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29/12/2013

Le ONG nel nord della Siria, tra il martello degli islamisti e l’incudine dei turchi
di F.D.

Soltanto un anno fa, il nord della Siria sembrava l’eldorado delle ONG internazionali. Nell’estate del 2012, vari gruppi d’opposizione si erano impadroniti dei posti di frontiera con la Turchia e mantenevano il controllo di una vasta parte dei governorati di Aleppo e di Idlib.

All’epoca questi gruppi d’opposizione erano in generale disponibili e accoglienti nei confronti delle agenzie umanitarie. Il pericolo principale per gli operatori umanitari era un eventuale attacco del regime; ma nelle zone vicine alla frontiera il rischio di un’offensiva terrestre da parte del regime era ormai quasi nullo. Il rischio di un bombardamento aereo rimaneva reale, ma sufficientemente moderato. Una dopo l’altra, le ONG aprivano basi e uffici nei governorati turchi vicini alla frontiera, inviavano il loro personale all’interno della Siria, lanciavano progetti di assistenza e distribuivano aiuti umanitari.

A partire dalla primavera del 2013, le difficoltà sono improvvisamente aumentate. Verso fine marzo, il rapimento di due operatori di un’ONG internazionale ha spinto la maggior parte delle organizzazioni a ritirare dalla Siria il loro personale straniero e a continuare le attività con un monitoraggio a distanza a partire dal lato turco. A maggio, l’esplosione di un’autobomba nella cittadina turca di Reyhanli ha aumentato le tensioni nelle regioni di frontiera. A partire da allora, le ONG internazionali si sono trovate a fronteggiare due diversi tipi di ostacoli.

Dal lato siriano, la frammentazione dell’opposizione e l’espansione progressiva dei gruppi islamisti radicali, tra cui in particolare lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), hanno aumentato i rischi e le restrizioni per gli operatori umanitari. Oltre al pericolo di rapimento, il personale delle ONG si trova a volte indirettamente esposto agli scontri tra diversi gruppi d’opposizione per il controllo del territorio. I posti di blocco sulle strade principali passano regolarmente di mano in mano e ogni volta il diritto di transito deve essere rinegoziato.

Il risultato di questa insicurezza: almeno due operatori siriani sono rimasti uccisi nel corso del 2013. E in un’occasione, un cooperante internazionale è stato convocato di fronte a un tribunale islamico di Jabhat al Nusra con un’accusa infondata di spionaggio. Oltre ai pericoli per il personale, le organizzazioni straniere vedono il loro campo di intervento sempre più ristretto. Ad esempio, in una città controllata da ISIL, non è più possibile condurre nessuna attività di formazione e sensibilizzazione per la popolazione locale, perché tutte le riunioni di più di tre persone sono state proibite.

Come se tutto ciò non bastasse, anche la situazione dal lato turco è progressivamente peggiorata. Le autorità turche, in particolare nella regione di Antakya, hanno esercitato diverse pressioni sulle ONG internazionali e creato una serie di nuovi ostacoli. I controlli ai posti di frontiera si sono inaspriti e il passaggio in Siria è diventato molto più difficile. Alcuni cooperanti stranieri sono stati espulsi per aver tentato di attraversare illegalmente la frontiera. Diverse ONG hanno ricevuto l’ordine di chiudere i loro uffici e di lasciare il paese.

Questo accanimento è legato al fatto che la maggior parte di queste ONG non sono registrate ufficialmente in Turchia. Molte di loro vi sono arrivate per la prima volta in risposta alla crisi siriana; ma le procedure per ottenere una licenza prendono mesi o anni e sono a volte respinte. Secondo l’opinione di alcuni cooperanti, la Turchia non vuole concedere nuovi permessi per timore che le ONG, una volta terminata la crisi siriana, rimangano nel paese e inizino ad occuparsi di problematiche locali, tra cui ad esempio la questione delle regioni curde. Il governo turco potrebbe però concedere dei permessi temporanei, rinnovabili ad esempio di sei mesi in sei mesi, per permettere alle ONG di portare aiuto in maniera stabile e sicura alle popolazioni del nord della Siria.

Attualmente invece molte ONG si vedono costrette a ridimensionare o sospendere i loro programmi di assistenza. La chiusura di certi passaggi di frontiera obbliga alcuni operatori umanitari a compiere dei tragitti più lunghi per raggiungere i loro centri di attività, attraversando delle zone di guerra e quindi assumendosi più rischi. L’invio di materiale umanitario in Siria è diventato più complesso e imprevedibile. A causa di queste restrizioni delle autorità turche, migliaia di siriani non ricevono più gli aiuti di cui hanno urgentemente bisogno.

In definitiva, gli interventi umanitari nel nord della Siria rischiano di diventare ben presto impraticabili. Le reazioni dei gruppi armati islamisti sono difficili da prevedere e impossibili da controllare. D’altra parte, la Turchia è uno stato sovrano che si dichiara democratico e che sta negoziando un eventuale accesso all’Unione Europea. I governi europei dovrebbero impegnarsi, con la diplomazia e le pressioni, a negoziare il diritto per le ONG internazionali di lavorare in Siria attraverso la Turchia. Così facendo, oltre ad assicurare un minimo di aiuti per la popolazione siriana, contribuirebbero ad evitare rischi inutili per i cooperanti europei al lavoro su questa complessa frontiera.

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