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4 Maggio 2014

Blair e la Siria: il compromesso con Assad è già cominciato
di Lorenzo Trombetta

«Bisogna trattare con Assad», dice Tony Blair. Ma in realtà la spartizione della Siria in aree di influenza è stata avviata già da tempo

BEIRUT – Si guarda il dito e non la luna quando si discute se scendere a compromessi o meno con il presidente siriano Bashar al Assad, come di recente suggerito dall’ex premier britannico Tony Blair, per questo esplicitamente criticato dal Financial Times in un editoriale in cui si afferma che il rais siriano deve esser invece condotto alla sbarra del Tribunale penale internazionale. Con l’accordo russo-americano – stipulato con la benedizione dell’Onu nel settembre scorso sullo “smaltimento dell’arsenale chimico” dichiarato da Damasco – il consesso delle potenze occidentali è di fatto già sceso a compromessi con la Siria degli Assad, tenuta in piedi da una solida e coerente impalcatura innalzata dall’Iran e dalla Russia.

Sul terreno, i due alleati storici di Damasco stanno consolidando il controllo della cintura che dalla capitale risale verso Homs e si infila a ovest lungo la costa mediterranea. Solo nominalmente questa è la Siria di Assad, in realtà è la Siria russo-iraniana. Ma la presenza di Assad e del suo regime è indispensabile per Mosca e Teheran: da una parte serve per mostrare l’esistenza di una formale legittimità politica (le elezioni presidenziali del 3 giugno servono a rafforzare quest’apparenza di normalità istituzionale); dall’altra è una carta negoziale da barattare in un futuro vero negoziato con le rivali potenze regionali e internazionali: “Noi vi diamo Assad, voi cosa ci date?”.

E se i confini della Siria moderna disegnati un secolo fa da francesi e britannici non saranno messi in discussione, perché tutti gli attori regionali e internazionali sono d’accordo nel non alterare lo status quo, gli altri territori siriani stanno entrando sotto influenze diverse: la regione meridionale di Daraa, in gran parte controllata dal variegato fronte di insorti, è al centro di un disegno americano-giordano-israeliano per la creazione di una fascia di sicurezza che protegga lo Stato ebraico e il regno hascemita dalla presenza di miliziani con agende troppo anti-sioniste e anti-Usa.

In questo disegno si inseriscono le notizie dell’addestramento in Giordania di “ribelli moderati” e del loro rifornimento di “armi sofisticate” da parte degli Stati Uniti. Eppure il fronte sud – che dista appena 60 km da Damasco – da mesi non avanza: la priorità a breve termine di Washington non sembra quella di far cadere Assad con una cavalcata da Daraa, ma assicurare la protezione dei suoi due alleati mediorientali.

A nord-est, la zona a maggioranza curda tenta con fatica di ritagliarsi lo spazio per un’autogestione all’ombra dell’ingombrante tutela dei “fratelli” dell’Iraq settentrionale. Ma la presenza dei qaedisti a sud, dei turchi a nord e di sacche di militari di Assad all’interno della stessa regione rimandano ogni reale progetto di autonomia curda.

Da est e fino al capoluogo settentrionale di Raqqa (dove pare sia rinchiuso da nove mesi il gesuita italiano Paolo Dall’Oglio), i qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) sono la forza dominante. E ormai da tempo lavorano come forza di contro-insurrezione a danni dei ribelli – tra cui qaedisti locali – e dell’emergente società civile. Quasi tutto il corso siriano dell’Eufrate e una fascia frontaliera con la Turchia sono tinte del nero di un gruppo criminale che si dice legato ad al Qaeda, ma che è invece sempre più in rotta col suo leader Ayman al Zawahiri (che ieri, in un messaggio video, ha nuovamente chiesto all’Isis di lasciare la Siria e impegnarsi piuttosto in Iraq) e con gli altri qaedisti siriani della Jabhat al Nusra. Se l’Isis non è al Qaeda, chi manovra l’Isis? In Siria si è diffusa da tempo la percezione popolare che questi criminali servano di fatto gli interessi del regime.

In questo gioco interpretato da barbuti tagliagole non si può escludere la ripetizione dello scenario algerino, con servizi segreti di vari paesi operativi dietro le quinte per delegittimare una ribellione che avrebbe finito per danneggiare gli interessi delle potenze della regione. Oltre all’eventuale coinvolgimento russo (i qaedisti caucasici hanno un ruolo significativo nell’Isis), anche la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar potrebbero aver usato alcune frange dell’Isis per perseguire i propri progetti egemonici.

In questo quadro di spartizione della Siria in zone d’influenza, il compromesso è già in corso: le potenze occidentali e i loro alleati mediorentali ragionano a breve e medio periodo, anche perché sono incalzate da scadenze politiche interne; i vertici russi e iraniani lavorano invece con maggior continuità e coerenza senza dover tener troppo conto dell’elettorato e dei propri media. A loro per vincere basta l’attuale pareggio: l’avversario che si trovano ad affrontare riesce a malapena a superare la linea di centrocampo e Assad rimane tranquillo tra i pali di una porta dove non arriva nessun tiro insidioso.

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