Fonte: Pagina99
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14 luglio 2014

La storia di Dyar, fuggito da una prigione dell’Isis
di Luca Pistone

Per l’Isil essere curdo è sinonimo di empietà. Per la sua tolleranza religiosa, la regione del Kurdistan, in tutti i paesi che tocca, è vista dal gruppo armato che sta mettendo sotto scacco gli eserciti di Siria e Iraq come un luogo di peccatori. “Sono rimasto sei mesi in una prigione degli estremisti sunniti solo perché sono curdo, questa è stata la mia unica colpa”.

Sono pochi quelli che hanno avuto la fortuna di uscire sani e salvi da un carcere dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), che pochi giorni fa si è rinominato Stato Islamico (Is), proclamando come proprio un territorio che va dal nord della Siria alla provincia irachena di Diyala.

Tra questi c’è Diyar, che dopo sei mesi di prigionia in una cella di appena due metri quadrati, in compagnia di altre undici persone, ha riacquistato la libertà riuscendo a scappare dai suoi aguzzini.

Un’estate di due anni fa Dyar, allora ventiseienne, tornava da Damasco, dove era iscritto alla facoltà di giornalismo, a Qamshli, nel Kurdistan siriano, dove abitava con la famiglia. Il tragitto che divide le due città, circa ottocento chilometri, era, come oggi, costellato di check point di tutte le organizzazioni armate coinvolte nel conflitto siriano. All’altezza di Raqqah viene sottoposto all’ennesimo controllo dei documenti in una postazione con issata una bandiera nera, quella dell’Isil. Uomini armati di kalshnikov e col volto coperto dalla kefiah notano che Dyar è curdo e lo conducono dai loro superiori. “Non mi sono mai interessato di politica né tantomeno ho mai fatto parte di una milizia. Ero e sono contro Assad, ma a quei tempi certe cose le tenevo per me”, racconta Dyar, sorseggiando il suo chai bollente in un bar della periferia di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno.

Prende fiato e riprende: “Mi hanno chiesto se fossi curdo. Era evidente, era scritto sulla mia carta d’identità. Mi hanno dato dell’infedele, del peccatore e del cane perché non ero un vero musulmano. Ho provato a spiegare che ero un buon musulmano, che recitavo le cinque preghiere, ma non è servito a nulla”. L’Isil non accetta che nel Kurdistan, sia esso siriano, iracheno, turco, iraniano o armeno, si pratichino altre correnti dell’Islam che non siano il sunnismo. Figurarsi altre religioni. Ai suoi occhi tutti i curdi, anche se sunniti, sono degli infedeli perché tollerano gli altri nuclei religiosi. Caricano Dyar su un pick-up e gli bendano gli occhi. Dopo un paio di ore si ritrova in un corridoio buio ed umido insieme ad altre undici persone, i futuri compagni di cella, ed un numero imprecisato di guardie. Fatti spogliare, rimangono solo con gli slip. L’ordine dei carcerieri è quello di inginocchiarsi e pregare.

“Tra di noi c’erano due cristiani, curdi anche loro, che al momento di genuflettersi hanno ammesso di non saper pregare come i musulmani. Quelli dell’Isil hanno iniziato a picchiarli selvaggiamente, prima con calci e pugni, poi con la cinghia. Più si raggomitolavano per proteggersi dai colpi, e più quelli si avventavano su di loro. La stessa sorte è poi toccata a noi. Il perché? Eravamo curdi, tutto qui”.

Terminata la fase del ‘benvenuto’, i dodici, con polsi e caviglie legati, vengono fatti entrare in una cella di due metri per due. Il caldo è asfissiante, e i dolori del pestaggio iniziano a farsi sentire. Non c’è spazio per sdraiarsi tutti insieme e, nonostante lunghi rompicapi, la soluzione è una sola: organizzare dei turni per far dormire un’unica persona alla volta. Il cambio avviene ogni dieci minuti.

“Nell’arco della giornata, l’unico momento in cui ci era concesso di uscire dalla cella era quando andavamo al bagno. Potevamo farlo una sola volta al giorno, e non per più di un minuto. Per la seconda, terza o quarta volta, dovevamo farla a terra”.
Dyar ha finito il suo chai e gioca con la tazzina decorata, facendola rotolare sul tavolo. Altro respiro profondo: “Mi rintanai nella preghiera, non potevo fare altro”.

Prega ininterrottamente, cosa che non sfugge all’occhio vigile dei suoi carcerieri. Si guadagna una ‘promozione’ sul campo, che consiste nello stare in cucina, dove per buona parte della giornata deve preparare i pasti per gli uomini dell’Isil e i detenuti del carcere. “Ero sorvegliato da un uomo armato, piazzato davanti ad una porta perennemente chiusa. Centinaia di piatti ogni giorno. Non ho mai avuto modo di vedere gli altri prigionieri, ma devono essere stati numerosi”.

Una notte, era ormai inverno, cinque suoi compagni vengono prelevati dalla cella, ammanettati, incappucciati e portati via. Non ha mai saputo che fine abbiano fatto. Alcuni minuti dopo, Dyar e i rimanenti sei uomini, tra cui i due cristiani, vengono scortati in cucina. La guardia incaricata di sorvegliare la preparazione del rancio indica a Dyar un sacco con dei vestiti ed esce dalla stanza. Con grande sorpresa, Dyar nota che per la prima volta la porta sempre difesa dalla guardia è aperta. Nella cucina cala il silenzio, nessuno ha il coraggio di avvicinarsi alla porta, che affaccia su un cortile. “C’era chi suggeriva di non muoversi di un centimetro e chi di tentare la fuga. La mettemmo ai voti. Ci vestimmo e fuggimmo”.

Attraversato il cortile, privo di guardie, si trovano nel deserto. Si gela, ma il sapore della libertà l’ha vinta sul freddo. Percorrono alcuni chilometri verso nord, fino a quando s’imbattono in un gruppo di uomini armati. È l’Esercito libero siriano, che dopo un lungo interrogatorio li scorta ciascuno alle proprie case. Dyar preferisce non soffermarsi troppo sull’incontro con i suoi cari. Si commuove: pensandolo morto, avevano recitato una preghiera funebre per lui.

“Continuo a chiedermi perché ci abbiano lasciati andare. Perché solo alcuni noi? Che fine hanno fatto gli altri? L’Isil avrà capito di aver commesso un errore? Siamo curdi, questa è stata la nostra unica colpa, se di colpa si può parlare. Non nego che nel Kurdistan si verifichino casi di discriminazione verso le altre religioni. I sunniti sono il gruppo più folto, ma verso le altre fedi regna una certa tolleranza. Può mai essere questo un crimine? Può mai questo giustificare tanti mesi di disumana prigionia? L’Isil dice di incarnare lo spirito del sunnismo. Anche io sono sunnita, un buon sunnita, ma rispetto gli sciiti, i cristiani e le altre minoranze religiose. Sunnismo non è sinonimo di integralismo e terrorismo. Curdo non è sinonimo di empietà”.

Oggi Dyar lavora come giornalista presso un quotidiano del Kurdistan iracheno. Si occupa di cultura, cultura curda. Non può tornare in patria perché è ricercato dalle milizie del Pyd (Partito dell’Unione Democratica), braccio siriano del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) turco. Dopo la fuga dal carcere, ottenuta la laurea in giornalismo a Damasco, volle indagare su un bombardamento ai danni di una caserma dei miliziani del Pyd da parte dell’Isil.

Accusato di spionaggio, venne arrestato. Ma anche in questa occasione riuscì a scappare.

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