolazione. Una consapevolezza che ha spaventato tutti e che ha accelerato il tentativo di controllare il movimento popolare: è stato questo uno dei fattori che hanno portato agli accordi di Oslo.

Per concludere riassumo i principali fattori che hanno indotto i dirigenti di Fatah-OLP a stipulare gli accordi con il governo israeliano:

1- la sconfitta militare della resistenza palestinese in Libano nel 1982 e  la  conseguente  perdita  della  base  territoriale  della  guerriglia  e l’isolamento   dei   suoi   dirigenti   a   Tunisi,   lontano   dalle   masse palestinesi;

2- il fatto che Fatah e OLP siano arrivate a sovrapporsi e a coincidere fino al punto da determinare l’esclusione dai processi decisionali degli altri protagonisti della vita politica palestinese;

3- il fatto che pochi dirigenti di Fatah-OLP avessero il controllo delle finanze palestinesi con la conseguente dilagante corruzione che ha contribuito al crollo della fiducia popolare nei dirigenti dell’OLP e del consenso verso la loro politica;

4- il fatto che con la sollevazione popolare nei territori occupati nel 1987 i dirigenti di Fatah-OLP temettero di perdere spazio politico e cercarono di  imbrigliare il movimento popolare;

5- il fatto che sulla scena politica panaraba si siano rafforzate le petro-monarchie ‘clienti’ degli USA in seguito alla guerra del Golfo nel 1990;

6- il crescente isolamento internazionale dell’OLP in seguito al crollo dell’Unione Sovietica;

7- l’impellente necessità che dirigenti di Fatah-OLP avevano di neutralizzare l’emergere sulla scena politica internazionale negli anni 1990-1993  di  una  nuova  élite  politica  palestinese  formatasi  nel contesto dell’intifada.

Sono queste in sintesi, gli antefatti determinanti che hanno spinto i tre dirigenti di Fatah, cioè Yasser Arafat, Mahmud Abbas Abu-Mazen e Ahmad  Quray Abu-Ala’,  a  concludere  un  accordo  con  il  governo Rabin che ha trasformato Fatah-OLP nella ‘Autorità Nazionale Palestinese’ (ANP), destinata a diventare un ingranaggio funzionale al sistema di controllo israeliano della Cisgiordania e di Gaza.


* Wasim Dahmash è nato a Damasco nel 1948 da genitori palestinesi espulsi dalla città di Lidda (oggi Lod) dopo il massacro della moschea Dahmash del 13 luglio 1948 in cui i soldati dell’appena costituito esercito israeliano massacrarono oltre 400 persone. E’ stato membro dell’OLP fino al 1993.

Ha insegnato dialettologia araba all’università Sapienza di Roma dal 1985 al 2006, quando si è trasferito all’università di Cagliari, dove insegna lingua e letteratura araba. Esperto di dialettologia araba, si occupa anche di traduzione letteraria.

Questo testo è la trascrizione italiana, a cura della sezione italiana dell’International Solidarity Movement (ISM-Italia), della relazione presentata da Dahmash al convegno di studio su “Gli accordi di Oslo – 20 anni dopo” tenutosi tra Roma, Milano e Torino ai primi di ottobre 2013.

top